giovedì 15 ottobre 2015

Il FANTASMA SENZ’ANIMA La fulgida bellezza di Edoardo era stata incenerita dalla peste che nel 1630 era scoppiata a Milano. L’epidemia non aveva risparmiato nemmeno la nobile famiglia del giovane ed uno ad uno, tutti i familiari, straziati e torturati erano morti fra mille sofferenze. Edoardo aveva lasciato questa vita per ultimo, dopo aver seppellito i suoi cari e soprattutto l’amato fratello. Per settimane, notte e giorno, aveva pregato che la terribile malattia risparmiasse i suoi cari ma le sue invocazioni erano rimaste vane e così quando l’ora della morte era arrivata anche per lui, Edoardo era pieno di odio per la vita, per il destino, per tutto l’universo. La sua anima tracimava di rancore liquido e miseria d’amore. Vent’anni erano sufficienti per spirare gridando contro la vita e l’universo? Sembrerebbe di sì e così Edoardo, livido di violenza, era diventato un fantasma, schiavo del suo rancore e del suo astio. Aveva mantenuto la bellezza della mortalità…anzi, nell’oltretomba era diventato ancora più bello…nemmeno il sole o la luna era così splendenti, ma rimaneva prigioniero di un mondo freddo, silenzioso e solitario. La condanna che gli era stata inflitta erano stati infatti mille anni di solitudine. Il suo fantasma aveva accesso al mondo dei viventi, ma non poteva essere visto da nessuno, non poteva parlare con le persone e non poteva toccare niente. Nemmeno con gli altri fantasmi come lui poteva comunicare ma poteva tentare di influenzare solo i pensieri degli esseri viventi poiché i fantasmi sono fatti di elettricità e quindi possono condizionare la trasmissione elettrica dei neuroni. Ma Edoardo era completamente solo e così dal giorno della sua morte, aveva vagato per le città, per le valli, cattivo e perfido, influenzando e portando alla violenza qualsiasi essere vivete incontrasse. Non gli importava più nulla di ciò che faceva e magari delle conseguenze. Cosa importava se invece di mille anni, la sua condanna sarebbe stata allungata a diecimila anni? Edoardo non aveva più cuore né anima. La cattiveria era la sua vendetta. La vita gli aveva tolto tutto, anche il caro fratello amato più di chiunque altro e più giovane di lui di dieci anni. Così per secoli questo fantasma si era vendicato sugli esseri viventi. Se c’era una violente lite, se c’era una guerra o un incidente, sicuramente Edoardo era vicino. Ma dopo tre secoli, questo terribile fantasma aveva cominciato ad annoiarsi. Aveva visto ogni città del mondo, ogni paese e conosciuto ad uno ad uno ogni abitante della terra. Per Edoardo non esisteva notte né giorno ma un lungo e infinito secondo nel quale si muoveva alla velocità della luce, raggiungendo qualsiasi luogo del pianeta. Ogni tanto il riflesso del sole illuminava la sua bellezza, luminosa e splendente e si chiedeva perché la vita gli era stata tolta così presto. Non si era potuto sposare, né avere figli. Non aveva potuto godere della sua famiglia e la ricchezza della nobiltà non aveva salvato i suoi cari. Gli mancava un figlio, al quale potere dare il nome di suo padre e tramandare il nobile casato. Gli mancava la dolcezza di una moglie, ma ora era troppo tardi. Finita la sua condanna cosa ne sarebbe stato di lui? Un fantasma che nell’aldilà aveva commesso solo cattiverie, a cosa era destinato? Probabilmente a rimanere ancora incastrato nel silenzio e nel ghiaccio della sua condanna. Nessuno avrebbe avuto pietà per la sua anima poiché il suo cuore da troppo tempo si era dato all’odio e alla cattiveria. Così mentre vagava all’alba, nei boschi delle Alpi, vide un cacciatore che si era infortunato. Era a terra, dolorante, mentre con un telefono chiamava aiuto. Ma Improvvisamente dai boschi un terribile orso fiutò il suo sangue e pericolosamente si avvicinò al malcapitato. Edoardo comprese subito il pericolo e per la prima volta in trecento anni, fece una buona azione. Si intrufolò nei pensieri dell’animale e riuscì a distrarlo e ad allontanarlo dal cacciatore. Pochi minuti dopo l’infortunato era stato soccorso e portato in ospedale da alcuni amici. Edoardo lo seguì, chiedendosi perché lo aveva salvato. Cosa mai gli stava accadendo? Non era la cattiveria l’unico cibo della sua anima. Cosa gli importava di fare una buna azione? Perso nei suoi pensieri, non si accorse che nella stanza dell’ospedale dove il cacciatore era stato ricoverato, entrarono la moglie e i figli. Un bambino di dieci anni e una ragazza. Edoardo aveva visto molte donne, ma nessuna era bella come quella. Faceva quasi male guardarla, come quei capelli castani come la corteccia degli alberi e gli occhi color dei boschi estivi. E il fratello lo traumatizzò ancora di più. Simile per tanti aspetti al suo povero fratello scomparso. Edoardo li vide affettuosi e solerti accanto al padre e la vista di quella bellissima famiglia lo fece sentire ancora più solo e disperato. Anche lui voleva una famiglia simile, con l’amore di una donna e il dolce tepore del sorriso dei figli….invece la sua esistenza terrena era stata breve e superficiale e la sua morte, cruda, dolorosa e cattiva. Così per la prima volta, da quando aveva lasciato questa terra, pregò. Pregò il cielo di avere pietà della sua anima….chiese perdono dei suoi sbagli…quelli terreni ma soprattutto quelli commessi nell’aldilà…chiese perdono per la sua cattiveria che gli aveva tolto l’anima e il cuore e chiese anche l’impossibile: Tornare in vita e avere una famiglia…voleva essere amato come quel cacciatore e poter stringere fra le braccia quella bellissima ragazza. Edoardo non sapeva nemmeno se cielo l’avrebbe ascoltato…ora che aveva visto quale gioia e felicità dona l’amore di una famiglia, anche lui voleva provare quelle emozioni e così continuò ad invocare il cielo con preghiere e suppliche. Non si allontanò più da quella bellissima fanciulla e quando il cacciatore fu dimesso, il suo spirito li seguì nella loro casa e non li lasciò più. Passarono i giorni, poi le settimane e il fantasma Edoardo, pazzo d’amore per quella fanciulla, continuava a rimanerle accanto, continuava a pregare il cielo che lo perdonasse e per una volta infrangesse le regole e cioè farlo tornare in vita per poterla sposare. Ogni sua parola era rivolta al cielo, ma per quanto lo invocasse, nulla della sua condizione era cambiata. L’infinito non lo perdonò e così passarono gli anni e Il povero fantasma vide la sua amata ragazza innamorarsi di un altro ragazzo, frequentarlo e dopo pochi mesi, sposarlo. Edoardo le rimase vicino durante la cerimonia nuziale...e non la lasciò nemmeno quando partì per il viaggio di nozze. Era presente alla nascita dei suoi figli…era vicino a lei durante tutto giorno, quando andava al lavoro, quando cucinava, quando usciva con le amiche. E nelle lunghe serate d’inverno, Edoardo le stava vicino e anche se lei non lo poteva sentire, le parlava dolcemente, mentre il fuoco del camino scoppiettava. E così lentamente gli anni passarono e il fantasma rimase vicino alla sua amata fino alla fine, convinto che almeno nell’aldilà lei l’avrebbe raggiunto come fantasma. Ma La sua amata morì delicatamente, con un sorriso sulle labbra, circondata dai suoi figli e nipoti e da suo marito, ormai anziano. Ma Edoardo non fu raggiunto dal fantasma della ragazza poiché la sua anima era destinata ad un altro luogo, pieno di luce e di felicità e non alla prigione nella quale Edoardo era rimasto fin dalla sua morte. Il povero Fantasma rimase ancora più solo e triste, e si abbandonò alla disperazione. A nulla erano valse le sue preghiere. Gli era stato negato l’amore poiché il suo debito non era stato ancora pagato e le regole del cielo non potevano essere cambiate. Così Edoardo riprese a vagare per la terra, sperando che la giustizia divina non gli allungasse la pena e aspettando di poter essere libero e di poter provare anche lui un po’ di quell’amore che ogni essere vivente, vivo o morto, spera di avere.

domenica 4 ottobre 2015

RACCONTO: IL TEMPO NELLA BOTTIGLIA di LUCINA CUCCIO

IL TEMPO NELLA BOTTIGLIA Il pirata Quattrossa remò faticosamente fino al faraglione. Aveva dato ordini di attraccare il galeone dietro l’Isola dei Venti, lasciando di guardia il suo fido Piedebucato, mozzo e amico da ben dieci anni. Gli aveva intimato che l’equipaggio non poteva per nessun motivo lasciare la nave e che massimo al calar del sole, lui sarebbe rientrato a bordo. Il faraglione ricordava un’ informe pagnotta di pane, così Quattrossa dopo aver trascinato la vecchia barca dentro un’insenatura lunga e stretta, percorse zoppicando una stradina scavata dalle onde. Alghe secche e tronchi avvizziti intralciavano il passo, quando finalmente il vecchio pirata si trovò davanti uno spazio fra gli scogli. Nella tasca trasportava il prezioso tesoro che durante il cammino tenne accostato a sé con la mano per paura di romperlo. La fessura continuava in un budello umido e oscuro che Quattrossa scese lentamente, illuminato dalla torcia che tremolava timida. Pochi metri e si ritrovò in un’ambiente non più grande di una stanza. La torcia si stava spegnendo quietamente così il pirata tirò fuori dalla tasca il suo tesoro. Era una boccia di vetro, verde e panciuta che per qualche minuto il pirata osservò ruotandola con la mano e la nebbia arancione che vi era chiusa dentro si mosse vorticando piano. Avvicinò poi piano piano il piccolo fiasco al viso rugoso e con lentezza le diede un bacio, quindi adagiò a terra la bottiglia coprendola con una pezza bianca che si era portato dietro. Si rimise in piedi e ritornò sui suoi passi. Meno di un’ora dopo il vecchio pirata era già sul ponte della sua nave ordinando di tirare l’ancora e issare le vele. Voleva lasciare al più presto l’Isola dei Venti. “Comandante- esordì il vecchio amico Piedebucato- dove diavolo hai trascinato le tue vecchie ossa? Sei sparito dietro il faraglione e non ti abbiamo più visto. “ “Per mille sputi di vipera!-Sbraitò allora Quattrossa, rivolto alla ciurma- più forza con quelle funi! Il vento sta calando!” Poi si girò verso l’amico con gli occhi fuori dalle orbite: ”Ho la suocera in casa per dirle dove trascino la mia carcassa?” “No ma…” tentò di scusarsi Piedebucato. “Affari miei” ringhiò il bucaniere voltandogli le spalle ingobbite. Scese un gelo infinito fra i due uomini coperto dal frastuono di corde e urla dell’equipaggio. L’indomani navigavano veloci sulla rotta dei mercantili provenienti dall’Inghilterra quando avvistarono una nave della corona inglese e decisero di abbordarla. Purtroppo l’abbordaggio andò male, e i pirati furono sconfitti dopo una breve ma terribile battaglia. La nave inglese era piena di cannoni e un equipaggio numeroso e ben addestrato, così molti dei filibustieri si buttarono in mare per evitare di essere presi prigionieri ma Quattrossa e Piedebucato rimasero sul galeone fino alla fine e con pochi altri della ciurma furono trascinati e messi ai ferri nella nave della corona. “Finalmente ti abbiamo acciuffato” esclamò il comandante dell’ammiraglia. Silenzio. Il pirata taceva. “Ora tu mi sveli tutti i tesori che hai e soprattutto dove sono nascosti.” Continuò il militare avvicinando la spada al collo di Quattrossa. Il corsaro non si mosse nemmeno quando la lama gli tagliò leggermente la pelle e iniziò a sanguinare. “Va bene, come vuoi-si interruppe il comandante- allora vediamo se questo ti scioglierà la lingua.” Un rumore terribile, secco e sordo seguito da un urlo disumano fece sobbalzare il vecchio pirata. Un dito della mano di Piedebucato era stato tagliato di netto con un colpo di spada dal comandante. Quattrossa divenne pallido, quasi esangue alla vista del dolore dell’amato compagno di viaggi e avventure e ai mugolii della sua sofferenza. Dopo aver ingoiato lacrime e sudore sibilò: ”Il mio tesoro più grande si trova nell’Isola dei Venti, dentro una piccola grotta del faraglione nord. E’ dentro una bottiglia, nascosto da uno straccio.” Il comandante della nave, ironico e cattivo gli chiese: “Dentro una bottiglia?” Scoppiò in una fragorosa risata, poi continuò: E che tipo di tesoro è? Polvere di diamanti? oro liquido?” Quattrossa ringhiò feroce: “ C’è il tempo, idiota! Sono riuscito a metterne un po’ dentro la bottiglia dalla Fonte della Morte. Sono l’unico al mondo a possedere il tempo…ma per salvare la vita al mio buon amico Piedebucato sono pronto a rinunciarvi” “La Fonte della Morte?” spiegati Corsaro della malora!” Il vecchio pirata, ispirando pazienza e disgusto per quell’orribile uomo iniziò a raccontare: “ Più di dieci anni fa ho salvato un povero naufrago che prima di morire mi confessò che esisteva nell’Oceano Pacifico un’isola vulcanica, dove c’era una fonte nascosta in una caverna chiamata “Fonte della Morte.” Non vi scorreva acqua ma una nebbia arancione…. Cioè vi scorreva il tempo. Il naufrago era un pirata come me e la sua nave era andata a sbattere contro quell’isola e per caso aveva scoperto quella fonte. Non sapeva cos’era quella nebbia arancione e l’aveva toccata. Il giorno di quel pirata si era allungato di dieci anni. Solo sfiorare quella nebbia fa allungare la vita di tanti anni. Quel pirata non capiva perché il sole non tramontava più, non aveva più fame né sete. Era una strana magia però aveva compreso che quel che gli stava accadendo aveva a che fare con la nebbia. Ma dopo tanti anni passati in quell’isola solitaria ha costruito una zattera e ha tentato di attraversare l’oceano convinto di avere ancora tempo da sfruttare invece non sapeva che la sua scorta di tempo era finita e così in balia delle onde per vari giorni soffrì la fame e la sete finché io non lo salvai dal mare. Ma era troppo tardi ….però prima di morire mi confessò quel terribile segreto. Allora andai personalmente a cercare quell’isola vulcanica, la trovai e scovai la Fonte della Morte. Ma mentre stavo raccogliendo il tempo per metterlo nella bottiglia, un terremoto fece tremare la terra. Il vulcano era esploso. Allora mi allontanai velocemente, raggiunsi la nave e vidi l’isola scoppiare. Ero riuscito a salvare un po’ di nebbia nella bottiglia ma averla toccata aveva allungato la mia vita di trent’anni e reputo quella bottiglia il tesoro più grande che posseggo.” Il vecchio pirata tacque. Il racconto per quanto incredibile aveva interessato il perfido comandante che chiese:” Quindi chi tocca la nebbia vive un giorno lungo anni?” Quattrossa rispose: “ E’ così.” Il signore dell’ammiraglia improvvisamente con la spada uccise il povero mozzo Piedebucato, poi Quattrossa e i pirati che aveva catturato. La confessione che aveva ascoltato era sufficiente. Aveva ragione quel vecchio pirata. In quella bottiglia c’era il tesoro più grande del mondo. I soldati della nave lo videro infilzare con rabbia felice uno ad uno i poveri bucanieri, insensibile alle urla e al sangue che sporcò il pavimento e le pareti. Poi diede ordine di raggiungere al più presto l’Isola dei Venti. Non voleva perdere un secondo in più e desiderava al più presto impossessarsi di quella bottiglia Pochi giorni dopo, seguendo le indicazioni di Quattrossa, il comandante con l’ammiraglia arrivò all’Isola dei Venti. Non disse a nessuno dove sarebbe andato e diede ordine all’equipaggio di non muoversi per nessuna ragione. Quindi con una scialuppa si allontanò dalla nave, raggiunse il faraglione nord e trovò facilmente la caverna e la discese quasi tremante dalla gioia. Alla vista della bottiglia esultò, gridando come un pazzo. La commozione era infinita ma nell’attimo preciso in cui aprì la bottiglia e la nebbia ne uscì, spargendosi sulle sue mani, un dolore feroce al petto lo colpì come una fucilata. Nausea e vomito lo distrussero in un momento. Gli era venuto un infarto dalla troppa felicità. Un malessere infernale lo sconvolse. Attese, sdraiato a terra che tutto quel male finisse. Piangeva e urlava dagli spasimi e la sofferenza gli impedivano di muoversi. Vomitava sangue e acido, ma il tempo passava, e il comandante, torturato e sofferente comprese che la nebbia aveva fatto allungare quel terribile giorno di dolore per centinaia e centinaia di anni. Il dolore, la nausea e il disgusto non sarebbero passati più. Dopo varie settimane, l’equipaggio si convinse che il comandante era morto, quindi il sottufficiale diede ordine di salpare e lasciare l’isola. Ma nessuno sapeva invece che il comandate era rimasto lì, in quella caverna a torcersi nel vomito e nello schifo, solo e al buio e preda del dolore e dei fantasmi di Quattrossa e Piedebucato che lo tormentarono per centinaia di anni. E quell’orribile uomo è ancora lì, aspettando, soffrendo e piangendo che il suo tempo finisca al più presto. Qualsiasi tesoro, anche il più grande, se cade nelle mani sbagliate difficilmente dà la felicità.

martedì 8 settembre 2015

FIABA:I LENZUOLI DEI FANTASMI di LUCINA CUCCIO I fantasmi della fortezza, antico maniero vicino Rochester, erano infuriati. I loro vicini dimoravano in un bellissimo castello, lussuoso e pieno di comfort, mentre loro soffrivano il freddo e l’umido. La torre si muoveva quando infuriava la tempesta, ondeggiando come una frasca secca, e dal tetto entrava acqua e neve, inumidendo le pareti che sapevano di muffa e di ragni. La carta da parati era vecchia e lisa e i mobili, ormai tarlati e ricoperti di polvere, sembravano l’emblema della decadenza di una vita ricca e lussuosa. Sir Thomas non ne poteva più:” Insomma-sbraitò una notte- qui è andato tutto in malore! Perfino il mio lenzuolo è rovinato! Il mio antenato, Sir Thomas More, si sbellica dalle risate e va dicendo a tutti gli spettri che rimarremo nudi e crudi come scheletri al sole! Siamo diventati lo zimbello di tutta l’Inghilterra!!!! Che facciamo?” Gli strani abitanti del vecchio castello lo guardarono tristi e sconsolati. Lady Jane scuoteva il teschio depressa:” Mio caro marito, noi siamo poveri in canna, mentre i nostri vicini sono ricchi e così hanno fior fiori di servitori e governanti! Hanno anche due cuoche e una stiratrice che lava e inamida i loro lenzuoli ogni giorno! Figurati che quella strega della duchessa ne possiede decine, anche di seta e velluto e va in giro vantandosi che ne ha anche uno tessuto con fili d’oro e d’argento! Il mio lenzuolo invece ha buchi così grandi che sembra uno scolapasta! Ah! Che vergogna! Mi si vedono perfino i femori e le costole!!! “ “UUUAAAH!- Esclamarono i due piccoli fantasmi Brenda e Tom, figli della coppia- che imbarazzo! E abbiamo anche freddo, fame e le ossa dei piedi sono ghiacciate!!!” Così per qualche minuto i fantasmi singhiozzarono sconsolati. Poi Lady Jane esclamò: “Sapete che facciamo? Mettiamo un’inserzione per una governante economica…offresi vitto e alloggio in cambio di qualche lavoretto domestico…tipo lavare, rammendare e stirare i lenzuoli!” Per un attimo il marito e i figli rimasero in silenzio per poi esplodere in una fragorosa risata:” Vitto? E cosa si può cucinare qui? Zuppa di topi e bistecche di ragni? E dove dormirà? Nel letto a baldacchino…senza letto e baldacchino?” La padrona di casa, rispose: “ Dobbiamo organizzarci! Voi cercate la migliore stanza della casa, pulitela e preparate un letto, mentre io mi infilo nel computer di qualche giornale e faccio pubblicare l’inserzione…vedrete che ci riusciremo a migliorare la nostra condizione…ci sarà pur qualcuno che si accontenterà di un tetto e di un po’ di cibo in cambio di un lavoretto leggero!.” Così i fantasmi si misero al lavoro, e l’indomani sul “The Time” apparve l’annuncio. Pochi giorni dopo, tantissime governanti si recarono all’indirizzo del vecchio castello in rovina per il colloquio di lavoro, ma appena entrate nel decadente e impolverato atrio, scappavano urlando alla vista della famiglia dei fantasmi. E dire che i padroni di casa accoglievano i possibili lavoranti con un bel sorriso, gentili e affabili, ma nessuno rimaneva. Tutti gli umani, terrorizzati, correvano via più veloce della luce, così i giorni passavano e di governanti, nemmeno l’ombra. Quando le speranze dei poveri fantasmi erano ormai perse si presentò al colloquio di lavoro una donna stranissima… Quando varcò l’ingresso del pesante portone di legno, i quattro spettri rimasero a bocca aperta. Uno spaventapasseri si presentò per il posto di governante. Solo che lo strano essere era vivente, respirava e parlava. Magra come un osso, indossava un vecchio vestito tarlato, più misero dei lenzuoli dei fantasmi. I capelli della donna erano paglia scombinata, occhi e naso da civetta e pochi denti in bocca. Insomma era l’essere umano più brutto che si potesse incontrare! Eppure per nulla spaventata dagli spettri, la donna-spaventapasseri accettò subito il posto. Quasi quasi erano i padroni di casa inquieti e turbati dalla presenza della nuova governante che invece, fin da subito, si mise al lavoro di buona lena. Puliva, spolverava, tentava di riparare il tetto del castello, ma soprattutto si occupava dei lenzuoli dei fantasmi. Qualche settimana dopo, i fantasmi si stavano riscaldando davanti al fuoco del vecchio camino che la donna-spaventapasseri era riuscita ad accendere, dopo aver raccolto la legna nel bosco vicino. Contenti e puliti, quasi non credevano che la loro vita ora fosse così serena e piacevole, per cui chiacchieravano e scherzavano allegramente, quando videro passare la governante-spaventapasseri con secchio e scopa. L’invitarono allora a riposare un attimo e riscaldarsi accanto al loro, vicino fuoco del vecchio camino. La bruttissima governante accettò e tese le nodose e vecchie mani verso la bella fiamma, per poterle intiepidire. I piccoli spettri, sempre curiosi della nuova lavorante, le chiesero allora quello che tutti gli abitanti di quel castello volevano sapere…cioè perché avesse accettato quel posto e soprattutto come mai non avesse paura di loro fantasmi. La governante rispose sincera:” Siete più umani voi morti che i vostri cugini, i vivi. Quando si è brutti e poveri come lo sono io, si cerca qualcuno che sta peggio poiché conosce la sofferenza e la miseria. Spesso gli esseri viventi non accettano le persone diverse, perché le reputano sgradevoli e hanno quasi paura che facciamo chissà cosa! Ma i poveri e i brutti non hanno avuto fortuna in questa vita ma vi assicuro che ne avranno tanta nell’altra. E sono certa che presto anche voi sarete fortunatissimi perché dietro i vostri lenzuoli batte un cuore d’oro!” E tutti sorrisero, complici e amici. Dividere un tetto mal messo e poco cibo accomuna più che mille ricchezze!

domenica 12 luglio 2015

IL GIARDINO DI CERA C’era una volta un regno antico e sperduto che aveva avuto pochissimi contatti con altri regni. Si trovava in fondo ad una valle, circondato da altissime montagne innevate. Gli abitanti di quel regno erano schivi, malinconici e impacciati. Il re e la regina non avevano vita sociale, non davano feste e passavano tutto il tempo rinchiusi nel loro castello. Nessuno in quel regno rideva, o scherzava o ballava. Le alte montagne erano mura invalicabili e tutte le persone erano abituate solo a lavorare, vivere e morire senza aver davvero conosciuto gli altri popoli. La regina spesso passeggiava nel giardino del castello dove, fra le siepi, vi erano delle alte statue di marmo. Rappresentavano gli dei del lavoro. La dea protettrice della semina, il dio difensore della mungitura e tosatura delle pecore, la dea tutrice della fabbricazione del formaggio, la dea sostenitrice delle api e della fabbricazione del miele… La regina ringraziava sempre le divinità, soprattutto quella che aiutava la fabbricazione del miele di cui era molto golosa, e rivolgeva ai numi preghiere di riconoscenza convinta che proteggessero il lavoro nella sua terra e che tutto andasse così bene. Anche il re la raggiungeva per rendere omaggio alle statue, osannando il loro sostegno e magnanimità. Tutte le stagioni erano scandite dai ritmi lavorativi del regno. A scuola i bambini non imparavano a disegnare o a suonare gli strumenti, ma solo a lavorare la terra, cucire i vestiti, fabbricare utensili…venivano istruiti solo per ciò che poteva essere utile nella vita quotidiana e cioè imparavano un lavoro ma niente di creativo o fantasioso. In realtà quel regno era sterile e infelice. Un giorno la regina si accorse di aspettare un bambino e nove mesi dopo nacque una bellissima bambina alla quale fu dato nome Lattea poiché aveva la pelle chiara come il latte. I sovrani erano al settimo cielo e vivevano solo per quell’unica figlia. Crescendo però la principessa sconvolgeva continuamente i genitori perché amava ridere, scherzare e ballare. Disegnava con il succo delle more e l’erba spremuta e suonava i bicchieri e i piatti. Nel regno non esistevano colori a matita o strumenti. Il re e la regina l’amavano profondamente ma non capivano la sua diversità. Tentavano di inculcarle l’amore e la dedizione assoluta per il lavoro, e la richiamavano bonariamente al silenzio e alla mestizia ma Lattea invece gioiva e cantava. Correva felice per i giardini del castello, fermandosi davanti alle statue degli dei del lavoro, e ogni volta faceva loro la linguaccia. Per Lattea la vita era fatta di colori, musica gioia e non solo di lavoro e silenzio. Un giorno, dopo l’ennesima brontolata dei genitori sul fatto che l’avevano sorpresa a disegnare, Lattea iniziò a piangere, scappando in giardino. Disperata e confusa si sedette su una panchina, singhiozzando accoratamente quando piano piano si accorse che le statue di marmo che la circondavano lentamente si stavano trasformando in cera. Libere dal marmo, le sculture si muovevano e parlavano. Le lacrime di Lattea avevano commosso gli dei del lavoro e quando i genitori la raggiunsero in giardino, la trovarono circondata da bellissime donne e uomini che impedirono però ai sovrani di avvicinarsi. Il re e la regina, terrorizzati, chiamarono le guardie per liberarla, ma qualsiasi attacco dei soldati fu vano. La principessa lasciò il castello, scortata dalle statue di cera e si avviò a piedi lungo il valico più basso, sparendo dalla vista dei paesani, dei soldati e dei monarchi che urlavano impazziti. La loro unica figlia, luce dei loro occhi, era stata portata via. Il regno piombò della più cupa disperazione. La regina piangeva tutto il giorno e il re mandava soldati e dignitari a cercarla in tutta la regione. Ma la principessa Lattea sembrava sparita. Passarono i mesi e l’unico fatto strano che lasciò sconvolti i paesani era che le api avevano smesso di fare il miele. La notizia fu trascurata dal re, che ordinava ai suoi soldati di passare a setaccio le montagne, le vie, i boschi, alla ricerca della figlia. Ma la regina ne fu colpita. C’era un collegamento fra le api, le statue che si erano trasformate in cera e il rapimento della figlia? Così un giorno si recò dal contadino che sapeva avere molte alveari e chiese il suo parere. “ La faccenda è davvero strana-rispose il campagnolo- le api continuano la loro vita, sono brave lavoratrici, ma si rifiutano di fare il miele. Lavorano come matte, ma dalla loro vita hanno tolto lo zucchero…non fanno più ciò che a loro piaceva al di sopra di tutto, e cioè fare il miele.” La regina rimase perplessa alle parole del contadino. Le api, indefesse lavoratrici avevano eliminato il miele dalla loro vita…Poi, rifletté, collegando i vari eventi. Dal regno era stata eliminata l’arte…la musica…il ballo. Era stato eliminato il miele degli uomini. Il regno era come un alveare ma senza il miele. Sbalordita e sconvolta, corse da re, esponendo la sua teoria. Per far tornare la principessa dovevano far tornare il miele fra gli uomini e cioè nelle scuole dovevano insegnare anche la musica e l’arte, e si dovevano organizzare feste e balli così che la gioia e la felicità dovevano sbocciare in ogni casa. Il re, interdetto, alla teoria della moglie rimase zitto, ma essendo anche lui disperato, fece eseguire ciò che aveva proposto la regina. Così, per la prima volta, musiche, canti, quadri e poesie furono udite e visti nel regno e tutti gli abitanti non dedicarono la vita solo al lavoro ma anche a divertirsi e a sorridere. Il miele della vita era nato nel loro regno e pochi giorni dopo anche gli dei protettori dei mestieri riportarono la principessa Lattea ai suoi genitori. Tutti avevano imparato l’importanza della gioia, del canto e dei colori nella vita di una persona e il re stesso trasformò il regno in un paese felice e canterino. Fece costruire dei lunghi tunnel che collegavano il suo paese agli altri regni, e i nuovi contatti con l’esterno arricchirono di commerci e arte la contea. Una ventata di cambiamento e allegria invase il cuore di ogni paesano. Il miele della vita di un uomo è poter gioire di ogni tesoro che la vita offre.

martedì 7 luglio 2015

L’UOMO CALAMARO Tanto tempo fa, vicino la costa della Francia, vi era uno sperduto paesino di mare i cui abitanti vivevano di pesca e passavano i lunghi inverni, raccontandosi interminabili storie intorno al fuoco e mangiando pesce salato. Era un paese piccolo e tutti gli abitanti si conoscevano, e quasi tutti possedevano una barca per andare a pesca . Ma il papà di Marcel era povero e per sbarcare il lunario aiutava gli altri pescatori durante la stagione e guadagnava quei pochi spiccioli per sfamarsi e mantenere il figliolo che a pochi anni aveva perso la mamma. All’epoca dei fatti, Marcel aveva dodici anni e aspettava tutto il giorno che il padre tornasse, portando con sé gli scarti dei pesci pescati o una pagnotta di pane, avuta barattando ciò che aveva catturato insieme ai suoi compagni. Un giorno il mare era agitato e pioveva a dirotto e nessuna barca era uscita al largo. Ma il poveretto aveva bisogno del pesce quotidiano così chiese al proprietario della barca dove lavorava, se poteva prestagliela. Marcel sapendo che il padre stava per prendere il largo da solo e con quel tempaccio, insisté per accompagnarlo. Così i due lasciarono il porticciolo, fra le onde e la pioggia che senza tregua, sferzava sui loro volti. Lontani dalla costa, con fatica buttarono le reti, tirando su però pochi pesciolini. La cosa si ripeté più volte e quando stanchi e scoraggiati, fecero un ultimo tentativo, con grande sforzo tirarono sulla barca, imbrigliato nelle reti, qualcosa che nessuno aveva mai visto. Sembrava un uomo ma sulla schiena, sulla testa e sulle gambe, aveva strane appendici. Lisce, viscide e gommose, erano tanti tentacoli come quelli di un calamaro. Marcel e il padre erano terrorizzati dallo strano essere che sembrava svenuto. Lo rivoltarono sul dorso, e notarono che aveva le mani e i piedi palmati. Ma il resto del corpo era normalissimo e lo strano essere aveva un volto bellissimo. I capelli erano neri come la pece, e quando aprì gli occhi, lo sguardo era verde…un vetro che, disorientato, li osservava con curiosità. Poi, all’improvviso, si coprì il corpo con le reti. Evidentemente l’essere viveva in mare e non portava vestiti. Marcel fu il primo a rompere il silenzio:” Stai tranquillo…non vogliamo farti del male…anche se abbiamo più paura di te. Tu chi sei?” L’uomo calamaro inclinò la testa da una parte all’altra. I lunghi capelli gli coprivano le spalle, si mossero, fluidi. Sbatté le ciglia bagnate, poi improvvisamente sorrise, scoprendo una fila di denti bianchi come la neve. Marcel sorrise. I segnali corporei mostravano l’assenza di ostilità e l’imbarazzo e la paura di tutti e tre stava scemando, per dar posto ad una grande curiosità. Il padre e Marcel allora tentarono di comunicare con cenni e segni, e anche lo strano essere, a gesti tentava di rispondere e farsi capire. Il temporale però peggiorava così il bambino gli chiese: “Ascolta, noi dobbiamo andare via e rientrare, perché rimanere in mare sta diventando pericoloso…tu vuoi venire con noi…oppure ti ributti in acqua?” Lo strano essere, all’improvviso si tuffò in mare, per poi riemergere subito. Dietro di lui, i tentacoli a corona, si muovevano morbidi e vellutati. Marcel e il padre iniziarono a remare verso la riva mentre l’uomo calamaro li seguiva, nuotando in mare, aggraziato e disinvolto, poi quando si ritrovarono vicino il porto del paese, lo strano essere si fermò, li salutò e sparì nel mare in tempesta. Marcel e il padre, ormeggiata la barca, bagnati fradici, si precipitarono nella taverna del villaggio dove erano riuniti tutti i paesani. Entrarono con una folata di vento e pioggia, e con frasi sconnesse iniziarono a raccontare l’avventura che avevano avuto. Raccontarono dell’uomo calamaro ma più particolari riferivano, più le risate dei paesani aumentavano. Logicamente nessuno credeva alla storia e anzi, ad un certo punto iniziarono a spintonarli fuori la taverna. Lo spettacolo per loro era durato fin troppo. Marcel e suo padre, mesti e tristi, ritornarono nella misera baracca dove abitavano. Arrostirono quella manciata di pesciolini presi prima, sul piccolo fuoco del camino, poi sfiniti, crollarono sul tavolaccio che serviva loro da letto. Non avevano nemmeno i soldi per comprare un materasso. L’indomani, il tempo era migliorato, così il padre di Marcel si recò al porto per unirsi alle barche che prendevano il largo per la pesca, ma nessuno chiese la sua collaborazione. Tutti lo trattavano da matto e più lui insisteva che non avevano avuto allucinazioni, che l’uomo calamaro esisteva e che non era fuori di senno, più i compaesani lo allontanavano, schernendolo. Così il poveretto tornò a casa a mani vuote e per quel giorno, padre e figlio, rimasero digiuni. La solfa si ripeté per vari giorni. Marcel, una mattina, debole e sconsolato, andò a passeggiare sulla spiaggia. Erano tanti giorni che non mangiava, così ad un certo punto, si buttò a terra e iniziò a piangere, disperato. Sulla battigia era solo, ma ad un certo momento sentì degli spruzzi provenire dal calmo mare azzurro. Alzò gli occhi e vide le braccia dell’uomo calamaro agitarsi, in segno di saluto. Il ragazzo si buttò in mare, contento e anche lo strano essere si avvicinò alla riva. A pochi metri, entrambi si fermarono, poi scoppiarono a ridere. Marcel era contento di vederlo, e iniziò a raccontare tutto ciò che era successo. Gli raccontò della cattiveria dei paesani, della fame, della disperazione del padre, quando ad un tratto, scoppiò a piangere, pensando alla misera baracca, al focolare vuoto, alla povertà in cui era cresciuto. L’uomo calamaro, mentre il ragazzo parlava, lo guardava curioso, inclinando la testa, come se tentasse di capire. Poi, scomparve all’improvviso fra i flutti, per riemergere, poco tempo dopo, con tre grossi pesci che mise nelle braccia dello sbalordito Marcel. Il ragazzo lo vide allontanarsi e dileguarsi nel mare, così ritornò a casa e raccontò al padre del nuovo contatto e della generosità dell’uomo calamaro. Evidentemente lo strano essere aveva capito che Marcel aveva fame e lo aveva voluto aiutare. Dopo aver arrostito il pesce, il povero pescatore e il figlio, decisero di mantenere il segreto. Per proteggere l’uomo calamaro dalla curiosità ma anche dalla cattiveria del paese. Da quel giorno, tutte le mattine, Marcel e suo padre si recarono alla spiaggia, e lo strano essere portava loro pesci , aragoste, cozze. I due poveretti mangiavano ogni giorno quando l’uomo calamaro non si fece più vivo. Passarono diverse giornata quando Marcel e suo padre lo videro riemergere con, in mano, gioielli e pietre preziose. I due quasi svennero dall’emozione nel ritrovarsi quegli oggetti preziosi fra le mani. L’uomo calamaro aveva sicuramente raggiunto qualche galeone affondato e aveva portato loro il carico prezioso che conteneva. In poco tempo Marcel e suo padre divennero ricchissimi. Nessuno era riuscito a capire da dove proveniva la loro ricchezza, così una mattina, l’uomo calamaro portò l’ultimo carico d’oro, poi fece capire a Marcel e suo padre che quella era l’ultima volta che si vedevano. I tre si salutarono affettuosamente come vecchi amici, poi lo strano essere sparì fra i flutti. Marcel e suo padre, con tutte le ricchezze accumulate lasciarono il paese e si trasferirono in città dove comprarono un bellissimo e lussuoso palazzo. Non avevano nostalgia né del paese né dei suoi abitanti che si erano dimostrati molto cattivi e che ora si rodevano di rabbia e d’invidia nel vedere i più poveri del villaggio diventare ricchissimi. Marcel crebbe felice, frequentando le scuole e l’università. Da grande, divenne un famoso medico che spesso aiutava gli altri gratis, ricordando i giorni della sua fame e della povertà. Con suo padre vissero contenti e quando Marcel si sposò ed ebbe dei figli, insegnò loro il valore della generosità, della comprensione e il rispetto del mare che per tutta la vita si portò nel cuore.

domenica 5 luglio 2015

FAVOLA: POLVERE DI PANE

POLVERE DI PANE Tanto tempo fa, in un piccolo paese inglese, abitava una famiglia talmente misera che non aveva nemmeno i piatti in cui mangiare. Il padre aveva perso entrambe le gambe in guerra e la moglie, nel dare alla luce l’unica figlia femmina, si era ammalata gravemente e passava tutta la giornata sdraiata su un giaciglio di paglia poiché non possedevano nemmeno un letto su cui dormire…Così quando la figlia compì sedici anni, pregò i genitori di lasciarla partire. Desiderava andare a Londra per cercare un lavoro. La salute di entrambi i genitori era peggiorata e la madre stava lentamente spegnendosi fra il freddo e la fame. Il padre era disperato e così diede il consenso per quel viaggio. Marito e moglie affidarono al cielo la loro unica figlia, amata e adorata sopra ogni cosa al mondo. Essi conoscevano i pericoli della città ma fidavano sul buonsenso e la prudenza della giovane che poche ore dopo arrivò a Londra. Essa rimase a bocca aperta davanti a quell’elegante città, piena di carrozze, di signore raffinate che passeggiavano con lunghe vesti e piumati e frivoli cappellini, di edifici imponenti. Passando davanti un negozio che vendeva pane e dolci, lesse un cartello attaccato alla vetrina che diceva: “ Cercasi sguattera.” La giovane fanciulla vestiva di stracci, con ai piedi zoccoli di legno e un mantello di lana grezza, liso e stracciato. Per un attimo si guardò addosso, vergognandosi della sua miseria, non sapendo che i suoi capelli avevano i riflessi del sole e gli occhi erano più azzurri dei fiordalisi. Ma ella non conosceva la vanità né l’orgoglio o la superbia. La vita le aveva dato solo freddo e fame ma anche l’amore incondizionato dei genitori. Quindi si fece forza ed entrò facendo suonare il campanello posto sopra la porta a vetri della bottega. Si ritrovò davanti un lunghissimo bancone di legno e all’interno, esposti in bellavista, dolci, torte, biscotti e tanti panini profumati. Cannella, vaniglia e cioccolato aleggiavano nell’aria e la povera ragazza quasi svenne dalla fame. Non ricordava più da quanto tempo non mangiava. Un buffo signore rubicondo, con un strano cappello e un pancione nascosto dietro un grembiule immacolato uscì dal retro bottega. Si stava asciugando le mani, e si fermò alla vista della ragazza che fissava strabiliata e con gli occhi fuori dalle orbite, quel paradiso di dolci. “Desidera?” Chiese gentile. Aveva notato i vestiti stracciati della ragazza e la sua aria affamata. La poveretta deglutì varie volte e con voce gracchiante rispose timida: Ho letto il cartello fuori e cerco un lavoro. Sono appena arrivata dal paese.” Il Pasticcere, sfregandosi il grasso mento chiese:” Hai referenze?” “No…ma sono pronta a far tutto. I miei genitori sono malati e a casa hanno bisogno…” rispose sincera la ragazza. Ora parlava male dall’acquolina in bocca che le era venuto. Aveva appena adocchiato una torre di cioccolatini con sopra le nocciole. Il proprietario del negozio era un brav’uomo e si rendeva conto che la giovane era in difficoltà però non era stupido. Una bella commessa avrebbe attirato più clienti e avrebbe fatto una bella figura con i suoi vicini negozianti. “Va bene-rispose tonante-ti pago con una pagnotta al giorno, una fetta di carne o formaggio e un bicchiere di latte. Puoi dormire nel retrobottega e ti regalo anche un vestito decente. Mi aspetto però che tu pulisca tutto, ti alzi presto per aiutarmi a fare il pane, che ti occupi dei clienti. Alla fine del mese ti pagherò due sterline.” Ogni parola sembrava un tesoro…un empito di sollievo e gioia invase il cuore della ragazza e lo sguardo celeste per un attimo, si offuscò di pianto e riconoscenza per quel buffo ometto. La sera, sdraiata su un piccolo letto, nel retrobottega della pasticceria, ripensava a ciò che aveva imparato e che doveva svolgere quotidianamente. Si sentiva molto stanca ma soddisfatta e non le sembrava vero provare il senso di sazietà nello stomaco. Alla fine della giornata il pasticcere le aveva dato un bel bicchiere di latte fresco, una pagnotta ancora calda e una fetta di carne salata. La poveretta, appena sola, divorò quasi ingozzandosi il pane con il latte e assaporò il dolce gusto speziato della carne salata. Finì il suo desinare in un attimo e raccolse anche da terra le briciole di pane cadute, assaporandole come se fossero caramelle. Quindi, rannicchiandosi sotto le coperte, sprofondò in un sonno ristoratore. Non più un giaciglio di paglia…non più umido e freddo nella stanza…né crampi di fame…ma un caldo e comodo ambiente. L’indomani mattina, all’alba, aiutò il pasticcere a fare il pane, la crema glassata per le torte e i bignè con la panna. Già all’ora di apertura, una piccola folla di clienti si era radunata all’ingresso del negozio, attirata dalla fragranza dei profumi di vaniglia e cacao ma anche dalla vista della bellissima commessa che si affannava, dietro i vetri, a sistemare in bellavista le ciambelle con lo zucchero e il pan di zenzero. Per tutta la giornata la pasticceria fu piena di clienti e alla sera il proprietario, felice, contava il profitto della giornata. Così fu bel contento di dare alla ragazza la sua cena, poi ritornò a casa sua. Ma essa, proprio mentre stava per dare un bel morso al pane caldo si bloccò. Le balenarono davanti agli occhi i suoi poveri genitori, affamati ed infreddoliti. Così, sentendosi in colpa, mise da parte il pane e la carne e bevve solo il latte. Da quella sera, tutto ciò che le dava da mangiare il proprietario, lo metteva via, nutrendosi solo di un bicchiere di latte al giorno. La domenica si recò dai genitori portando con sé tutto il cibo che aveva messo da parte. I genitori piangevano di gioia mentre mangiavano il formaggio, la carne e il pane con il bicchiere di latte del giorno prima che era riuscita a tenere in fresco. Così la generosa e altruista fanciulla viva solo con un bicchiere di latte al giorno, e il sabato rimaneva completamente digiuna. Il suo latte serviva ai genitori la domenica appresso. Il pasticcere la faceva lavorare e non gli sfuggì che la poveretta aveva ricominciato ad avere lo guardo affamato. Ma, sicuro del cibo che le dava ogni sera, non ci pensò più di tanto. Un sabato sera la fame le mordeva lo stomaco. La fanciulla aveva messo da parte tutto il cibo che aveva risparmiato nella settimana e l’indomani avrebbe portato finalmente ai genitori anche le due sterline che il padrone le aveva dato. Il suo primo stipendio. Ma i crampi allo stomaco non le davano tregua e il profumo dei dolci nella bottega, era un supplizio di Tantalo. Decise così di andare a dormire, ma nello spogliarsi, si accorse che sul grembiule le era rimasta un po’ di polvere del pane sfornato nel pomeriggio. Con mani tremanti lo raccolse nel palmo della mano e lo mangiò facendolo squagliare in bocca. Un po’ del sapore del pane era meglio che niente! Così da quella sera, raccoglieva la polvere del pane dai suoi vestiti, serbando ogni granellino e se avanzava dai vassoi, invece di buttarlo via, lo raggruppava in un pugnetto mangiandolo con il latte. Piano piano i genitori, nutrendosi regolarmente, stavano meglio e con i soldi che la figlia portava a casa, riuscirono a comprare della legna per riscaldarsi e anche un materasso e delle coperte. Il pasticcere ogni mese pagava la ragazza ed era molto contento di come ella lavorava. Andava tutto così bene, la clientela aumentava e sembrava che tutta Londra volesse i suoi dolci. Ad un certo punto il proprietario pensò di aprire una seconda pasticceria. Aveva realizzato che assumere quella fanciulla era stata una buona azione e che il cielo lo aveva ripagato con il benessere ed il successo. Una sera, come al solito, aveva dato la cena alla fanciulla ed era tornato a casa. Ma a metà strada si era accorto di aver dimenticato i guanti e il cappello nella bottega e così tornò indietro. Aprì piano la porta del negozio, convinto che la fanciulla dormisse ed invece si trovò davanti una strana scena. La ragazza, in ginocchio, davanti al bancone principale, stava raccogliendo da terra la polvere del pane, per poi mangiarla. Il pover’uomo rimase di sasso. Era così incredibile quello che stava vedendo che ogni suono si era fermato in gola. Inghiottì a vuoto troppo strabiliato per parlare. La fanciulla, accortasi della sua presenza, scoppiò a piangere, raccontando il motivo di ciò che stava facendo. Raccontò della miseria della sua casa, della malattia dei genitori e del suo grande ed immenso amore per la famiglia. Era disposta a morire di fame pur di aiutare i suoi parenti. Il proprietario si commosse fino alle lacrime. Quella non era una ragazza…ma un angelo del cielo pronta a sacrificarsi per sua madre e suo padre. Da quel giorno il pasticcere le raddoppiò il cibo e il salario. A sue spese fece sistemare la casa dei genitori e quando la fanciulla, ormai adulta, si fidanzò e si sposò, le regalò un negozio tutto suo giacché in quegli anni, fortuna e benessere avevano accompagnato tutti i giorni del buon fornaio…