domenica 12 luglio 2015

IL GIARDINO DI CERA C’era una volta un regno antico e sperduto che aveva avuto pochissimi contatti con altri regni. Si trovava in fondo ad una valle, circondato da altissime montagne innevate. Gli abitanti di quel regno erano schivi, malinconici e impacciati. Il re e la regina non avevano vita sociale, non davano feste e passavano tutto il tempo rinchiusi nel loro castello. Nessuno in quel regno rideva, o scherzava o ballava. Le alte montagne erano mura invalicabili e tutte le persone erano abituate solo a lavorare, vivere e morire senza aver davvero conosciuto gli altri popoli. La regina spesso passeggiava nel giardino del castello dove, fra le siepi, vi erano delle alte statue di marmo. Rappresentavano gli dei del lavoro. La dea protettrice della semina, il dio difensore della mungitura e tosatura delle pecore, la dea tutrice della fabbricazione del formaggio, la dea sostenitrice delle api e della fabbricazione del miele… La regina ringraziava sempre le divinità, soprattutto quella che aiutava la fabbricazione del miele di cui era molto golosa, e rivolgeva ai numi preghiere di riconoscenza convinta che proteggessero il lavoro nella sua terra e che tutto andasse così bene. Anche il re la raggiungeva per rendere omaggio alle statue, osannando il loro sostegno e magnanimità. Tutte le stagioni erano scandite dai ritmi lavorativi del regno. A scuola i bambini non imparavano a disegnare o a suonare gli strumenti, ma solo a lavorare la terra, cucire i vestiti, fabbricare utensili…venivano istruiti solo per ciò che poteva essere utile nella vita quotidiana e cioè imparavano un lavoro ma niente di creativo o fantasioso. In realtà quel regno era sterile e infelice. Un giorno la regina si accorse di aspettare un bambino e nove mesi dopo nacque una bellissima bambina alla quale fu dato nome Lattea poiché aveva la pelle chiara come il latte. I sovrani erano al settimo cielo e vivevano solo per quell’unica figlia. Crescendo però la principessa sconvolgeva continuamente i genitori perché amava ridere, scherzare e ballare. Disegnava con il succo delle more e l’erba spremuta e suonava i bicchieri e i piatti. Nel regno non esistevano colori a matita o strumenti. Il re e la regina l’amavano profondamente ma non capivano la sua diversità. Tentavano di inculcarle l’amore e la dedizione assoluta per il lavoro, e la richiamavano bonariamente al silenzio e alla mestizia ma Lattea invece gioiva e cantava. Correva felice per i giardini del castello, fermandosi davanti alle statue degli dei del lavoro, e ogni volta faceva loro la linguaccia. Per Lattea la vita era fatta di colori, musica gioia e non solo di lavoro e silenzio. Un giorno, dopo l’ennesima brontolata dei genitori sul fatto che l’avevano sorpresa a disegnare, Lattea iniziò a piangere, scappando in giardino. Disperata e confusa si sedette su una panchina, singhiozzando accoratamente quando piano piano si accorse che le statue di marmo che la circondavano lentamente si stavano trasformando in cera. Libere dal marmo, le sculture si muovevano e parlavano. Le lacrime di Lattea avevano commosso gli dei del lavoro e quando i genitori la raggiunsero in giardino, la trovarono circondata da bellissime donne e uomini che impedirono però ai sovrani di avvicinarsi. Il re e la regina, terrorizzati, chiamarono le guardie per liberarla, ma qualsiasi attacco dei soldati fu vano. La principessa lasciò il castello, scortata dalle statue di cera e si avviò a piedi lungo il valico più basso, sparendo dalla vista dei paesani, dei soldati e dei monarchi che urlavano impazziti. La loro unica figlia, luce dei loro occhi, era stata portata via. Il regno piombò della più cupa disperazione. La regina piangeva tutto il giorno e il re mandava soldati e dignitari a cercarla in tutta la regione. Ma la principessa Lattea sembrava sparita. Passarono i mesi e l’unico fatto strano che lasciò sconvolti i paesani era che le api avevano smesso di fare il miele. La notizia fu trascurata dal re, che ordinava ai suoi soldati di passare a setaccio le montagne, le vie, i boschi, alla ricerca della figlia. Ma la regina ne fu colpita. C’era un collegamento fra le api, le statue che si erano trasformate in cera e il rapimento della figlia? Così un giorno si recò dal contadino che sapeva avere molte alveari e chiese il suo parere. “ La faccenda è davvero strana-rispose il campagnolo- le api continuano la loro vita, sono brave lavoratrici, ma si rifiutano di fare il miele. Lavorano come matte, ma dalla loro vita hanno tolto lo zucchero…non fanno più ciò che a loro piaceva al di sopra di tutto, e cioè fare il miele.” La regina rimase perplessa alle parole del contadino. Le api, indefesse lavoratrici avevano eliminato il miele dalla loro vita…Poi, rifletté, collegando i vari eventi. Dal regno era stata eliminata l’arte…la musica…il ballo. Era stato eliminato il miele degli uomini. Il regno era come un alveare ma senza il miele. Sbalordita e sconvolta, corse da re, esponendo la sua teoria. Per far tornare la principessa dovevano far tornare il miele fra gli uomini e cioè nelle scuole dovevano insegnare anche la musica e l’arte, e si dovevano organizzare feste e balli così che la gioia e la felicità dovevano sbocciare in ogni casa. Il re, interdetto, alla teoria della moglie rimase zitto, ma essendo anche lui disperato, fece eseguire ciò che aveva proposto la regina. Così, per la prima volta, musiche, canti, quadri e poesie furono udite e visti nel regno e tutti gli abitanti non dedicarono la vita solo al lavoro ma anche a divertirsi e a sorridere. Il miele della vita era nato nel loro regno e pochi giorni dopo anche gli dei protettori dei mestieri riportarono la principessa Lattea ai suoi genitori. Tutti avevano imparato l’importanza della gioia, del canto e dei colori nella vita di una persona e il re stesso trasformò il regno in un paese felice e canterino. Fece costruire dei lunghi tunnel che collegavano il suo paese agli altri regni, e i nuovi contatti con l’esterno arricchirono di commerci e arte la contea. Una ventata di cambiamento e allegria invase il cuore di ogni paesano. Il miele della vita di un uomo è poter gioire di ogni tesoro che la vita offre.

martedì 7 luglio 2015

L’UOMO CALAMARO Tanto tempo fa, vicino la costa della Francia, vi era uno sperduto paesino di mare i cui abitanti vivevano di pesca e passavano i lunghi inverni, raccontandosi interminabili storie intorno al fuoco e mangiando pesce salato. Era un paese piccolo e tutti gli abitanti si conoscevano, e quasi tutti possedevano una barca per andare a pesca . Ma il papà di Marcel era povero e per sbarcare il lunario aiutava gli altri pescatori durante la stagione e guadagnava quei pochi spiccioli per sfamarsi e mantenere il figliolo che a pochi anni aveva perso la mamma. All’epoca dei fatti, Marcel aveva dodici anni e aspettava tutto il giorno che il padre tornasse, portando con sé gli scarti dei pesci pescati o una pagnotta di pane, avuta barattando ciò che aveva catturato insieme ai suoi compagni. Un giorno il mare era agitato e pioveva a dirotto e nessuna barca era uscita al largo. Ma il poveretto aveva bisogno del pesce quotidiano così chiese al proprietario della barca dove lavorava, se poteva prestagliela. Marcel sapendo che il padre stava per prendere il largo da solo e con quel tempaccio, insisté per accompagnarlo. Così i due lasciarono il porticciolo, fra le onde e la pioggia che senza tregua, sferzava sui loro volti. Lontani dalla costa, con fatica buttarono le reti, tirando su però pochi pesciolini. La cosa si ripeté più volte e quando stanchi e scoraggiati, fecero un ultimo tentativo, con grande sforzo tirarono sulla barca, imbrigliato nelle reti, qualcosa che nessuno aveva mai visto. Sembrava un uomo ma sulla schiena, sulla testa e sulle gambe, aveva strane appendici. Lisce, viscide e gommose, erano tanti tentacoli come quelli di un calamaro. Marcel e il padre erano terrorizzati dallo strano essere che sembrava svenuto. Lo rivoltarono sul dorso, e notarono che aveva le mani e i piedi palmati. Ma il resto del corpo era normalissimo e lo strano essere aveva un volto bellissimo. I capelli erano neri come la pece, e quando aprì gli occhi, lo sguardo era verde…un vetro che, disorientato, li osservava con curiosità. Poi, all’improvviso, si coprì il corpo con le reti. Evidentemente l’essere viveva in mare e non portava vestiti. Marcel fu il primo a rompere il silenzio:” Stai tranquillo…non vogliamo farti del male…anche se abbiamo più paura di te. Tu chi sei?” L’uomo calamaro inclinò la testa da una parte all’altra. I lunghi capelli gli coprivano le spalle, si mossero, fluidi. Sbatté le ciglia bagnate, poi improvvisamente sorrise, scoprendo una fila di denti bianchi come la neve. Marcel sorrise. I segnali corporei mostravano l’assenza di ostilità e l’imbarazzo e la paura di tutti e tre stava scemando, per dar posto ad una grande curiosità. Il padre e Marcel allora tentarono di comunicare con cenni e segni, e anche lo strano essere, a gesti tentava di rispondere e farsi capire. Il temporale però peggiorava così il bambino gli chiese: “Ascolta, noi dobbiamo andare via e rientrare, perché rimanere in mare sta diventando pericoloso…tu vuoi venire con noi…oppure ti ributti in acqua?” Lo strano essere, all’improvviso si tuffò in mare, per poi riemergere subito. Dietro di lui, i tentacoli a corona, si muovevano morbidi e vellutati. Marcel e il padre iniziarono a remare verso la riva mentre l’uomo calamaro li seguiva, nuotando in mare, aggraziato e disinvolto, poi quando si ritrovarono vicino il porto del paese, lo strano essere si fermò, li salutò e sparì nel mare in tempesta. Marcel e il padre, ormeggiata la barca, bagnati fradici, si precipitarono nella taverna del villaggio dove erano riuniti tutti i paesani. Entrarono con una folata di vento e pioggia, e con frasi sconnesse iniziarono a raccontare l’avventura che avevano avuto. Raccontarono dell’uomo calamaro ma più particolari riferivano, più le risate dei paesani aumentavano. Logicamente nessuno credeva alla storia e anzi, ad un certo punto iniziarono a spintonarli fuori la taverna. Lo spettacolo per loro era durato fin troppo. Marcel e suo padre, mesti e tristi, ritornarono nella misera baracca dove abitavano. Arrostirono quella manciata di pesciolini presi prima, sul piccolo fuoco del camino, poi sfiniti, crollarono sul tavolaccio che serviva loro da letto. Non avevano nemmeno i soldi per comprare un materasso. L’indomani, il tempo era migliorato, così il padre di Marcel si recò al porto per unirsi alle barche che prendevano il largo per la pesca, ma nessuno chiese la sua collaborazione. Tutti lo trattavano da matto e più lui insisteva che non avevano avuto allucinazioni, che l’uomo calamaro esisteva e che non era fuori di senno, più i compaesani lo allontanavano, schernendolo. Così il poveretto tornò a casa a mani vuote e per quel giorno, padre e figlio, rimasero digiuni. La solfa si ripeté per vari giorni. Marcel, una mattina, debole e sconsolato, andò a passeggiare sulla spiaggia. Erano tanti giorni che non mangiava, così ad un certo punto, si buttò a terra e iniziò a piangere, disperato. Sulla battigia era solo, ma ad un certo momento sentì degli spruzzi provenire dal calmo mare azzurro. Alzò gli occhi e vide le braccia dell’uomo calamaro agitarsi, in segno di saluto. Il ragazzo si buttò in mare, contento e anche lo strano essere si avvicinò alla riva. A pochi metri, entrambi si fermarono, poi scoppiarono a ridere. Marcel era contento di vederlo, e iniziò a raccontare tutto ciò che era successo. Gli raccontò della cattiveria dei paesani, della fame, della disperazione del padre, quando ad un tratto, scoppiò a piangere, pensando alla misera baracca, al focolare vuoto, alla povertà in cui era cresciuto. L’uomo calamaro, mentre il ragazzo parlava, lo guardava curioso, inclinando la testa, come se tentasse di capire. Poi, scomparve all’improvviso fra i flutti, per riemergere, poco tempo dopo, con tre grossi pesci che mise nelle braccia dello sbalordito Marcel. Il ragazzo lo vide allontanarsi e dileguarsi nel mare, così ritornò a casa e raccontò al padre del nuovo contatto e della generosità dell’uomo calamaro. Evidentemente lo strano essere aveva capito che Marcel aveva fame e lo aveva voluto aiutare. Dopo aver arrostito il pesce, il povero pescatore e il figlio, decisero di mantenere il segreto. Per proteggere l’uomo calamaro dalla curiosità ma anche dalla cattiveria del paese. Da quel giorno, tutte le mattine, Marcel e suo padre si recarono alla spiaggia, e lo strano essere portava loro pesci , aragoste, cozze. I due poveretti mangiavano ogni giorno quando l’uomo calamaro non si fece più vivo. Passarono diverse giornata quando Marcel e suo padre lo videro riemergere con, in mano, gioielli e pietre preziose. I due quasi svennero dall’emozione nel ritrovarsi quegli oggetti preziosi fra le mani. L’uomo calamaro aveva sicuramente raggiunto qualche galeone affondato e aveva portato loro il carico prezioso che conteneva. In poco tempo Marcel e suo padre divennero ricchissimi. Nessuno era riuscito a capire da dove proveniva la loro ricchezza, così una mattina, l’uomo calamaro portò l’ultimo carico d’oro, poi fece capire a Marcel e suo padre che quella era l’ultima volta che si vedevano. I tre si salutarono affettuosamente come vecchi amici, poi lo strano essere sparì fra i flutti. Marcel e suo padre, con tutte le ricchezze accumulate lasciarono il paese e si trasferirono in città dove comprarono un bellissimo e lussuoso palazzo. Non avevano nostalgia né del paese né dei suoi abitanti che si erano dimostrati molto cattivi e che ora si rodevano di rabbia e d’invidia nel vedere i più poveri del villaggio diventare ricchissimi. Marcel crebbe felice, frequentando le scuole e l’università. Da grande, divenne un famoso medico che spesso aiutava gli altri gratis, ricordando i giorni della sua fame e della povertà. Con suo padre vissero contenti e quando Marcel si sposò ed ebbe dei figli, insegnò loro il valore della generosità, della comprensione e il rispetto del mare che per tutta la vita si portò nel cuore.

domenica 5 luglio 2015

FAVOLA: POLVERE DI PANE

POLVERE DI PANE Tanto tempo fa, in un piccolo paese inglese, abitava una famiglia talmente misera che non aveva nemmeno i piatti in cui mangiare. Il padre aveva perso entrambe le gambe in guerra e la moglie, nel dare alla luce l’unica figlia femmina, si era ammalata gravemente e passava tutta la giornata sdraiata su un giaciglio di paglia poiché non possedevano nemmeno un letto su cui dormire…Così quando la figlia compì sedici anni, pregò i genitori di lasciarla partire. Desiderava andare a Londra per cercare un lavoro. La salute di entrambi i genitori era peggiorata e la madre stava lentamente spegnendosi fra il freddo e la fame. Il padre era disperato e così diede il consenso per quel viaggio. Marito e moglie affidarono al cielo la loro unica figlia, amata e adorata sopra ogni cosa al mondo. Essi conoscevano i pericoli della città ma fidavano sul buonsenso e la prudenza della giovane che poche ore dopo arrivò a Londra. Essa rimase a bocca aperta davanti a quell’elegante città, piena di carrozze, di signore raffinate che passeggiavano con lunghe vesti e piumati e frivoli cappellini, di edifici imponenti. Passando davanti un negozio che vendeva pane e dolci, lesse un cartello attaccato alla vetrina che diceva: “ Cercasi sguattera.” La giovane fanciulla vestiva di stracci, con ai piedi zoccoli di legno e un mantello di lana grezza, liso e stracciato. Per un attimo si guardò addosso, vergognandosi della sua miseria, non sapendo che i suoi capelli avevano i riflessi del sole e gli occhi erano più azzurri dei fiordalisi. Ma ella non conosceva la vanità né l’orgoglio o la superbia. La vita le aveva dato solo freddo e fame ma anche l’amore incondizionato dei genitori. Quindi si fece forza ed entrò facendo suonare il campanello posto sopra la porta a vetri della bottega. Si ritrovò davanti un lunghissimo bancone di legno e all’interno, esposti in bellavista, dolci, torte, biscotti e tanti panini profumati. Cannella, vaniglia e cioccolato aleggiavano nell’aria e la povera ragazza quasi svenne dalla fame. Non ricordava più da quanto tempo non mangiava. Un buffo signore rubicondo, con un strano cappello e un pancione nascosto dietro un grembiule immacolato uscì dal retro bottega. Si stava asciugando le mani, e si fermò alla vista della ragazza che fissava strabiliata e con gli occhi fuori dalle orbite, quel paradiso di dolci. “Desidera?” Chiese gentile. Aveva notato i vestiti stracciati della ragazza e la sua aria affamata. La poveretta deglutì varie volte e con voce gracchiante rispose timida: Ho letto il cartello fuori e cerco un lavoro. Sono appena arrivata dal paese.” Il Pasticcere, sfregandosi il grasso mento chiese:” Hai referenze?” “No…ma sono pronta a far tutto. I miei genitori sono malati e a casa hanno bisogno…” rispose sincera la ragazza. Ora parlava male dall’acquolina in bocca che le era venuto. Aveva appena adocchiato una torre di cioccolatini con sopra le nocciole. Il proprietario del negozio era un brav’uomo e si rendeva conto che la giovane era in difficoltà però non era stupido. Una bella commessa avrebbe attirato più clienti e avrebbe fatto una bella figura con i suoi vicini negozianti. “Va bene-rispose tonante-ti pago con una pagnotta al giorno, una fetta di carne o formaggio e un bicchiere di latte. Puoi dormire nel retrobottega e ti regalo anche un vestito decente. Mi aspetto però che tu pulisca tutto, ti alzi presto per aiutarmi a fare il pane, che ti occupi dei clienti. Alla fine del mese ti pagherò due sterline.” Ogni parola sembrava un tesoro…un empito di sollievo e gioia invase il cuore della ragazza e lo sguardo celeste per un attimo, si offuscò di pianto e riconoscenza per quel buffo ometto. La sera, sdraiata su un piccolo letto, nel retrobottega della pasticceria, ripensava a ciò che aveva imparato e che doveva svolgere quotidianamente. Si sentiva molto stanca ma soddisfatta e non le sembrava vero provare il senso di sazietà nello stomaco. Alla fine della giornata il pasticcere le aveva dato un bel bicchiere di latte fresco, una pagnotta ancora calda e una fetta di carne salata. La poveretta, appena sola, divorò quasi ingozzandosi il pane con il latte e assaporò il dolce gusto speziato della carne salata. Finì il suo desinare in un attimo e raccolse anche da terra le briciole di pane cadute, assaporandole come se fossero caramelle. Quindi, rannicchiandosi sotto le coperte, sprofondò in un sonno ristoratore. Non più un giaciglio di paglia…non più umido e freddo nella stanza…né crampi di fame…ma un caldo e comodo ambiente. L’indomani mattina, all’alba, aiutò il pasticcere a fare il pane, la crema glassata per le torte e i bignè con la panna. Già all’ora di apertura, una piccola folla di clienti si era radunata all’ingresso del negozio, attirata dalla fragranza dei profumi di vaniglia e cacao ma anche dalla vista della bellissima commessa che si affannava, dietro i vetri, a sistemare in bellavista le ciambelle con lo zucchero e il pan di zenzero. Per tutta la giornata la pasticceria fu piena di clienti e alla sera il proprietario, felice, contava il profitto della giornata. Così fu bel contento di dare alla ragazza la sua cena, poi ritornò a casa sua. Ma essa, proprio mentre stava per dare un bel morso al pane caldo si bloccò. Le balenarono davanti agli occhi i suoi poveri genitori, affamati ed infreddoliti. Così, sentendosi in colpa, mise da parte il pane e la carne e bevve solo il latte. Da quella sera, tutto ciò che le dava da mangiare il proprietario, lo metteva via, nutrendosi solo di un bicchiere di latte al giorno. La domenica si recò dai genitori portando con sé tutto il cibo che aveva messo da parte. I genitori piangevano di gioia mentre mangiavano il formaggio, la carne e il pane con il bicchiere di latte del giorno prima che era riuscita a tenere in fresco. Così la generosa e altruista fanciulla viva solo con un bicchiere di latte al giorno, e il sabato rimaneva completamente digiuna. Il suo latte serviva ai genitori la domenica appresso. Il pasticcere la faceva lavorare e non gli sfuggì che la poveretta aveva ricominciato ad avere lo guardo affamato. Ma, sicuro del cibo che le dava ogni sera, non ci pensò più di tanto. Un sabato sera la fame le mordeva lo stomaco. La fanciulla aveva messo da parte tutto il cibo che aveva risparmiato nella settimana e l’indomani avrebbe portato finalmente ai genitori anche le due sterline che il padrone le aveva dato. Il suo primo stipendio. Ma i crampi allo stomaco non le davano tregua e il profumo dei dolci nella bottega, era un supplizio di Tantalo. Decise così di andare a dormire, ma nello spogliarsi, si accorse che sul grembiule le era rimasta un po’ di polvere del pane sfornato nel pomeriggio. Con mani tremanti lo raccolse nel palmo della mano e lo mangiò facendolo squagliare in bocca. Un po’ del sapore del pane era meglio che niente! Così da quella sera, raccoglieva la polvere del pane dai suoi vestiti, serbando ogni granellino e se avanzava dai vassoi, invece di buttarlo via, lo raggruppava in un pugnetto mangiandolo con il latte. Piano piano i genitori, nutrendosi regolarmente, stavano meglio e con i soldi che la figlia portava a casa, riuscirono a comprare della legna per riscaldarsi e anche un materasso e delle coperte. Il pasticcere ogni mese pagava la ragazza ed era molto contento di come ella lavorava. Andava tutto così bene, la clientela aumentava e sembrava che tutta Londra volesse i suoi dolci. Ad un certo punto il proprietario pensò di aprire una seconda pasticceria. Aveva realizzato che assumere quella fanciulla era stata una buona azione e che il cielo lo aveva ripagato con il benessere ed il successo. Una sera, come al solito, aveva dato la cena alla fanciulla ed era tornato a casa. Ma a metà strada si era accorto di aver dimenticato i guanti e il cappello nella bottega e così tornò indietro. Aprì piano la porta del negozio, convinto che la fanciulla dormisse ed invece si trovò davanti una strana scena. La ragazza, in ginocchio, davanti al bancone principale, stava raccogliendo da terra la polvere del pane, per poi mangiarla. Il pover’uomo rimase di sasso. Era così incredibile quello che stava vedendo che ogni suono si era fermato in gola. Inghiottì a vuoto troppo strabiliato per parlare. La fanciulla, accortasi della sua presenza, scoppiò a piangere, raccontando il motivo di ciò che stava facendo. Raccontò della miseria della sua casa, della malattia dei genitori e del suo grande ed immenso amore per la famiglia. Era disposta a morire di fame pur di aiutare i suoi parenti. Il proprietario si commosse fino alle lacrime. Quella non era una ragazza…ma un angelo del cielo pronta a sacrificarsi per sua madre e suo padre. Da quel giorno il pasticcere le raddoppiò il cibo e il salario. A sue spese fece sistemare la casa dei genitori e quando la fanciulla, ormai adulta, si fidanzò e si sposò, le regalò un negozio tutto suo giacché in quegli anni, fortuna e benessere avevano accompagnato tutti i giorni del buon fornaio…

sabato 4 luglio 2015

FIABA: LE VELE DEL CIELO di Lucina Cuccio

L'ALBERO DI CORALLO

FAVOLA: LA PELLE DELLE FORMICHE di Lucina Cuccio

L'ALBERO DI LUCINA...

IL PRINCIPE PECORA

IL PRINCIPE PECORA C’era una volta un bellissimo regno dove abbondanza e serenità albergavano in tutte le case. Il clima era clemente, la terra ricca e gli animali si riproducevano con incredibile velocità rendendo i proprietari agiati e felici. Il re e la regina di quel felice regno erano buoni e saggi e avevano una bellissima figlia. La principessa si chiamava Azzurra poiché da quando era nata, ogni loro giorno era come un cielo splendente. Poco distante dal castello dove abitavano i sovrani, vi era una prospera fattoria il cui proprietario allevava un grande gregge che gli forniva latte e lana in abbondanza. Ma di tante centinaia di pecore che possedeva, una in particolare gli era molto cara… quella pecora in realtà era uno strano animale. La lana che gli ricopriva il corpo era bianca come la neve, e gli occhi erano blu come il mare e sembrava che parlassero. La pecora, con grande sorpresa di tutti, proprietario e famiglia, si lavava ogni giorno, leccandosi con la ruvida lingua i morbido vello. Quando pascolava, si sfregava contro i fiori per profumare e la sera, quando rientrava all’ovile, salutava il proprietario con cenni del capo. Spesso, con gli zoccoli pulitissimi, si divertiva a disegnare sulla terra, immagini di fiori, monti e animali. Il proprietario gli parlava come se fosse un cane, e la pecora lo seguiva nelle passeggiate che ogni tanto faceva, per controllare lo steccato che divideva la sua terra da quella del castello. Padrone ed animale erano diventati dei buoni amici. Durante una di quelle famose passeggiate, il proprietario e la pecora incontrarono la principessa Azzurra. Insieme alle dame di compagnia stava facendo anche lei una passeggiata e quando si accorse del fattore, poiché lo conosceva da anni, si avvicinò allo steccato per salutarlo cordialmente. Mentre la principessa parlava e rideva con il suo vicino, la pecora la fissava con gli occhi fuori dalle orbite e un sorriso ebete…da pecora! Il proprietario si accorse dell’espressione del suo animale e gli diede una benevola pacca sulla testa:” Ehi, Osvaldo, che ti prende? Non hai mai visto una fanciulla?” Osvaldo, la pecora, di fanciulle ne aveva viste tante, ma nessuna ragazza gli aveva mai fatto battere il cuore come la principessa. Sudava caldo e freddo, le gambe gli tremavano, e gli girava la testa. Anche la principessa si accorse del suo strano comportamento: “ Caro fattore-gli disse benevola-sembra che il suo animale mi fissi imbambolato. E’ come se capisse di cosa parliamo e seguisse la conversazione. E poi mi guarda in una maniera così strana. Sembra molto intelligente…quasi come un cane.” Il fattore replicò:” Mia cara principessa…questa pecora è davvero strana! E si comporta esattamente come un cane…” E le raccontò tutto quello che l’eccentrico animale faceva. Compreso che era in grado di disegnare, facoltà che nemmeno i cani possedevano. “Davvero?-esclamò Azzurra strabiliata-potremmo provare ad insegnargli l’alfabeto…magari è una pecora evoluta, più intelligente delle altre. Se capiamo come ragiona, se riuscissimo a comunicare con lui, potremmo aprire una porta per capire meglio il regno animale. Come si chiama la pecora?” “Osvaldo” rispose prontamente il fattore che, in realtà, era un po’ perplesso. Le parole della principessa lo avevano lasciato interdetto. Mentre la principessa parlava, il fattore si chiedeva perché si doveva istruire un animale. In fondo Osvaldo gli serviva per la lana e la riproduzione e non vedeva vantaggi se imparava l’alfabeto. Ma se quello era il desiderio della figlia del re, non gli rimaneva altro che acconsentire alla strana richiesta. Prima di separarsi dalla pecora, il fattore disse ad Azzurra:” Mi raccomando altezza. Sono affezionato a questa pecora…trattatela bene, poiché lo considero un membro della famiglia.” A queste parole Osvaldo, lasciando tutti strabiliati, leccò la mano del fattore e gli strofinò la testa sul fianco, a mo’ di saluto. Così la principessa portò la pecora al castello, e dopo aver spiegato la situazione ai genitori, chiamò il suo vecchio maestro perché desse lezioni al suo strano ospite. Il re e la regina erano rimasti a bocca aperta, ma ancor più lo era il professore che insisteva con Azzurra. Il vecchio docente affermava che era impossibile istruire una pecora. Come faceva un animale a capire il linguaggio umano? A riconoscere i segni che formavano le lettere? Come avrebbe imparato a leggere? Osvaldo non sapeva parlare! Ma il vecchio maestro, resosi comunque disponibile per le insistenze della sua nobile alunna, iniziò ad istruire la pecora. E fu allora che una tegola gli cadde in testa! Anzi un tetto intero! Osvaldo la pecora, in poco tempo fu in grado di scrivere le lettere, di riconoscere le immagini e i loro significati, ed imparò a contare. Riusciva senza sforzo ad eseguire calcoli complicati e ben presto imparò a leggere… e assunse anche atteggiamenti ancora più umani. Bussava alle porta, mangiava nei piatti, dormiva su un letto. Amava fare il bagno con il sapone, adorava i libri e dipingeva intingendo la punta degli zoccoli nei colori, realizzando dei bellissimi quadri. Seguiva Azzurra tutto il giorno come un cagnolino, dimostrando per la principessa un grande trasporto. Voleva sempre starle vicino, voleva essere carezzato, e le dedicava delle bellissime poesie. Comunicava con grande facilità, dimostrando una grande intelligenza, saggezza e buonsenso. Così tanto che spesso il re lo metteva al corrente di qualche affare o problema, e Osvaldo prontamente lo consigliava risolvendo la situazione. Azzurra amava la compagnia della strana pecora, e insieme passeggiavano, leggevano, ascoltavano la musica, giocavano a scacchi o a carte. Le dame di compagnia avevano imparato a rispettare la scelta della principessa e la notizia che la dama preferita della figlia del re era in realtà una pecora si diffuse in tutto il regno. Però tutti sapevano che Osvaldo era intelligente come un uomo, gentile e sensibile e i sudditi lo tenevano in grande considerazione. Dopo un anno, il fattore si presentò al castello per riavere la sua pecora, ma Azzurra lo supplicò di lasciare Osvaldo presso la corte, poiché le si era affezionata come se fosse la sua migliore amica. Così il fattore ritornò solo alla fattoria, contento però che il suo animale fosse trattato così bene. Il tempo passava e il re e la regina si accorsero del legame profondo che si era creato fra la figlia e la pecora. Ma rimasero a bocca aperta quando la principessa chiese loro il consenso per sposare Osvaldo. La regina quasi svenne e il re iniziò ad annaspare non trovando le parole. Poi iniziò ad urlare frasi sconnesse. Sembrava fuori di testa! Ma la principessa, calma e serafica replicò: “ Cari genitori, Osvaldo è buono, intelligente ed istruito. E’ il più saggio dei vostri consiglieri e il più sensibile essere vivente che possa esistere. Non è colpa sua se è nato pecora e non uomo, ma io lo amo ugualmente. Mi capisce, mi comprende e anche se comunica con me tramite i suoi messaggi, gli parlo come se fosse un essere umano. E anche lui mi ha detto che mi ama, così chiedo la vostra benedizione per questa unione. Voi dovreste volere la mia felicità, così posso sinceramente affermare che solo con Osvaldo sarò felice e che se acconsentite a questo matrimonio, sarò la ragazza più contenta della terra.” Così il re e la regina, dopo qualche giorno, acconsentirono all’unione di quella strana coppia e al matrimonio, Osvaldo il principe, volle invitare il fattore e tutta la sua famiglia. Dopo qualche anno, Osvaldo fu nominato re e il suo regno fu illuminato e grandioso. Azzurra lo amò con tutto il cuore e per tutta la vita, trovando nelle migliaia e migliaia di messaggi che la strana pecora le scriveva, la ricetta della vera felicità.