domenica 4 dicembre 2016

IL CASTELLO DIMENTICATO

IL CASTELLO DIMENTICATO Avevo sempre detestato i viaggi organizzati, a differenza di mio fratello Giuseppe. Ma anche quest’anno non avevo potuto sottrarmi alla terza tortura che i miei genitori mi avevano inflitto. Sì, perché tre anni prima eravamo andati a visitare i castelli della Loira, poi l’anno scorso siamo andati a vedere i castelli della Baviera e quest’anno la meta erano i castelli della Scozia. Per dieci giorni mi sarei dovuta alzare alle sei del mattino, consumare colazioni veloci, fare e disfare i bagagli ogni due giorni e sorbirmi interminabili spiegazioni delle guide turistiche sull’origine e la storia dei vari castelli…e io odiavo i castelli! Barbosi, vecchi, polverosi inni del passato. Invece i miei genitori, Maria, insegnante di Arte e Fabio, medico curante e anche mio fratello, più grande di me di tre anni, tutti e tre andavano matti per le antiche regge. Davanti ad immensi saloni dell’ottocento, cinte murarie, ponti levatoi, oscure segrete, ascoltavano rapiti fatti e avvenimenti storici avvenuti nei luoghi che visitavamo, mentre io mi annoiavo a morte. Per di più io non sopportavo ciò che era vecchio. Avrei voluto vivere in una casa ultramoderna, mentre mio padre era fissato con i mobili antichi e nel nostro appartamento tutto era vetusto. Ogni mobile era appartenuto ai bisnonni, ed ereditato dai miei genitori quando si erano sposati. Più che una casa, dove vivevo sembrava un antico e polveroso museo. Di nuovo c’era solo la televisione e gli elettrodomestici della cucina. “Elena, impensabile che tu rimanga a casa da sola!- sbraitava sempre mia madre quando osavo proporre, alla vigilia della partenza, di non partecipare al viaggio organizzato- hai solo sedici anni. E ti ho sempre detto che la famiglia si muove tutta insieme. Soprattutto per le vacanze estive!” Brontolavo fra me e me, riponendo calze e pantaloni nel trolley, mentre mio padre rincalzava la dose:” Ha ragione la mamma. Questi viaggi, oltre ad essere interessanti sono una buona occasione per fare qualcosa tutti insieme. E se tu detesti i castelli e le cose antiche, non possiamo farci nulla. Anche io odiavo la cipolla…e sapessi quanta ne ho dovuta mangiare quando tua nonna cucinava!” Esasperata, collegavo le cuffie al cellulare per sentire il mio youtuber preferito e isolarmi da quel coro di proteste parentali che a volte, davvero esageravano. La mia famiglia è sempre stata un po’ all’antica, e delle mie amiche, ero la sola che alla mia età, ancora non aveva il permesso di uscire da sola la sera. Infinite discussioni con i miei genitori per poi ottenere solo due ore di autonomia, il sabato pomeriggio, per prendere un gelato in piazza con le mie amiche. Poi loro(fortunate!) raggiungevano gli altri compagni del liceo per andare a mangiare la pizza e finire la serata in discoteca, mentre io(misera) ritornavo a casa con la coda fra le gambe, ribollendo di rabbia e di ingiustizia. Ciò che mi faceva imbestialire era che mio fratello Giuseppe, al primo anno di università, aveva tutta la libertà che voleva. Esclusi naturalmente, alcolici, fumo e amici strani. Però, dopo aver finito di studiare, poteva uscire, e il sabato andare in discoteca e rincasare quando voleva, mentre io avevo ancora la catena al collo. Un giorno, avevo osato chiedere di uscire con lui, almeno per non passare da sfigata davanti a tutta la mia classe. Tutti i miei compagni sapevano delle restrizioni alla mia libertà, ma il traditore di mio fratello si era categoricamente rifiutato. “Uscire con me- aveva esclamato, inorridito- e se rimorchio una ragazza, tu che fai?” Tentavo di persuaderlo in tutte le maniere, ma le poche volte che avevo osato riparlarne, Giuseppe ringhiava: “ Elena, tu con me non esci! Mi rovineresti la piazza…e magari spiffereresti chissà cosa su di me! Io le conosco le sorelle minori…pronte ad inventarsi assurde scemate per demolirti la serata.” Così non avevo alleati in casa. Per di più, dietro le lenti spesse degli occhiali, mio padre bonariamente cercava di convincermi che le “ faccende domestiche” servivano a forgiare la volontà, oltre ad essere educative, così il sabato potevo aiutare in casa, mentre mia madre meno diplomatica, sbraitava che non poteva fare tutto lei, e che almeno io mi dovevo occupare dei piatti la sera e la mattina, e della pulizia della mia camera, il sabato sera. Risultato: il fine settimana passato sui libri e a pulire sotto il mio letto… e perfino le vacanze estive erano un supplizio. Avrei tanto voluto andare al mare, come tutte le mie amiche, visto che abitavano in un paesino del nord Italia, mentre la mia famiglia stravedeva per le visite culturali. E quell’estate eravamo partiti lo stesso! Tre giorni dopo, non ne potevo più! Quella mattina avremmo dovuto raggiugere con il pullman, l’antico castello della famiglia dei Conti Mackenzie, tetro e isolato fra le montagne scozzesi delle Highlands. La guida, lungo il tragitto, ci aveva informati che l’ultimo discendente aveva aperto da poco, la sua dimora ai visitatori. Così, quel castello sperduto e inaccessibile, era diventato ambita meta turistica e dopo due ore di viaggio, il pullman aveva parcheggiato nel grande piazzale, fuori le cinta murarie della fortezza. La prima impressione che ebbi, fu di una enorme montagna grigia. Ma, dietro l’arco che collegava l’ingresso, svettavano torri e torrette, tetti decorati da merlature ed enormi vetrate di cristallo. Tutto mi appariva grigio e vecchio, mentre il gruppo di turisti con cui facevamo il viaggio, era grande visibilio e non mancavano numerosi gridolini di apprezzamento. Dopo innumerevoli portoni e corridoi, antichi quadri e mobili sfarzosi, entrammo in una grande sala il cui camino era più alto di me. Un lungo tavolo di legno massiccio e pesanti sedie lo circondavano e trofei di caccia lungo le pareti rendevano l’ambiente tetro e sinistro. La mia famiglia invece sembrava impazzita dall’entusiasmo, e tutti continuavano a fotografare ogni particolare che notavano, mentre io, stufa di sentire continui complimenti sulla ricchezza del luogo e la sua magnificenza, decisi di staccarmi dal gruppo e gironzolare per i fatti miei. Lasciai la sala degli orrori, girando a destra, percorsi un corridoio che accedeva ad una scalinata circolare. Salendo i gradini, continuavo ad osservare i ritratti degli antenati di questo famoso conte, che mi sbirciavano dai loro ridicoli abiti medievali, scuri e altezzosi. Quei volti pallidi, mi davano fastidio. Come fantasmi appesi alle pareti, donne incipriate e perfino bambini, seguivano i miei passi. Piccole dame e paggi con vicino cani e giochi infantili, sospesi sulle grigie pareti secolari, accompagnavano la mia perlustrazione. Giunsi ad un altro corridoio, e senza volerlo, aprii la seconda porta, ignorando la prima. La maniglia, cedette facilmente, e mi ritrovai in una grande stanza. A bocca aperta, notai subito un grande letto con una coperta rosa, piena di peluche e accanto ad una moderna toilette, un armadio e moderne librerie e quadri. Alle pareti, poster di sconosciuti cantanti. Mi avvicinai alle foto sul comodino, e rimasi colpita da un’istantanea di una ragazza. Chi aveva scattato quell’istantanea, l’aveva sorpresa a truccarsi allo specchio. Forse si preparava per una festa. Scrutai il profilo, e mi sembrò molto carina. In un’altra foto, la stessa ragazza abbracciava un cane. Sembrava un Collie. Riconobbi le mura esterne del castello. Riposai la foto e mi avvicinai alle tende di pesante velluto rosa delle finestre. Il lontananza, le montagne e i boschi, su un cielo blu da cartolina, turbarono la mia anima . Io, quel paesaggio l’avevo visto…ma quando? Mi guardai di nuovo, intorno. Fissavo, lentamente, come una lente d’ingrandimento i mobili, la lampada sul comodino, il tappeto, i poster…e lentamente, con orrore, mi sembrava di riconoscere quegli oggetti. Immagini sbiadite, micro flash che impazzavano nella mia mente. Poi buio e di nuovo, particolari indefiniti…sfuocati….impalpabili. Come fumo nell’oscurità. Boccheggiavo…io quella stanza la ricordavo bene…quella coperta l’avevo scelta io. I peluche mi erano stati regalati…mi sentii soffocare davanti a ciò che non avendo mai visto, riconoscevo. “Chi è lei?” mi domandò in inglese, una voce profonda alle mie spalle. Mi voltai di scatto, e mi ritrovai un giovane uomo, sulla trentina. Un sguardo astioso, come una lama blu ghiaccio, mi trapassò da parte a parte. Spaventata, e ancora sconvolta, per le sensazioni che quel luogo mi aveva suscitato, farfugliai misere scuse nella sua lingua. Mi diressi verso la porta, quando lo stesso uomo, cambiando tono, mi chiese:” Lei è italiana, vero?” Non so perché mi bloccai. Sulla soglia, mi girai e gli risposi nel mio stentato inglese:” Sì. Sono arrivata con il gruppo di turisti.” Non mi fidavo di quell’estraneo. Chi era? Faceva parte del personale del castello? Stavo proprio per andare via, quando lo riconobbi in un’altra foto, sopra la toilette, abbracciato alla ragazza delle altre istantanee. Un primo piano di entrambi, e lui, molto più giovane di ora. Notai però immediatamente la somiglianza. Lo sconosciuto, captando il mio sguardo, mormorò. “Era mia sorella Anne.” Rimasi male, sentendo che parlava di quella ragazza, al passato. Il suo sguardo mesto mi fece capire che sua sorella non era più viva. Inghiottii amaro. E mi resi conto che quello sconosciuto faceva parte della famiglia dei proprietari del castello. Ricordando le parole della guida, gli chiesi. ”Lei è il conte Mackenzie?” Una fila candida di denti, abbozzò un sorriso:” Sì sono io…ma mi può chiamare Tom. Lei come si chiama?” Mi sentii un’idiota. E chi aveva mai parlato con un conte? I nobili facevano parte di un mondo a me alieno. Gli risposi, a disagio:” Mi chiamo Elena-e fissando le foto, continuai-mi spiace, non volevo curiosare.” Chissà se nel mio terribile inglese, mi ero espressa correttamente. Tom prese in mano la foto della sorella, fissandola con nostalgia:” Avevo sedici anni quando è morta. E da quel momento, la nostra vita non è stata più la stessa. I miei genitori hanno mantenuto la sua camera intatta. Niente è stato cambiato da allora.” Per la prima volta, gli sorrisi, commentando: “E’ una bella stanza…molto diversa dal resto del castello.” Tom, alzando lo sguardo, mi fissò incuriosito. Dal mio commento emergeva chiaramente che del maestoso castello, non mi importava niente, ma quella stanza mi piaceva molto. Stavo per chiedere com’era morta sua sorella, quando, in lontananza, sentii chiamare il mio nome. Non dissi niente, e salutandolo frettolosamente, raggiunsi i miei genitori. Tom rimasto solo, mormorò:” Strana ragazza. Avrei giurato che anche lei, come mia sorella, odiava i castelli.” Lasciai quel posto, con un misto di tristezza e sollievo. Il pullman, veloce, si allontanava da quei luoghi, che ora, mi erano familiari. Non capivo perché mi sentivo così strana, ma per fortuna, qualche ora dopo, arrivata in albergo, il turbamento si era affievolito. La mattina seguente avevo dimenticato tutto, convinta che le strane sensazioni di déjà-vu che la stanza mi aveva ispirato, erano solo mie fantasie, dovute sicuramente al tetro luogo in cui mi trovavo. Impossibile credere nella reincarnazione….per quanto mi riguarda, io non ho mai creduto a queste leggende! Per fortuna però, non seppi mai dove si recò l’ultimo discendente della casata, l’indomani del nostro incontro. Nella cappella di famiglia, a ridosso della piccola chiesa del castello, Tom portò dei fiori sulla tomba di sua sorella Anne. Rimase a lungo a fissare la foto ovale sul bianco della lastra di marmo e la data incisa in caratteri dorati. “Anne Mackenzie, nata il 15 Aprile del 1984- morta il 18 giugno 2000.” 18 giugno 2000…Il giorno in cui Anne morì è lo stesso giorno in cui sono nata io.

domenica 16 ottobre 2016

GLI OCCHI DI DIO

GLI OCCHI DI DIO Tanto tempo fa, in una bella famigliola felice, nacque un bimbo che fin dal primo istante fu amato e adorato sia dai genitori che dai fratelli. Gli fu dato nome John e crebbe pieno di gioia e vita. Alle scuole elementari, le maestre si accorsero però che aveva un difetto agli occhi. Riusciva a vedere tutti i colori tranne il nero. Per John il nero era simile al bianco, così i dettati del bimbo, le operazioni e i disegni erano scritti con gli altri colori…come il blu…il rosso…il verde. Ma al piccolo non importava se vedeva la realtà senza il colore nero. Il mondo gli sembrava bellissimo ugualmente. Il bambino restava rapito dall’azzurro del cielo, dal giallo del sole…dai colori del tramonto. John aveva tanti amici e le persone rimanevano colpite dalla sua vivace intelligenza, dalla profondità d’animo e dalla sua arguzia. Chiunque rimaneva affascinato dalla speciale personalità, ma soprattutto dal suo cuore. E per John, tutte le persone erano fantastiche. Provava affetto e simpatia per tutti. Non faceva nessuna distinzione né sociale né religiosa. Soprattutto per il colore della pelle. Tutti gli uomini erano uguali. Quando la gente discuteva di razzismo e di avversione contro chi era diverso da loro, John non capiva. Le persone di colore non le distingueva dalle altre persone. Certo, a volte si incuriosiva per questo misterioso colore nero che lui non riusciva a vedere e che, a quanto pare, era tanto importante per l’umanità, ma per lui, l’umanità era fatta da uomini identici a lui. Gli anni passarono e terminati gli studi, John divenne maestro di scuola elementare. Amava lavorare con i bambini, ed era bravissimo a spiegare. Tutti gli scolari rimanevano a bocca aperta quando lui raccontava di Giulio Cesare….della scoperta dell’America…o del suo romanzo preferito “Viaggio al centro della Terra”. Ogni ragazzino stravedeva per quel maestro, mite e gentile, che voleva bene a tutti e non conosceva distinzione fra gli alunni. John voleva fare la differenza, rendendo la scuola una grande famiglia dove tutti erano i benvenuti. Così la fama del maestro si sparse e le famiglie della città lo adoravano. Tutti volevano essere suoi amici. Le persone lo consideravano davvero un dono del cielo. Passarono così gli anni e John si sposò, ebbe figli e nipoti, e così come accade a tutti, divenne anziano. Ma un triste giorno, quell’uomo così speciale, si ammalò. E pochi giorni dopo, sentì che la sua fine era vicina. Stava lasciando questa vita felice e soddisfatto di ogni sua azione. Ma nei suoi ultimi minuti di vita, rivolse una preghiera al cielo: “Dio mio- pensò John mentre le forze lentamente lo abbandonavano-sei stato buono con me. Ho avuto una vita lunga e felice…ma ti prego. Esaudisci la mia ultima preghiera. Fammi vedere, per una volta, il colore nero. Per una sola volta, fammi vedere come vedono tutti gli altri uomini.” Il cielo esaudì la sua preghiera, e gli occhi di John videro per la prima volta, la realtà così come la vediamo tutti. Non c’era mica tanta differenza! Ma sua camera da letto era piena di persone che lo guardavano con affetto e pregavano per lui. L’intera casa era piena di gente….fuori il giardino, e lunga la strada, centinaia di amici e conoscenti, invocavano Dio e cantavano per lui…. L’intera città vegliava i suoi ultimi istanti di vita. John rimase a bocca aperta per la presenza di tante persone… l’intera città gli voleva bene! E si accorse, con sua grande meraviglia, che tanti di loro avevano la pelle nera. Realizzò che grande dono aveva ricevuto alla nascita. Lui guardava il mondo esattamente come lo guarda Dio….perché Dio non fa nessuna distinzione fra gli uomini, soprattutto per il colore della pelle. Lucina Cuccio 16/10/2016

mercoledì 12 ottobre 2016

IL PRINCIPE SENZA CUORE

IL PRINCIPE SENZA CUORE C’era una volta, tanto tempo fa, un castello maestoso, circondato da bellissimi monti e verdi boschi. Quiete e rettitudine albergavano fra le imponenti mura, e ogni funzionario svolgeva onestamente il suo lavoro. Era un regno prospero e felice, e anche i sovrani erano buoni e giusti con la popolazione. Ma la loro vita perfetta nascondeva un terribile segreto…il loro unico figlio, erede al trono, era nato senza cuore. Alexandre, bellissimo principe della monarchia reggente, non sapeva amare. Non provava alcun sentimento, per nessun essere vivente. Le persone non lo interessavano. Non aveva mai amato né toccato una persona. Semplicemente non sentiva alcuna emozione né per gli uomini né per gli animali. La sua anima era vuota, arida come un deserto. Non era un uomo cattivo, ma per lui la vita scivolava via senza passione e partecipazione. Per ore rimaneva nel suo studio, un grande sotterraneo del castello, fissando il fuoco, perso nei suoi pensieri. Era interessato alle scienze e alla filosofia, allo sport e alla caccia, ma per Alexandre era la medesima cosa essere in compagnia della corte o da solo. Le persone erano invisibili e perfino i suoi genitori gli erano indifferenti e li tollerava solo per obbligo morale. Un giorno però, convocato dal re e dalla regina, gli fu comunicato che era prossimo a salire al trono. Il re, stanco e provato, non riusciva a svolgere bene i suoi innumerevoli impegni regali. “Tu sai cosa significa, vero figliolo?” gli chiese il padre, preoccupato. I capelli ramati del figlio brillavano sotto le candele del lampadario, ma lo sguardo del principe divenne vitreo. Sibilando Alexandre mormorò: “Devo prendere moglie, vero?” Improvvisamente nella sala del trono cadde un silenzio pesante e fra i sovrani e il principe scese il gelo. “No-rispose il giovane-non desidero nessuno accanto a me.” La madre lo guardò sconsolato: “Mio caro, tuo padre è troppo stanco per governare. Quindi dovrai salire tu al trono ma per farlo, devi sposarti! E anche generare un figlio. Se no perderai la corona!” Il principe era sconvolto. Sapeva che quello che gli era stato comunicato era vero. Il padre era troppo vecchio per governare, quindi toccava a lui occuparsi del regno. Ma come avrebbe fatto a sposarsi? E peggio ancora, ad avere un figlio? Niente lo interessava. Le donne erano per lui, fredde statue di marmo. Lasciò quindi la sala del trono, e uscito dal castello, galoppò via, dirigendosi dall’unica persona che poteva aiutarlo. La strega del bosco, Marelinga, che viveva nel folto della foresta. Fin da bambino conosceva la leggenda dell’anziana fattucchiera che nessuno voleva incontrare. Tutti erano al corrente dei suoi enormi poteri, ma l’intero regno si teneva alla larga dalla sua immane cattiveria e perfidia. Il principe sapeva che Marelinga aveva trasformato un enorme drago, in una lucertola innocua. Aveva bruciato, con il solo sguardo, un intero campo di grano, e ghiacciato con un semplice gesto della mano, un fiume in piena. La maga, esperta nelle arti occulte, preparava filtri e pozioni magiche. Pochi contadini, disperati, avevano chiesto il suo aiuto ma avevano pagato un prezzo molto alto per averlo fatto….alcuni, perfino, perdendo la vita. Ma Alexandre non aveva scelta e quando arrivò alla capanna, la strega lo stava aspettando fuori. “ Sapevo che saresti arrivato. E non ho sbagliato nemmeno l’ora.” Il principe gli porse la mano, gesto democratico, senza però abbassare la guardia. La strega sembrava un’innocua vecchietta, ma sotto la grinzosa pelle, si nascondeva un mostro. “Entra nella mia capanna-lo invitò la fattucchiera-ti ho già preparato un filtro che risolverà il tuo problema.” Alexandre, nascondendo i suoi dubbi e timori, la seguì nella capanna. Marelinga gli mise subito in mano un’ampolla piena di un liquido verde. “Altezza-gli disse- sei nato senza cuore e per averlo, devi rubarlo a qualcuno. Ma la persona a cui devi toglierlo, deve portare il tuo nome ed essere tuo pari. Quindi puoi scegliere se prenderlo ai tuoi genitori o alla tua futura moglie.” Il principe fissò il liquido della pozione, aggrottando la fronte. Non aveva dubbi a chi avrebbe fatto bere il filtro magico…naturalmente alla sua futura moglie. Benché non amasse i suoi genitori, era legato ad essi da vincoli morali che non poteva infrangere. Mentre la moglie, era in fondo, un’estranea. “Cosa vuoi in cambio del tuo aiuto?- le chiese Alexandre-oro, gioielli, terre?” La maga, sorrise enigmatica. ”Nulla. Consideralo un regalo di nozze.” Il principe lasciò la capanna, con una strana sensazione. Poteva fidarsi di quella strega? Però non aveva tempo per indagare. Il padre e la madre pretendevano al più presto la sua risposta definitiva, caso contrario, avrebbero cambiato la legge, e il potere temporale del regno sarebbe passato al parlamento. Così tornato al palazzo, comunicò la decisione che avrebbe accettato di sposarsi e scelto la sua futura moglie al ballo ufficiale. Pochi giorni dopo, furono invitate al ricevimento tutte le principesse dei regni vicini, informate che l’erede al trono, in quell’occasione, avrebbe dovuto scegliere la sua futura sposa. La grande sala del castello brillava per le migliaia di candele accese che illuminavano lo splendido salone. Arazzi e dipinti preziosi decoravano le pareti e il pavimento lucido di marmo, rifletteva la variopinta nobile gioventù accorsa per l’occasione. Fra le tante splendide fanciulle, Alexandre notò subito una bellissima principessa che non aveva mai visto. Elena, figlia dei sovrani d’oltremare, era di un fascino sconvolgente. Un manto d’ebano incorniciava una viso d’angelo. Leggiadra come una farfalla, fu immediatamente scelta da Alexandre come sua futura sposa. E così, dopo un mese, si celebrarono le sfarzose nozze, e Elena e Alexandre si sposarono fra mille festeggiamenti. La notte delle nozze, quando tutti gli invitati furono andati via, nell’intimità della loro stanza, il principe propose un brindisi. Senza farsi vedere, mescolò la pozione magica della strega, al vino, e porse la coppa alla sposa. “Grazie-rispose Elena, felice e ardente. La bellissima fanciulla fin da subito si era completamente innamorata di Alexandre-brinderò a noi e al nostro futuro.” Il principe vide la moglie avvicinare alle rosse labbra, la coppa che le aveva dato, e berne il contenuto. Elena, poco dopo, impallidì e fissò, stravolta, Alexandre. Contemporaneamente il principe avvertì, un calore divampante e un fuoco ardente riempirgli il petto. Per la prima volta, nella sua vita, sentì palpitare l’anima, e desiderio, amore, passione lo travolsero come un oceano, davanti alla sua bellissima sposa. Ma mentre la moglie, pian piano, si raggelava, Alexandre, si infiammava sempre di più e finalmente sentì nel petto, battere freneticamente un cuore. Il suo nuovo cuore. Provò a stringere al petto la moglie, ma ella, gelida come il ghiaccio, lo respinse. “Perché?-gli chiese il principe-perché non posso abbracciarti? Sei mia moglie!” Elena, glaciale, mormorò: “Lo so che sei mio marito. Ma non so cosa mi accade…so solo che non sento nulla per te…mi sei indifferente, come un estraneo.” La moglie lo fissava con il vuoto negli occhi, poi indietreggiò lentamente e si sedette accanto al fuoco. Sembrava molto più interessata ale fiamme del caminetto che a lui. Il principe era stravolto. Cosa mai era successo? Ora aveva un cuore nuovo, caldo e palpitante, e l’unico desiderio che provava era stringere fra le braccia sua moglie. Ma Elena sembrava fredda e distante come il ghiaccio. Il principe, con sgomento, si accorse allora che la sua bellissima moglie, ora aveva il suo stesso sguardo, quello sguardo vuoto e indifferente che aveva lui, fino a qualche minuto prima. Alexandre provò e riprovò a parlare con la moglie, per tutta la notte. Cercò di persuaderla, di convincerla che lui l’amava e desiderava solo starle accanto e poterla amare. Ma lei non volle assolutamente che lui si avvicinasse. L’indomani mattina la sposa pretese di trasferirsi in un’altra camera del castello, con sgomento dei sovrani e di tutta la corte. Così neosposi dormirono in stanze separate, per tutti gli anni avvenire. Ciò che era avvenuto era incredibile. Alexandre aveva rubato il cuore della moglie, ma mentre lui ora ardeva d’amore per Elena, lei aveva perso la sua capacità d’amare, diventando fredda e indifferente come una statua di marmo. Esattamente come era stato il principe da quando era nato. Alexandre non salì mai sul trono, e passò tutta la vita a struggersi e tormentarsi per la moglie, che non ricambiò mai il suo amore. E ogni notte, l’infelice principe aveva l’impressione che qualcuno ridesse di lui.

domenica 9 ottobre 2016

THE HANDS OF TIME

The Hands OF Time-by Lucina Cuccio Time lived in a lost castle steeped on a mountain top. All day time would weave baskets of fruit for those he wanted to seduce. Once their souls were bought he kept them in oblivion made of false parties, forcing them to dance until they almost died. Time had many forms but his soul was evil and inexorable. He had no pity and could buy anyones’ soul. Implacable with people, cruel with animals, he passed eternity laughing about the end of life. Nothing had ever stopped him. Every person he kidnapped and brought into his domain aroused in this monster a certain kind of interest. Many men for their power, women for their beauty and animals because he realized that their numbers were diminishing rapidly. Time enjoyed himself lengthening the minutes of those who suffered and accelerating the days of those who were happy. In this way, much of life ended quickly and time enjoyed watching it fade away rapidly. When he decided that a persons’ life had to end in the dance of death, he made them taste the sweet fruits of the baskets .From that minute every living being lost in the oblivion of unconsciousness fell prey to tiredness, hunger and thirst. Time had no heart and was very vain. One day he took on the form of a delicate young girl and walked among men. He was looking for his prey when he spotted a young hunter who had just killed a deer. The animal had not been quite dead so the young man had finished it off with his bare hands. Time was fascinated with this kind of cruelty and decided to acquaint himself personally with the young man. So under the guise of this delicate young girl, he walked up to the hunter and presented himself as a young country girl. The youth was dazzled by such beauty and a few hours later, captured by the conversation and laughter between them, they started towards his hut. Time had never felt so emotional. He hid the basket of fruit and from that day lived in the hunters home with him. The hunter wanted to marry the young girl and the whole village turned up for the wedding. And so they were husband and wife. After some time, time realized “she” was going to have a child. “She” was flabbergasted at such a miracle. Never would “she” have thought that the body “she” had adopted could actually fall pregnant! So “she” ran to look for the husband in the forest to tell him the good news. But the hunter, taking another path, arrived at the hut before his wife, and starving, looked frantically here and there for something to eat. Opening the chest where he thought he would find the dried meats, under plates and pots and pans, he discovered the basket of fruits. With great gusto he tasted an apple and from that moment fell into a strange oblivion and began dancing around the house. A few minutes later Time returned home and found her husband like an automatum sweating and tired dancing around agitating himself like a madman. Petrified and surprise, she immediately noticed the basket and the bitten apple that had fallen on the floor. All time’s efforts to nullify the very rules he had established were in vain.Time lost ‘her” husband, who after a few days was struck down by thirst and tiredness, as well as the child in “ her” womb. “She” felt disappointment and pain in those days in the hut watching “her” husband dance himself to death. Upset and desperate, Time returned to his mission even more cruel and ruthless than before. But in the following decades, he never again assumed the form of a woman. Humanity realized that in the last decade the days flew by as if the minutes had been shortened. Many people blamed the modern era and the frenetic rhythms of life, but in reality, Time had decided that the existence of humanity had to be ultimately shortened.

domenica 18 settembre 2016

LE MANI DEL TEMPO

LE MANI DEL TEMPO Il tempo abitava in uno sperduto castello, arroccato sopra un monte. Tutto il giorno intrecciava ghirlande di frutta per coloro che voleva sedurre. Una volta comprata la loro anima, li teneva prigionieri in un oblio fatto da finte feste, costringendoli a danzare finché non morivano. Il tempo aveva tanti corpi ma possedeva un’anima cattiva e inesorabile. Non aveva pietà per nessuno e poteva comprare l’anima di chiunque. Implacabile con le persone, crudele con gli animali, passava l’eternità ridendo della fine della vita. Niente era mai riuscito a fermarlo. Ogni persona che rapiva e portava nella sua dimora, aveva suscitato nel mostro, un certo interesse. Molti uomini per il loro potere, donne per la loro bellezza e animali perché si era accorto che il loro numero diminuiva velocemente. Si divertiva a rallentare i minuti di coloro che soffrivano e accelerava i giorni delle vite felici. Così molte esistenze finivano velocemente e il tempo gioiva nel vederle rapidamente spegnersi. Quando decideva che la vita di una persona doveva terminare nella danza mortale, faceva assaporare loro il dolce sapore dei frutti delle sue ghirlande. Da quel minuto, ogni essere vivente, perso nell’oblio e nell’incoscienza, ballava forsennatamente, preda del sonno, della fame e della sete. Il tempo non aveva cuore ma era molto vanitoso. Così un giorno assunse l’aspetto di una dolce e delicata fanciulla e scese fra gli uomini. Cercava la sua preda quando vide un giovane cacciatore che aveva appena ucciso un cervo. L’animale non era morto e il bellissimo ragazzo l’aveva finito con le sue mani. Il tempo rimase affascinato da una simile crudeltà e decise che avrebbe conosciuto il cacciatore di persona. Così, sotto le sembianze di una delicata fanciulla, si avvicinò al ragazzo, presentandosi come una giovane contadina. Il giovane rimase abbagliato da una simile bellezza e poche ore dopo, entrambi rapiti dalle chiacchiere e le risa, si avviarono nella capanna del giovane. Il tempo non si era mai sentito così emozionato. Nascose la ghirlanda di frutta, e da quel giorno, abitò come una sposa, nella casa del cacciatore. Il giovane volle sposarlo e l’intero paese partecipò alle nozze. Così passarono i mesi e il tempo aveva rallentato la sua attività omicida, per dedicarsi alle sue mansioni di moglie e sposa. Mai, nel corso dei millenni, era stato così felice. Un giorno, con sua grande sorpresa, si accorse di aspettare un bimbo. Il tempo era esterrefatto da quel miracolo. Ma avrebbe immaginato che il corpo che stava usando potesse generare un figlio, così corse nel bosco a cercare il marito per comunicargli la notizia. Ma il cacciatore, prendendo un altro sentiero, era arrivato nella capanna prima della moglie e, affamato, aveva cercato qualcosa da mangiare. Cerca qui e cerca lì, aveva aperto la cassapanca, dove pensava fosse la carne secca, e sotto piatti, pentole e coperchi, aveva invece trovato la ghirlanda di frutti. Con gusto aveva assaporato una mela, e da quel momento, cadde in uno strano oblio e cominciò a danzare per tutta la casa. Qualche minuto dopo, il tempo tornò nella capanna e trovò il marito, come un automa, sudato e stanco, ballare agitandosi come un forsennato. Impietrito dalla sorpresa, si accorse subito della ghirlanda prelevata dalla cassapanca e della mela appena morsa e caduta a terra. A nulla valsero tutti gli sforzi che fece per annullare le regole che lui stesso aveva stabilito. Il tempo stesso esisteva di quelle leggi e nessuno, nemmeno lui poteva annullarle. Il tempo perse il marito, qualche giorno dopo, stroncato dalla sete e dalla stanchezza, e anche bimbo che portava in grembo, per il dispiacere e il dolore che provò nei giorni passati nella capanna, a veder ballare come un matto il consorte. Sconvolto e disperato, il tempo tornò alla sua missione, ancora più spietato e crudele, ma nei secoli che seguirono, non assunse mai più sembianze di donna. L’umanità si accorse in seguito, che nell’ultimo secolo, i giorni volavano, come se i minuti si fossero accorciati. Tante persone diedero la colpa alla modernità e ai ritmi frenetici della vita, ma in realtà, il tempo aveva deciso che l’esistenza dell’umanità doveva essere ulteriormente accorciata.

martedì 12 luglio 2016

LA MONTAGNA MISTERIOSA

LA MONTAGNA MISTERIOSA C’era una volta, nel nord dell’Inghilterra una montagna irta e scoscesa, circondata da una folto e impenetrabile bosco. Ai piedi di questo monte si trovava un antico villaggio i cui abitanti avevano, da sempre, un timore quasi referenziale nei riguardi dello strano monte e l’avevano soprannominato “la rocca misteriosa” poiché migliaia di volte avevano provato ad arrivare fino in cima, ma ogni volta nebbia, tempesta o bufera, orsi e strani incidenti facevano tornare indietro tutti coloro che volevano scalarla. La cima della montagna era sempre incappucciata da un cocuzzolo di neve che all’alba si tingeva di rosso e rosa. Durante il lungo inverno, il monte sembrava una pietra preziosa, un grande diamante grezzo, così scintillante e luminoso che in tutti coloro che lo ammiravano, ispirava un prepotente desiderio di poterlo raggiungere. Però mai nessuno ero riuscito in una simile impresa. Così i paesani avevano rinunciato e ogni iniziativa di scalare la montagna era stata accantonata. In inverno nevicava così tanto che anche il paese rimaneva bloccato mentre in estate le giornate di sole erano rare intervallate da lunghi periodi di pioggia. Una sera d’autunno, quando vento e temporali sferzavano l’aria fredda e umida, un forestiero giunse in paese e siccome era molto stanco, si fermò a riposare nell’unica locanda del borgo. Si sedette ad un tavolo, vicino al camino e ordinò una tazza di tè. Il padrone lo servì portandogli anche dei biscotti fatti in casa, e il viaggiatore chiese se poteva anche pernottare. “Ma certo!-rispose il locandiere- l’accompagno nella migliore camera della locanda dove potrà anche ammirare la vista della nostra montagna, “ la rocca misteriosa”, sempre se domani avrà smesso di piovere.” Il viandante che si chiamava Tom, dopo aver finito l’ultimo biscotto, chiese incuriosito: “ Perché l’avete soprannominata così?” L’oste, accompagnandolo su per le scale, rispose: ”Perché, a memoria d’uomo, nessuno è mai riuscito a scalarla. Abbiamo rinunciato tutti ormai da tanti anni e siccome il monte ci ispira anche curiosità, “rocca misteriosa” è il soprannome che i nostri bisnonni le hanno dato.” Quella notte, il viandante si girò e rigirò nel letto. Quella storia l’aveva proprio colpito. Nel suo animo si agitava un profondo interesse ma anche curiosità, audacia e risolutezza. La pioggia batté insistente sulle imposte di legno per tutta la notte, quasi a volerlo chiamare e all’alba, Tom si alzò stanco ma determinato. Anche lui avrebbe provato ad arrivare in cima alla montagna. Durante la colazione mise al corrente il proprietario della locanda sulle proprie intenzioni. L’oste provò a dissuaderlo nell’intraprendere la scalata.” Mi ascolti-gli disse profetico-è davvero inutile che cerchi di arrivare in cima. Appena giunto nel bosco, una strana e densa nebbia le impedirà di vedere. Tutto il mondo si trasformerà in una lampada di fumo e dovrà fermarsi. Qualcuno è riuscito a superare la nebbia, ma una tormenta di neve si abbatterà sul sentiero che porta allo sperone e che continua poi in una sorte di ponte di ghiaccio. Lì tutti si sono fermati perché orsi e branchi di lupi affamati aggrediscono chiunque provi a passare. Nessuno sa come prosegue la strada.” Tom ascoltava attentamente, facendo tesoro di ciò che l’oste raccontava, però poi si recò ugualmente nell’unico emporio del paese dove comprò varie cose che sicuramente gli sarebbero servite per salire il monte. La notizia che un forestiero voleva scalare la montagna si sparse rapidamente e molte persone l’accompagnarono fino alle pendici del bosco. Tutti salutarono Tom augurandogli buona fortuna, ma qualcuno scuoteva la testa, convinti che anche lui sarebbe presto tornato indietro. Tom, animato una ferma volontà, si avventurò nel bosco, bagnato di pioggia. Mucchi di foglie e rami caduti rendevano difficile camminare ma gli scarponi che il giovane aveva comprato la mattina presto, facilitavano il percorso. E come l’oste predisse, arrivò una nebbia così fitta che i tronchi degli alberi, il terreno e anche il cielo, scomparvero improvvisamente. Tom allora si sedette a terra, aspettando che quello strano fumo grigio si diradasse ma parecchie ore dopo, ancora non si riusciva a vedere niente. Le tenebre stavano calando e un manto nero avvolse l’intraprendente giovane. Durante la notte, dallo zaino, estrasse un fornelletto portatile e l’accese. Scaldò una zuppa e dopo essersi rifocillato, si addormentò. Il pesante cappotto lo difese dal freddo e l’indomani, i raggi del sole che filtrarono attraverso la cortina dei rami degli alberi, lo svegliarono lentamente. Tom si alzò, costatando con soddisfazione, che la fitta nebbia era scomparsa, ma qualche ora dopo, una terribile tormenta lo costrinse a fermarsi. La neve, fitta e pungente, sferzava su di lui, implacabile, colpendolo ripetutamente. Ma Tom, trovato un grosso masso, si accucciò contro la parete, tentando di difendersi dalla tormenta. Il freddo era ancora più intenso ma, risoluto, il giovane resistette tutto il giorno, fino a sera. Poi la tormenta cessò. Era notte fonda, quando Tom arrivò al famoso sperone. Dopo averlo percorso, la lampada che illuminava il suo passo, rischiarò l’accesso al grande ponte di ghiaccio che si levava in alto verso la vetta. Ma improvvisamente un enorme orso bruno , dalla sommità del ponte, puntò Tom, ringhiando feroce. Tom corse via e fortunatamente trovò un albero dove arrampicarsi e dall’alto buttò all’animale affamato, enormi pezzi di carne pieni di sonnifero. L’animale li divorò immediatamente e poco dopo, cadde in un sonno profondo. Il giovane scese dall’albero ma sempre arrivato all’inizio del ponte, un branco di lupi gli corse contro. Tom scappò di nuovo e si arrampicò sullo stesso albero, ma aveva finito la carne. Così rimase su, aspettando che i lupi andassero via. Il branco rimase due giorni sotto l’albero, aspettando che Tom cedesse alla fame e al freddo, ma all’inizio del terzo giorno i lupi lasciarono la presa. Tom era allo stremo delle forze, ma barcollante dal sonno e dalla stanchezza, scese dall’albero e iniziò a percorrere il ponte di ghiaccio. Non poteva credere che era riuscito finalmente ad arrivare fino alla cima. Tutto era coperto di neve, così bianca e scintillante che faceva fatica a tenere gli occhi aperti. Dietro il cocuzzolo innevato, il monte continuava in basso, declinando in una piccola valletta nascosta dalla cima. Tom non poteva credere ai suoi occhi! La valle era tutta verde, piena di fiori e alberi da frutta. Camminò sui prati profumati, staccando qualche mela per placare la fame quando vide un sentiero erboso. Incuriosito lo percorse e dopo pochi minuti giunse alla parete nord del monte. A malapena notò l’ingresso di una caverna, nascosta da rampicanti e cespugli, ma avvicinandosi intravide, vicino un arbusto, una bambina di dieci anni intenta a sfogliare una margherita. Indossava un vestitino di mussola rosa e aveva lunghi capelli biondi. Quando si accorse di Tom, gli sorrise gentile:” Ciao-lo salutò cordialmente-come ti chiami?” Il giovane credeva di avere le allucinazioni. Un piccola bimba, carina e gentile sulla sommità di un monte impenetrabile. Deglutendo varie volte, rispose:” Ciao. Mi chiamo Tom e tu?” La piccola sorrise di nuovo:” Io mi chiamo Mary.” Prendendo coraggio Tom osò: “ E cosa ci fai qui?” La bimba, divenne improvvisamente seria, come se quella domanda fosse proprio strampalata. La risposta sembrava superflua: “Sorveglio che nessuno disturbi la mia mamma!” “La tua mamma? E dov’è’ ?” Mary pazientemente rispose: “La mia mamma è dentro la caverna e sta dormendo.” E con il ditino indicò l’ingresso. “Vedi, è lì ma nessuno può entrarci!” Tom, che ripensava ai lupi e all’orso che aveva affrontato, esclamò: “Ma devi svegliarla! Potrebbero arrivare degli animali feroci e attaccarvi! Dimmi dov’è tuo padre?” Mary sorrise.” Oh! Ma anche il mio papà sta dormendo! Ma lui è rimasto al villaggio!” Tom non capiva più niente! Il padre le aveva lasciate sole sulla montagna e lui era rimasto al villaggio a dormire? Prendendo l’iniziativa e ispirando profondamente le propose:” Senti piccola, svegliamo la tua mamma e al villaggio vi ci porto io. Non preoccuparti! Riusciremo a superare quegli animali.” Allora Mary ripeté educatamente :” Guarda che nessuno deve svegliare la mia mamma! Ed è compito mio che dorma tranquilla nella sua grotta!” A questo punto, Tom, diretto le chiese:” Puoi spiegarmi perché non puoi svegliare la tua mamma?” La bimba, alzandosi in piedi rispose: ”Vedi, alla mia mamma piace tanto il colore giallo…sai quel giallo delle collanine e dei braccialetti?” “Sì…ho capito il giallo a cui alludi.” Mormorò Tom sempre più stranito. Cosa c’entrava il giallo con il fatto che la madre non poteva essere svegliata? “Beh-continuò la bimba- Lei adorava tanto quel colore che si vestiva sempre di giallo! Le coperte del suo letto, le tende della casa…anche le pareti del salotto erano gialle! Quando la mia mamma si è addormentata, il mio papà l’ha portata quassù. L’interno di quella caverna è tutta gialla! E con la luce della torcia, luccica! Il mio papà era convinto che alla mamma sarebbe piaciuto dormire in un posto tanto giallo. Poi, qualche anno dopo, anche il mio papà si è addormentato. Ma prima di chiudere gli occhi, mi ha chiesto di venire quassù a vegliare sul sonno della mamma e a far sì che nessuno potesse disturbarla! Mi aveva detto che se qualcuno avesse scoperto che nella grotta c’era tanto giallo, molti uomini sarebbero saliti quassù a disturbare la mia mamma, a portarla via dalla sua grotta e a farla dormire accanto al mio papà. Ma vedi, dove dorme il mio papà c’è buio, mentre alla mia mamma piace dormire circondata dal giallo che luccica!” Tom non sveniva solo perché si era seduto a terra. Quella storia l’aveva sconvolto! Non sapeva se doveva provare terrore, raccapriccio o curiosità. C’era una bambina, davanti a lui che chissà da quanti secoli vegliava il cadavere della madre in una grotta d’oro! Quasi gli veniva da vomitare! La bimba si sedette accanto a lui e raccolse un’altra margherita. Il giovane, balbettando allora le disse:” Immagino che sei qui da tanto tempo!” Mary si illuminò tutta: ”Oh sì! Da tanto! Però mi piace star qui! In questa valle non piove né nevica mai! E ho sempre tanta frutta da mangiare! La sera dormo accanto alla mia mamma e non mi sento per niente sola!!! Tom, barcollando, si alzò. Fece una carezza alla bimba. Per quando allucinante, quel luogo non andava violato. Non sapeva quali forze magiche o paranormali proteggessero quel posto ma lui e chiunque erano solo degli intrusi. ” Allora Mary-le disse, facendosi forza- io vado via e scusami se ti ho disturbato!” Il giovane era quasi pentito di essersi avventurato fin lassù. La bimba si alzò in piedi anche lei e gli sorrise, tendendogli la mano:” Nessun disturbo! Mi ha fatto piacere conoscerti e parlare con te…però… manterrai il segreto, vero? Non dirai a nessuno che io sono qui e che la mia mamma dorme in quella caverna?” Tom sorrise: “Ti prometto che non svelerò a nessuno il tuo segreto!” E mentre il giovane si allontanava, la bimba gli gridò:” Buon rientro al villaggio allora! E non preoccuparti! L’orso e i miei amici lupi stavolta non ti disturberanno!”

mercoledì 8 giugno 2016

IL REGNO DEI FUNGHI

IL REGNO DEI FUNGHI Tanto tempo fa, in un paese sperduto della Loira, Adam, un vecchio alchimista si era ostinato a scoprire il terreno adatto dove far crescere i funghi porcini, che tutti sanno, sono impossibili da coltivare. Per tanti anni, giorno dopo giorno, conduceva esperimenti, mescolando intrugli, raccogliendo vari tipi di terreno provenienti dalle più lontane regioni della Francia, e li mescolava con svariate sostanze esistenti, naturali o chimiche, provando ad inventare un terreno idoneo. Faceva tutto questo perché andava matto per i porcini e voleva coltivarli nel suo orticello. Ma ogni volta, tutti gli esperimenti fallivano. I funghi non crescevano, oppure morivano subito. Dopo aver trasferito i porcini trovati nel bosco, nel nuovo terreno prodotto da lui, a volte i funghi si liquefacevano o si coprivano di muffe strane e mai viste. Il laboratorio era invaso da odori pestilenziali e liquami puzzolenti, così per l’ennesima volta, l’alchimista Adam, si rese conto di aver fallito e un giorno, rinunciò definitivamente all’impresa. L’intruglio da lui inventato e mescolato alla terra dei funghi era stranissimo, puzzolente e oleoso, ma come al solito, non aveva funzionato e i porcini erano seccati. Quella notte, nel chiudere la porta del laboratorio, guardò sconsolato l’ultimo terreno e mestamente salì le scale di legno che portavano all’angusta camera da letto. Si apprestò a spegnere il fuoco del camino poiché fin da bambino non amava vivere in ambienti troppo caldi, e dopo essersi preparato per la notte, andò a dormire, rinunciando definitivamente all’impresa. Fuori pioveva, e quell’autunno sembrava presagire un freddo e lungo inverno. L’indomani Adam, triste e arrabbiato, si alzò presto e non volle mettere piede nel laboratorio. Per tre giorni si rifiutò di andarci e invece si recò al villaggio, dove sbrigò le varie incombenze e ascoltò i soliti rimproveri di Agnese, fidata e anziana domestica, sempre preoccupata per i suoi acciacchi. La mattina del quarto giorno, dopo che Agnese fu uscita per fare la spesa, il vecchio alchimista si recò nel laboratorio per mettere un po’ di ordine e per poco non cadde a terra per l’emozione. Nell’ultima vaschetta, in bella mostra, accanto ai funghi secchi, troneggiavano quattro splendidi e profumati porcini. Erano uno spettacolo! Emanavano un profumo irresistibile i quattro grandi e vellutati cappelli marrone posti sopra grassi e panciuti steli giallastri. Adam urlò di gioia e saltellò nel laboratorio come un bambino che ha appena trovato una scatola di cioccolatini. Finalmente, dopo tanti anni, i suoi sforzi erano stati premiati, ed erano l’unico che avesse inventato un terreno dove poter coltivare i porcini. Corse a chiamare i compaesani, chiamò il sindaco, i giornalisti, gli scienziati e tutti si chiedevano come ci fosse riuscito. Naturalmente lo scienziato non divulgò mai il procedimento e le sostanze che aveva usato per quello speciale terreno. La sera cucinò e mangiò i funghi che si dimostrarono squisiti. Nei giorni seguenti ricevette molte proposte da parte di imprenditori che volevano acquistare la formula segreta per coltivare i funghi ma Adam non accettò e, comprato un podere fuori il paese, lo modificò chimicamente con l’ultimo intruglio inventato, e trovati dei funghi porcini nel bosco, li trapiantò nel campo. In pochi giorni tutta l’area traboccava di funghi che lo scienziato iniziò a vendere. Ogni sera, naturalmente, pretendeva di mangiare una bella porzione di funghi. Poche settimane dopo, la vecchia domestica che invece non condivideva la passione culinaria del suo padrone, notò nuovi e strani atteggiamenti dello scienziato. Adam disseminava tutta la sua roba personale per casa, con i soldi che ricavava dalla vendita dei funghi, comprava altri campi, ma anche fattorie, oggetti e animali. Faceva bollire continuamente grandi pentole d’acqua e amava il caldo. La casa sembrava una serra. Con il passare del tempo, tante persone si comportarono nella medesima maniera e i medici, chiamati dai familiari, non riuscivano a trovare la causa dello strano cambiamento di personalità di tanta gente. Intanto i funghi dello scienziato venivano venduti in tutta la Francia e in altre nazioni. Adam dopo qualche anno morì, e non rivelò mai a nessuno la composizione del terreno speciale ma nel frattempo, tantissime persone svilupparono ancor più l’amore per le saune, per l’espansione dei propri oggetti intorno a sé e altre stranezze. Nessuno seppe mai che i funghi coltivati dall’alchimista, in realtà, erano così mutati da sviluppare intelligenza e coscienza della propria vita. Si erano resi conto di esistere ma impossibilitati ad invadere la terra poiché esseri vegetali inermi e dipendenti dal terreno, i funghi idearono di impadronirsi della mente degli uomini invadendo i loro cervelli e rimanendo stabili nel DNA delle persone. Il cambiamento di personalità di tantissimi uomini altro non era che il possesso da parte dei porcini, della nostra funzionalità celebrale. Lentamente, silenziosamente, nascostamente, i funghi presero dominio del pianeta e l’umanità non fu più la sola padrona del regno terrestre.

venerdì 20 maggio 2016

IL CASTELLO MORTO(parte seconda)

IL CASTELLO MORTO(parte seconda) La cuoca Lia, sorrise dietro i fumi delle pentole:” Beh, signora, sono tutti molto curiosi di conoscervi. La vita al villaggio è piuttosto monotona e voi e la vostra famiglia rappresentate una grande novità…vero Rachele?” Proprio in quel momento, Rachele, armata di scopa e strofinaccio, era entrata in cucina: ”Certo Lia….appena torno a casa mi aspettano i vari parenti per conoscere ogni particolare! Signora Amelie, voi poi arrivate dalla Francia, siete elegante e raffinata e le mie amiche desiderano sapere tutto…come vi pettinate…ciò che indossate. Il vostro profumo preferito…!” La padrona di casa sorrise difronte a quella ingenua curiosità. Le prosperose e rubiconde Lia e Rachele sembravano brave donne, con le guance rubizze e abbondante decolté e ricordavano due variopinte matrioske. Amelie, poco dopo, raggiunse il marito e i figli nella grande sala da pranzo. Il camino illuminava il lungo tavolo di faggio antico dove brillavano argenteria e cristalli. La cena fu consumata fra le chiacchiere eccitate dei ragazzi e la placida soddisfazione dei coniugi, ancora sedotti dalla novità e dal grandioso lusso della maestosa dimora. Poco dopo, tutti si ritirarono nelle loro camere da letto. I soffici piumoni e le pesanti tende di velluto blu notte vegliarono sul sonno dei nuovi arrivati. Ma verso le due del mattino, improvvisamente, un boato pauroso fece saltare tutti in aria. La famiglia, trafelata e spaventata accorse in cucina, incespicando quasi nei gradini delle scale che portavano ai piani inferiori, e ansanti trovarono sul pavimento un macello! Latte, uova, farina…tutta la superficie impiastricciata e bianca di povere. Il dott Morel esclamò:” Ma chi è stato a fare un simile disastro?” Tutti i componenti della famiglia guardavano disgustati il guazzabuglio a terra. Le donne del paese erano andate via dopo cena e la famiglia Morel era rimasta sola al castello. Ma sia Amelie che il marito pensarono subito ad uno scherzo fatto proprio da Lia e Rachele. Senza aggiungere altro, tutti ritornarono nelle rispettive camere da letto, pensierosi e insospettiti. L’indomani mattina, la cucina era ancora un disastro e quando le due donne arrivarono al castello, la famiglia al completo li aspettavano già in piedi. Il signor Morel, scuro e diffidente, fece varie domande alle due donne che caddero letteralmente dalle nuvole. Nessuna delle due era rientrata al castello, e poi per quale motivo sarebbero dovute ritornare nell’antica dimora a notte fonda? Dubbi e interrogativi rimanevano e ma nessuno poté spiegare quella palude di uova e farina in cucina. Comunque le due donne iniziarono subito a pulire, lasciando la famiglia a far colazione. Nella grande camera da pranzo, Ugo, giocando con i fiocchi di avena chiese alla madre:” Mamma, se la cuoca e la cameriera non sono state, chi ci ha fatto uno scherzo simile?” Amelie, sorseggiando il tè:” Non lo so caro, sicuramente qualcuno del paese. Forse qui non siamo ben accetti.” “Sono stati i fantasmi del castello!”-esclamò Berenice con la bocca piena di pane e marmellata. Ma subito il padre bofonchiò: ”Non essere sciocca! I fantasmi non esistono!” Ma nessuno della famiglia udì invece le fragorose risate che fecero gli spiriti in risposta a quella affermazione. Da quel momento in poi, ogni due giorni, la famiglia Morel subì scherzi di ogni tipo…non cattivi. Ma fastidiosi. L’acqua nella vasca da bagno trasformata in ghiaccio, i vestiti negli armadi pieni di ragnatele, nel barattolo della farina, la calce. Musiche strane di notte, così alla fine, esasperato, il dott. Morel licenziò le due donne del villaggio. L’intera famiglia le riteneva responsabili di tutti quegli scherzi che invece di cessare, continuarono. Le vacanze di Natale finirono e la famiglia Morel ritornò a Parigi. I fantasmi del castello, contenti e soddisfatti, si rilassarono godendosi la pace dell’aldilà, sicuri che non avrebbero più rivisto i proprietari francesi. Ma, contro ogni previsione, la famiglia Morel arrivò a fine giugno per passare le vacanze estive al castello. Con loro erano giunti anche due domestici francesi. I fantasmi allora si scatenarono con nuovi scherzi e la reazione dei francesi fu di iniziare a fare stupidi scherzi agli abitanti del villaggio che ritenevano responsabili di tutto. Così fra il castello e il paese fu dichiarata guerra aperta. La signora Amelie trovava rane nei cassetti? Bene! Alla cuoca Lia veniva sporcato con il fango il bucato steso ad asciugare. Ugo scopriva i suoi soldatini di plastica bruciati? Ottimo! Il postino trovava le cassette del villaggio chiuse con la colla. Per varie settimane, la guerriglia continuò, facendo sbellicare i fantasmi che ora, in panciolle, si godevano lo spettacolo. Meglio di uno show televisivo! Ma una notte, stressati più che mai, si diedero appuntamento il sindaco del villaggio e il signor Morel. La situazione era esasperante, così per amor di pace, stabilirono una tregua. Ma a pace fatta, ecco i fantasmi di nuovo a fare scherzi stupidi, perfino agli abitanti del villaggio. L’estate finì, e la famiglia francese, sconfitta, ritornò a Parigi. Il dott. Morel mise in vendita il castello che rimase chiuso per molto tempo. Ma i fantasmi, abituati ormai a far scherzi, a ridere e divertirsi, si ritrovarono di colpo soli. E iniziarono ad annoiarsi. Che gusto c’era ora nell’avere a disposizione il grande castello se non c’era più nessuno da tormentare? Ormai gli spiriti si erano abituati alla televisione, alla musica, ai cellulari. Alle risate dei ragazzi e alla vita familiare dei vivi. Così quel silenzio divenne opprimente, il buio delle camere, deprimente. Tornò ad essere un castello morto. Così decisero di scrivere una lettera anonima e chiedere alla famiglia Morel di cambiare idea sulla vendita del castello e di tornare per le vacanze. Promisero che gli scherzi sarebbero cessati, e che avrebbe regnato la pace con gli abitanti del villaggio. Dopo un consulto di famiglia, i Morel decisero di tornare al castello per le vacanze di natalizie. E in effetti, non ci furono più scherzi né strani episodi. Una nuova luce, di allegra serenità invase le mura del castello e i fantasmi, soddisfatti, ammirarono il bellissimo albero di natale che Ugo e Berenice fecero in camera da pranzo. L’intera famiglia, dei vivi e dei morti, passò un sereno venticinque dicembre. Nel castello, ora, tanta allegria e gioiosa vita!

mercoledì 18 maggio 2016

IL CASTELLO MORTO

IL CASTELLO MORTO Qualche anno fa, in una sperduta regione della Scozia, era stato venduto un antico ma austero e tenebroso castello. Per molti anni era rimasto disabitato poiché l’ultimo discendente del casato era morto senza lasciare eredi e i familiari più stretti, avevano rinunciato all’eredità poiché il vecchio maniero era oberato dai debiti. Così la banca l’aveva messo all’asta e una ricca famiglia francese l’aveva comprato. Il dott. Morel, proprietario di due famose banche parigine, aveva deciso di elevare ancor più, la sua già opulenta condizione sociale e quale migliore occasione possedere un antico castello scozzese? Già sentiva profumo di corte e nobiltà… La moglie, Amelie e la figlia quindicenne, Berenice, invece avrebbero preferito una lussuosa dimora vicino la capitale francese, mentre Ugo, il fratello minore, era entusiasta dell’idea di vivere in un vecchio castello e sosteneva e difendeva la scelta del padre, dall’altezza dei suoi undici anni. Amelie e Berenice si lamentavano che la Scozia era lontana, la fortezza era isolata e circondata solo da una sconfinata landa verde e ghiacciata, con piatti fiumi e lontane montagne blu. Un piccolo villaggio era il solo luogo abitato più vicino, con un piccolo emporio e due pub. Quando la famiglia Morel aveva visitato la nuova dimora, in lontananza, grigie nuvole piene di pioggia e umidità facevano presagire solo serate rinchiuse nel castello e riscaldamenti accesi tutto il giorno. Ma George Morel si era incaponito e pochi giorni dopo, sborsando una cospicua somma di denaro, aveva dato il via alla ristrutturazione del castello scozzese. I torrioni andavano rinforzati alla base, e i rampicanti di rose ed edera verde, potati. Gli infissi principali rifatti, così anche le porte e i bagni. Impianto elettrico e di riscaldamento andavano totalmente cambiati, così come necessitava affrescare le cantine e le soffitte. Un gigantesco camino medievale troneggiava nella grande sala principale e gli operai iniziarono da lì a lucidare parquet e marmi. Il vecchio giardino totalmente abbandonato, sembrava una giungla e ulteriori cose da fare per gli addetti alla ristrutturazione! Così un esercito di operai, carpentieri, idraulici, architetti e geometri iniziarono i lavori con energia e volontà. E da quel minuto, notte e giorno, un concerto di martellamenti, trapanamenti, botti e rumori invasero le vecchie mura del castello. Ininterrottamente, senza tregua, fracasso e baccano imperavano in ogni stanza del maestoso castello….ma all’alba del terzo giorno, un urlo silenzioso emerse dietro un muro di pietra…“Basta!!!! Non ne posso più…maledetti!!! disgraziatiii!!!” e giù, una serie di improperi che avrebbero fatto svenire un camionista. “Caro-una vocetta gentile e paziente tentò di calmare quell’uragano-abbi pazienza. Prima o poi i lavori finiranno e riavremo il silenzio che tanto amiamo.” “Argh!!!” altro urlo, più imbestialito che mai…solo che proveniva dietro il camino della sala principale. Di nuovo la vocetta gentile: “ Mia cara cugina Jane…cosa succede?” La cara cugina Jane, sbraitando ancor più, esplose di nuovo:” Ha ragione tuo marito! Qui è diventato un inferno! Tutti questi martellamenti mi hanno fatto venire un’emicrania terribile. La mia domestica è esaurita …e mia sorella minaccia di lasciare la nostra adorata dimora per trasferirsi nel cimitero del villaggio… Questo luogo di pace è diventato una discoteca!!!” E da qui in poi, decine e decine di voci, lievi, lucubri e roche, si lamentarono della situazione del castello. Non si poteva più riposare! Leggere con il rumore dei trapani era impossibile! La toilette mattutina era sempre interrotta dai mille operai che andavano e venivano dal bagno, per non parlare poi della cena, ogni volta rovinata dal rumore della lucidatrice. E quei dannati cellulari che squillavano in continuazione…oramai per i fantasmi del castello, la vita era diventata una tortura. Per secoli, avevano riposato in santa pace, in quel bozzolo di lusso antico e austero. Ogni erede del maniero, sia in vita che nella morte, aveva mantenuto una vita austera, posata e dignitosa. Così dal giardiniere alla cuoca, dal primo duca al garzone, tutti coloro che avevano abitato in quel nobile luogo, lasciando la vita terrena, avevano preferito passare il tempo infinito dell’aldilà nel castello sperduto nella verde landa…in pace. Fra le nobili mura, solo secoli di piccoli rumori, passi ovattati, voci appena sussurrate…tutti sapevano di dover mantenere uno stile basso, controllato e posato. Pace e calma erano state le prime regole del vivere al castello… fino a quel minuto. I lavori di ristrutturazione durarono alcuni mesi portando all’esaurimento nervoso i poveri fantasmi del castello, che, in una riunione d’emergenza per sfinimento psicologico, decisero che si sarebbero vendicati con in i nuovi proprietari. “Miei amati antenati- esordì l’ultimo duca, trasparente vecchio e canuto- mi raccomando però…è giusto che la famiglia che verrà ad invadere la nostra amata dimora, paghi per tutto ciò che abbiamo sofferto. Ma la vendetta deve essere lieve…non cattiva. Fastidiosa…questo sì.” “La prozia Mary sghignazzò:” Certo caro pronipote…vedrai che non saremo cattivi…non arrecheremo terribili spaventi. Non vogliamo far venire loro un infarto!” “Ma certo-la interruppe la cuoca, con maligna soddisfazione- trasformerò solo il loro minestrone in una zuppa di scarafaggi, e i loro croissant in topi in decomposizione.” Alcuni fantasmi allora proposero di far nevicare dentro le camere da letto mentre i nuovi arrivati dormivano, di nascondere loro scarpe e oggetti, staccare la luce elettrica, riempire la teiera di cimici e così via dicendo, e alla fine decisero che avrebbero aspettato l’arrivo dei francesi per decidere la vendetta migliore. Il venti dicembre, all’inizio delle vacanze scolastiche di Ugo e Berenice, i fantasmi videro arrivare al castello i nuovi proprietari. Nel grande atrio di casa furono depositati vari bagagli, e subito i ragazzi corsero su per le scale, verso le nuove camere da letto e così anche i genitori, ansiosi di rinfrescarsi dopo il lungo viaggio. Durante la loro permanenza erano state ingaggiate due donne del villaggio per le pulizie e per preparare loro i pasti. La signora Amelie, dopo una doccia, raggiunse, nella nuova e grande cucina di acciaio e modernità, Lia, la corpulenta moglie del postino, famosa per la sua bravura culinaria. “Beh-esordì Amelie ispezionando le pentole che fumavano-cosa si dice al villaggio di noi?”(continua)

venerdì 29 gennaio 2016

IL GIARDINO STREGATO

IL GIARDINO STREGATO C’era una volta, tanto tempo fa, un regno felice i cui abitanti pensavano di vivere in paradiso. Non esisteva la povertà, né la fame o l’ingiustizia. Ogni cittadino possedeva o una bella fattoria, o un palazzo o un castello e tutti lavoravano, guadagnavano e commerciavano. Il re di quel beato regno aveva incrementato l’Arte e la Cultura e i regni vicini invidiavano la meravigliosa amministrazione di quel paese. Un giorno si trasferì in una piccola casa abbandonata, vicino al bosco, una splendida ragazza. Era la creatura più bella mai vista. Un manto biondo grano circondava due occhi blu come il cielo e la pelle della ragazza ricordava le pesche mature. Gli abitanti rimasero colpiti da tale bellezza ma, pochi giorni dopo il suo trasferimento nel loro paese, rimasero anche sconvolti perché, intorno alla casetta dove abitava la fanciulla, era cresciuto un muro di piante e rovi. La fanciulla spaventata e sconvolta, chiedeva aiuto, voleva uscire ma le piante glielo impedivano. Sembravano piante stregate. Tutti i giorni sedeva sul piccolo prato che circondava la casetta e il giardino era diventato la sua prigione. Anche le persone che tentava di attraversare il muro di piante, venivano respinte. La notizia fece il giro del regno e tutti, impietositi per la situazione della povera ragazza, tentarono di distruggere le piante, tagliandole o dando loro fuoco, per farla uscire. Ma, magicamente, in pochi secondi, ricrescevano, intricate e rigogliose. Quale mai strana natura era quella? Com’era possibile che cespugli e rampicanti fossero animati da una così perfida volontà che aveva il solo fine di tenere prigioniera una povera fanciulla? Il principe di quel regno, volle andare a vedere di persona il giardino e appena vide la ragazza se ne innamorò perdutamente. Dopo averle parlato a lungo, la fanciulla seduta sul prato, tacque, sconsolata e malinconica. Allora il figlio del re, esasperato ed infiammato d’amore per la ragazza, si recò da un vecchio contadino che conosceva bene le piante. “Altezza!-l’accolse il vecchio-quale onore! Cosa posso fare per lei?” Il giovane gli sorrise, speranzoso: “ Ti conosco da quando sono nato e so che sei al corrente della situazione della povera ragazza prigioniera del giardino. E’ una fanciulla meravigliosa! E’ talmente splendida che lascia senza fiato! Ha il mare negli occhi e il sole fra i capelli. Non ho mai visto una ragazza così bella e ho capito subito che era lei la fanciulla che ho tanto atteso e che desidero sposare. Quindi ti prego di aiutarmi a liberarla da quelle terribili piante stregate. Esiste una maniera per ucciderle?” Il vecchio contadino rispose:” Principe, ho visto quale potere hanno quei cespugli! E i rampicanti spinati sono anche peggio! L’unico rimedio che mi viene in mente è una vecchia mistura che ogni tanto uso per seccare le erbacce. “ Subito il giovane chiese: “Di quale mistura parli?” Il contadino rispose:” E’ una miscela di sale, aceto e cenere. Innaffi le radici delle piante e aspetti una notte. Di solito il giorno dopo le erbacce sono morte.” Il principe ringraziò e immediatamente fece come gli aveva consigliato il vecchio contadino innaffiando i rovi con la mistura per le erbacce. Miracolosamente, l’indomani tutti i rovi e i cespugli che tenevano prigioniera la ragazza erano secchi, così il principe scavalcò agilmente il muro per abbracciare la fanciulla che quello stesso giorno volle sposare con solenni festeggiamenti. Ma l’indomani delle nozze, i camerieri trovarono il re e la regina misteriosamente morti nel loro letto. Nessuno era riuscito a capire il motivo della loro dipartita. Poche settimane dopo, anche il principe, ormai diventato re, morì misteriosamente e la giovane sposa diventò regina di quel regno. Da quel triste giorno ingiustizia, prepotenza e paura traversarono le case dei poveri abitanti. In realtà la splendida fanciulla nient’altro era che una strega cattiva e feroce che aveva ucciso il re, le regina e il principe per salire al trono e impossessarsi del reame. Ella amava il delitto e la crudeltà, così portò via ogni bene agli abitanti, usurpò tutte le ricchezze del regno che lentamente andò in rovina. Solo alla fine, gli abitanti capirono veramente chi era la regina. Un’orribile strega che Madre Natura aveva voluto tenere prigioniera per evitare che facesse del male e che loro, scioccamente, avevano voluto liberare. Le piante e i cespugli volevano solo proteggere la loro terra che fu messa a ferro e fuoco dalla perfida fattucchiera. Il regno, un tempo ricco e fiorente, scomparve, le persone morirono di fame e la fertile terra si trasformò in una landa desolata.

mercoledì 27 gennaio 2016

IL REBUS PIU' DIFFICILE

IL REBUS PIU’ DIFFICILE C’era una volta, in un regno lontano, uno scienziato famosissimo. Nel corso della sua lunga vita aveva risolto tanti quesiti matematici, esperto di Astronomia, Biologia e Botanica, il nostro pianeta aveva ormai ben pochi misteri per lui. Per tutta la vita aveva solo studiato, sperimentato e fatto conoscere il suo eccelso lavoro. L’imperatore di quel regno lo teneva in grande considerazione e aveva preteso che vivesse nel suo grande castello. Così “Mallius il Grande”, “Mallius il Supremo”, “Mallius il Magnifico”, era osannato e ammirato come un Dio. Ormai anziano, parlava così tante lingue che ne aveva perso il conto. Aveva pubblicato migliaia di libri e milioni di persone, da ogni parte del mondo, erano andati ad omaggiarlo. Ma ahimè, la superbia dello scienziato era andata aumentando con la sua meravigliosa cultura. Capriccioso e viziato, Mallius amava l’adulazione e l’elogio, ma nella sua lunga vita, non aveva mai amato. Era solo un ragazzo quando si era staccato dalla famiglia, non interessandosi più della sorte dei suoi genitori e dei suoi fratelli. I suoi studi e le conquiste scientifiche gli avevano fatto accumulare enormi ricchezze che teneva gelosamente nascoste nei forzieri e nei depositi sotterranei ma non aveva mai fatto una carezza ad un bimbo né fatto l’elemosina ad un povero. Il suo cuore era un diamante, prezioso ma freddo e duro. L’imperatore di quel regno desiderava sempre vederlo, parlare con lui e imparare almeno qualcosa dell’oceanica cultura di Mallius che, un po’ seccato, si prestava a tal servizio, sapendo come era preziosa l’amicizia con il signore di quel regno. Ma gli anni erano passati, tutti i premi di scienza, vinti, migliaia di riconoscimenti ottenuti ma lo scienziato si accorse che qualcosa gli mancava. Si alzava la mattina con una piega amara sulla bocca che non aveva mai avuto. Cosa mai era quella sensazione? Erano diverse settimane che quello strano languore lo perseguitava. “ Per tutti i Numi!-pensava-perché mi sento così? Soldi…successo scientifico…potere…insomma ho tutto! Ma non sono più felice! Cosa mai mi sta succedendo?” La smisurata intelligenza di Mallius non riusciva a risolvere il mistero. Per lui i calcoli astronomici erano operazioni elementari ma non era in grado di dare un nome a ciò che ormai da mesi lo tormentava. Chiamò il più grande medico del regno per essere visitato:” Eccelso –chiese il dottore- le duole qualche parte del suo corpo?” Mallius imbronciato gli rispose:” No. Fisicamente sto bene…ma da vari mesi ho qualcosa dentro che mi fa star male. E non so cosa sia. Nemmeno i miei studi mi danno più soddisfazione! Non scrivo più libri e non mi dedico più alla ricerca! Mi sembra che niente mi interessi più. E poi, quando mi sveglio la mattina, mi sento così…così…fiacco. Apatico!” Il luminare gli fece tante domande, sperando di capire il motivo del malessere dello scienziato, ma dopo quasi un’ora, nemmeno lui aveva capito niente. Mallius era sano come un pesce, anche se anziano, però soffriva lo stesso. Il dottore andò via, senza avergli dato una diagnosi e così quel malessere iniziò a minare anche la salute fisica del famoso scienziato. Mallius smise di dormire e di mangiare, e iniziò a non alzarsi più dal letto. L’imperatore, turbato di perdere una così illustre celebrità, chiamò altri dottori che tentarono di curarlo, ma nessuna medicina poté salvarlo e “Mallius il Grande” spirò poche settimane dopo. Lo scienziato si ritrovò davanti alla Giustizia Divina che esaminò ogni secondo della sua vita. Poi gli chiese di cosa andasse particolarmente fiero. Mallius iniziò ad elencare i premi vinti, i libri pubblicati, le onorificenze ottenute, la ricchezza guadagnata… “E poi?” gli chiese il Cielo. Solo di questo sei fiero? Mallius rispose.” Sulla terra io ero “La Scienza….” Sulla terra io ero la sede del “Sapere”! Di cos’altro dovevo essere fiero?” Il Cielo obiettò:” Di tua moglie!” Mallius esclamò, quasi indignato:” Mai avuta una moglie!” Allora la Giustizia Divina continuò:” Allora sarai stato fiero dei tuoi bambini! Oppure dei tuoi genitori? O dei tuoi fratelli? O dei tuoi amici? O di qualsiasi persona tu abbia amato!” Lo scienziato, trasecolando, esclamò:” Bambini? Fratelli? Qui c’è un malinteso! Io ero fiero dei miei successi scientifici? Cosa c’entrano le persone?” Il Cielo gli chiese:” Quindi le persone erano meno importanti del Sapere?” Mallius esclamò, sorridendo:! Naturalmente….anche se, visto che ci sono, e visto che mi trovo anche nel regno della Conoscenza, volevo notizie del malessere che poi mi ha portato alla morte. Cos’era quello strano languore? Cosa mi ha tormentato per tanti mesi?” Il Cielo sorrise e non rispose. Mallius dopo vari minuti di silenzio, rassegnato per non aver ottenuto risposta, chiese : ”Allora, posso entrare in Paradiso?” “No” rispose l’Universo Celeste. Lo scienziato rimase di ghiaccio. Orrore e sgomento lo trafissero. Rifece la stessa domanda, supplicando, implorando, scongiurando centinaia di volte di farlo entrare nel regno beato, ma la risposta non mutò. Allora Mallius chiese il perché. Il Cielo rispose:” Perché nella tua arida vita hai amato solo la Scienza. Il Potere…la ricchezza! Sei un deserto senz’acqua. Un vaso senza fiori. Un cielo senza stelle. E la tua somma intelligenza non ha risolto il più facile dei misteri. Il malessere che ha tormentato gli ultimi mesi della tua esistenza terrena, altro non era che la mancanza d’amore! Il tuo corpo si è accorto di tale errore ma la tua meravigliosa mente no. Così dispongo che rimarrai fuori le porte del Paradiso finché non hai imparato ad amare. Questo è il mio giudizio.” Mallius, sconvolto e annichilito, esclamò piangendo:” Ma come posso imparare ad amare se son morto? Come faccio a dimostrare la mia volontà di cambiare? Come faccio? Quali mezzi ho?” Il Cielo rispose:” Questo è un mistero che dovrai risolvere!”

giovedì 21 gennaio 2016

IL MATRIMONIO DELLA MAGIA

IL MATRIMONIO DELLA MAGIA Il principe dei folletti, Thio, si era innamorato follemente della principessa degli elfi, Firla. Si erano conosciuti “all’Evento Annuale della Presentazione dei Nuovi Membri Nobili dei Mondi Magici”. Il principe Thio era rimasto abbagliato dalla principessa, appena presentata in società. Firla era bellissima! Lunghi capelli biondi incorniciavano un viso nobile e delicato come le primule, e gli occhi viola erano profondi ma pensierosi. Le voci di palazzo descrivevano la principessa come un essere etereo, gentile e timido. Firla amava leggere e dipingere. Coltivava migliaia di rose intorno al castello reale e suonava il flauto e il pianoforte. Era buona con i sudditi e comprensiva con chiunque…una creatura meravigliosa che abbagliava chi la osservava. Aveva scelto il bianco e i brillanti per i suoi abiti, e il regno la guardava passeggiare fra i giardini del palazzo, avvolta da una nuvola candida e scintillante. Ed è così che apparve all’evento dell’anno a Thio che, da quel momento, non le staccò più gli occhi di dosso. Anche la principessa rimase colpita dal principe dei folletti e quella sera, nel salone da ballo del castello, fra il vortice delle danze e dei festeggiamenti, nacque il loro bruciante amore. Entrambi si accorsero che la vita era vuota ed inutile senza l’altro. Nessuno dei due poteva essere felice lontano dal compagno e così, dopo qualche settimana, comunicarono la decisione di sposarsi alle loro famiglie reali e ai ministri dei regni. Tale notizia fece scoppiare un putiferio. Il mondo dei folletti e quello degli elfi era regolato da rigide e secolari regole che mai nessuno aveva infranto. La segretezza dei loro mondi, la coordinazione dei venti, della neve, delle piogge, la crescita dei fiori e degli alberi e soprattutto la purezza della loro specie erano norme assolute. Ogni folletto ed ogni elfo aveva sangue puro nelle vene e quale principe poteva mai ereditare il regno se era frutto di due razze diverse? I genitori di Thio e di Firla decisero quindi di impedire ai giovani di incontrarsi, di parlare e comunicare per lettera. Immaginate la rabbia e la disperazione dei due giovani. Urlarono, piansero, imprecarono ma niente sembrava scalfire la decisione dei genitori. I sovrani stupidamente pensavano che dividere i due innamorati rappresentasse un bene per loro. Ma avevano decisamente sottovalutato l’amore dei due giovani che continuarono a ribellarsi e scappare dal castello reale per potersi incontrare. Fu così che Firla fu rinchiusa nel maniero più lontano e isolato del regno e Thio fu mandato nelle miniere d’oro a occuparsi degli affari di famiglia. Ma più il tempo passava, più i due ragazzi soffrivano. Firla non mangiava più, deperiva e smaniava mentre Thio aveva proprio perso la voglia di vivere e aveva cominciato a dormire tutto il giorno e a non parlare più con nessuno. Un anno dopo, i due principi erano ridotti come stracci, così i genitori, impietositi, li convocarono alla presenza dell’intera corte e del regno per affrontare una volta e per tutte la situazione. I quattro sovrani erano giunti insieme ad una drastica e sofferta decisione. “Firla-mormorò la madre regina, affranta e preoccupata-hai sofferto troppo e la tua vita ora è in pericolo. La tua salute è debole e lentamente ti stai spegnendo, così con tuo padre, il consiglio dei ministri e dei nobili siamo approdati ad una risoluzione del problema. Ti concederemo di sposare Thio, ma in cambio rinuncerai al regno, ai poteri magici e vivrai nel mondo reale senza nessun nostro aiuto. La corona sarà ereditata da tuo fratello che ha già accettato. Quindi ti chiedo formalmente se accogli questa proposta in nome dell’amore che provi per il principe Thio. Sei disposta a rinunciare a tutto per lui?” Firla rispose immediatamente:” Certo! Ho sofferto troppo lontana da lui e non desidero altro che sposarlo!” “E tu Thio-chiese a sua volta il re dei folletti-anche tu accetti di rinunciare a tutto per poter sposare Firla?” Il principe di getto esclamò: “Certo che accetto! Nessun titolo nobiliare, nessun regno, nessuna ricchezza e anche i poteri magici mi farebbero più felice che passare il resto della mia vita con Firla!” I genitori, commossi, sorrisero alle sentite dichiarazioni d’amore dei due giovani e così, pochi giorni dopo, Firla e Thio si sposarono. Andarono a vivere in una piccola casetta, nel folto del bosco, nel mondo degli uomini. Il principe era diventato un falegname e la principessa zappava nell’orto per avere qualche verdura per la zuppa. Entrambi si alzavano all’alba e lavoravano duramente tutto il giorno. Ma alla sera, felici e appagati, guardavano il fuoco scoppiettare nel camino, paghi solo della presenza dell’altro, parlando e raccontandosi fiabe e racconti. A volte passeggiavano nella foresta, o andavano a pescare le trote al fiume. Ogni giorno recava contentezza e gioia e i loro genitori avevano notizie regolari della vita dei loro figli, contenti che la giovane coppia fosse così felice. Molti elfi e folletti, nobili e ministri si chiesero come avevano fatto i due principi a rinunciare alla magia, ad ogni ricchezza e privilegio in nome dell’amore, abbracciando un’esistenza di duro lavoro e sacrificio ma quegli stolti non capivano come potesse essere straordinario e soddisfacente condividere la vera magia dell’amore.

mercoledì 13 gennaio 2016

LE PAGINE DI VETRO

LE PAGINE DI VETRO C’era una volta un regno sperduto il cui re, dopo tante preghiere e insistenze aveva ricevuto da una potente strega, un dono molto speciale. Aveva avuto in regalo, per ogni cittadino della sua contea, un pizzico di magia e così, senza troppi limiti, tutti potevano ambire ed ottenere ciò che desideravano. Immaginate la felicità di quelle persone che vollero subito castelli, terreni, cavalli pregiati, abiti, gioielli, oro e tanto altro! Ma in cambio di quella immensa ricchezza, la strega volle e ottenne dal re tutte le pagine scritte di quel regno. Nessuno avrebbe potuto più leggere e se qualcuno voleva desiderare un libro, le pagine sarebbero state trasparenti….come il vetro. Il re accettò subito la richiesta della fattucchiera, e le persone occupate dalle loro ricchezze e beati dall’opulenza della loro vita, non pensarono più ai libri e rinunciarono a leggere. Passarono diversi anni, il re invecchiò, i bambini crebbero. La vita in quel regno era un susseguirsi di feste, battute di caccia, cene e sfilate di moda. Tutti erano felici…tutti erano appagati…tutti avevano ciò che desideravano…ma inspiegabilmente, le persone cominciarono ad intristirsi…le donne, sui ricchi divani, si annoiavano. I bambini non giocavano più, e gli uomini aveva sul cuore, un’orribile pesantezza. Cosa era successo? Le pance erano piene…ogni desiderio era esaurito subito, ma la gente era malinconica e infelice. Così un giorno il re, esasperato e preoccupato, si recò dalla strega a chiedere il motivo di ciò che stava accadendo nel suo regno. La strega, sghignazzando, gli chiese: “Ma davvero non hai capito cos’è successo?” Il sovrano, canuto e tremolante: “ No…e vorrei che tu mi spiegassi perché i miei amati cittadini sono così infelici. Desideravo che ogni loro sogno fosse appagato. Per ognuno di loro anelavo ricchezze e benessere ed invece il regno sta morendo…infelicità e noia albergano nei loro cuori. Perfino i bimbi non giocano più.” La strega ebbe pietà del re e pazientemente rispose: “ Quando ti ho chiesto di avere tutte le pagine scritte del tuo regno, in realtà ti ho chiesto un regalo più grande di quello che io ti ho dato. Ho concesso ai tuoi sudditi la magia per esaurire i loro desideri ma tu mi hai donato i loro sogni. Leggere è la magia della mente e del cuore, e mentre lo fai, la fantasia si libera e il mondo cambia. Ogni parola scritta è un grande tesoro che possiede solo chi lo legge. Ho tolto dal tuo regno le parole scritte unica capacità del tuo popolo di sognare. Ora vi siete accorti di ciò che avete perso.” Il re, sconvolto e disperato chinò il capo. Aveva compreso l’enorme sbaglio che aveva fatto. I libri sono la ricchezza più grande dell’umanità…sono la vera magia della vita. “Ti prego-chiese umile e tremante- restituisci le pagine scritte dei libri e noi ti ridaremo la magia che ci hai donato. Ora ho capito che grande errore ho commesso ma spero di essere in tempo per rimediare.” La strega, comprensiva, sorrise. Accontentò il sovrano e tolse la magia agli abitanti restituendo loro le pagine scritte dei libri. Poco alla volta nel regno tornò la felicità e l’allegria. Tanti libri furono stampati, tanti scrittori aiutati e sostenuti. Furono costruite enormi biblioteche, regalati libri alle scuole e leggere divenne una legge di stato.