giovedì 7 gennaio 2021

L'ultimo credo

Mi tremavano le mani, mentre sorreggevo quel libro come una preziosa coppa di cristallo. A voce bassa, in un mormorio appena udibile, leggevo quelle oscure frasi… per supplicium, ab igne et a fumo, audivi haec verba. Parole sbiadite…lontane e remote, come isole sperdute nell’oceano. Supra omnem voluntatem... espressioni appena leggibili…imperscrutabili. Ingoiavo a vuoto perché avvertivo, ad un tratto come un gelo, che senza motivo, dal libro, passando per i guanti di lattice, le mani e le braccia, era arrivato nel mio cuore. Voca me… voca me? Cosa significava? In latino non ero mai stato bravo. Quei termini misteriosi e arcani, quelle pagine ingiallite e fragili, come foglie secche, mi stavano portando indietro nel tempo. I secoli avevano lasciato un segno spietato su quelle superfici. E poi la data e la firma. Carcassonne 1703 Thomas Vidal Il liceo scientifico che avevo frequentato e in cui mi ero diplomato, due anni prima, mi aveva dato la possibilità di tentare di capire, bene o male, il senso di quelle vetuste parole. Ci misi qualche minuto ma alla fini compresi. Alla luce del tempo eterno il cambiamento mi chiama Al di sopra di ogni volontà Poi tutto è mutato. Dal fuoco e dal fumo, per supplizio ho sentito queste parole. Sembrava un formula magica, tranne per la frase che si riferiva ad un preciso momento in cui, siffatto sconosciuto Thomas Vidal, aveva udito queste parole. E se mi era chiaro, da qualcuno che stesse morendo. L’unico supplizio che conoscevo con il fuoco era la condanna degli eretici bruciati vivi sul rogo. Certo, trovare nel doppiofondo di quell’antica cassapanca francese, sotto strati di polvere e insetti morti, quel piccolo tomo rilegato in pelle, mi era sembrato un colpo di fortuna. Ora però, non ne ero più tanto sicuro. Nel leggere, a voce sommessa quelle frasi, mi ero subito accorto che qualcosa era cambiato. Qualcosa non andava. Sembrava che l’aria, nel retrobottega del negozio di restauro di mio zio Tommaso, si fosse rarefatta. Fra gli scaffali, dove disordinatamente erano disposti vari barattoli di vernici, colle e stucchi, era sceso il gelo. Improvvisamente mi sembrava di essere entrato dentro un frigorifero. Poi la lampada al neon del soffitto, lentamente variò intensità di luce. Ritmiche ondulazioni di frequenza. Ingoiai varie volte, cercando di mantenere la calma. “Non essere cretino-mi ripetevo per farmi coraggio- anche se è notte, e sono solo in negozio, certe stupidaggini non devono suggestionarmi.” Fissai il pavimento, le mie vecchie Reenbok e poi pezzi di antichi mobili smontati, in attesa del restauro, i trucioli di legno e le limature che coprivano le consumate mattonelle di coccio. Davanti i miei piedi, poi, il falso fondo che avevo rimosso per preparare alla riparazione quella singolare cassapanca e che ora avevo quasi paura di toccare. L’oggetto, arrivato nel pomeriggio tramite corriere e molto particolare, proveniva da un vecchio convento della città di Carcassonne. Era stato donato alla nostra Arcidiocesi ma che prima doveva essere restaurato. Mio zio aveva accettato felice l’incarico. Figuriamoci, un vecchio devoto come lui! Da più di un anno facevo pratica nella sua bottega di restauro e per quel lavoro indossavo guanti di lattice, la felpa nera e i miei intramontabili jeans che mi ero rifiutato di buttare. Ora però sentivo i vestiti strangolarmi. “La magia non esiste-mi ripetevo-cavolo, studio matematica…io credo solo in quello che vedo!” Eppure, preso da strane fantasie, il suono del cellulare mi fece sobbalzare. In un attimo lo recuperai dalla tasca dei pantaloni. “ Luca…dove sei?.” La voce roca di mio zio, vecchio fumatore di pipa, squarciò per un attimo, l’atmosfera irreale che si era appena creata nella stanza. “Zio…sono ancora al negozio.” Farfugliai cercando di darmi un tono normale. In sottofondo, il suono lontano di una sirena. Milano non dormiva mai. “Ancora?-esclamò contrariato- ma sono quasi le dieci! Senti, torna subito a casa. Tua madre se la prenderà con me perché ti sei trattenuto a lavorare fino ad ora in negozio e magari domani arrivi tardi all’università!” Mia madre, sua sorella, era in un perenne stato di agitazione nei miei confronti, figlio unico di un matrimonio felice. Preoccupata sempre per la mia salute, per la mia sicurezza, per i miei studi e per il mio futuro. Invece, fortunatamente, mio padre era tutto il contrario. Simbolo del relax e della tranquillità era in pace con il mondo e senza remore, lo dimostrava. Per lui, tutto sarebbe andata bene! Insomma una coppia perfettamente compensata. “Va bene, vado subito.” Chiusi la telefonata così, con molta delicatezza, come anche il piccolo libro che avevo in mano. Rimasi lì, pensieroso e indeciso sul da farsi. “Che faccio? Richiamo subito lo zio e gli racconto cosa ho trovato?” Mi chiesi, titubante. Eppure, insieme alla paura, ora si insinuava un leggero stato di eccitazione. “E quelle parole…seguite da quegli strani fenomeni- riflettevo velocemente- magari sono tutta suggestione!” Continuavo a rimuginare. “Però, per correttezza, dovresti informarlo del ritrovamento.” Sussurrò la vocina della mia coscienza. Mille pensieri si susseguivano nella mia mente, e continuavo a rimanere lì, immobile e indeciso. Certo portarmi a casa qualcosa che non apparteneva a me, e neanche a mio zio, mi sembrava poco onesto. Però volevo darci un’altra occhiata perché nel chiudere il libro, avevo intravisto altre pagine, dopo quella iniziale, vergate con altre date e frasi. E in fondo al volume, anche qualche disegno. “Domani, quando torno dalla facoltà, informerò subito lo zio del libro- decretai-e magari mi prenderà in giro quando gli racconterò quegli strani fenomeni accaduti mentre lo leggevo.” Decisi quindi di soprassedere e rimandare tutto a domani. Velocemente mi diressi verso l’uscita della stanza, dopo essermi tolto i guanti di lattice e aver indossato il giaccone. Spensi le luci e recuperai il mio zaino. Mi avviai verso l’uscita del negozio, ingombra di oggetti d’arte, pronti per essere consegnati. Chiusi il portone, inserii la combinazione dell’allarme. Nella tasca destra recuperai i guanti di lana e il cappello, nell’altra infilai il prezioso libro. Sentivo l’agitazione crescere mentre salivo al volo sul tram che mi avrebbe portato proprio davanti casa, in Corso Sempione. Intanto, mentre la città sfilava davanti ai miei occhi, osservavo distrattamente le macchine e le persone che, nonostante l’ora tarda, spumeggiavano per le strade. Assorto, ripensavo agli strani fenomeni accaduti, non facendo caso ai passeggeri dentro il tram, e a tutto ciò che mi circondava nell’abitacolo. Rivedevo la luce intermittente della lampada al neon sul soffitto. Sulle braccia, sotto la felpa, avvertivo ancora il gelo e quella strana percezione dell’aria, intorno a me, come una gelida nebbia asfissiante…ma, come sempre, il mio raziocinio mi riportò alla realtà. “Non sono fenomeni paranormali-mi ripetei mentalmente-e tutto può essere spiegato. I numeri e la matematica possono chiarire tutto e mi rifiuto di credere a qualsiasi altra cosa!” Ancora perso nelle mie convinzioni e sostenuto dal mio credo, la logica ragione, sobbalzai nell’accorgermi che ero appena giunto sotto casa. “Sì mamma, va bene mamma!” Ripetei a mia madre per l’ennesima volta, da dietro la porta della mia stanza. Appena arrivato a casa avevo consumato velocemente la cena riposta nel forno per me, mentre i miei genitori si stavano preparando per andare a dormire. Naturalmente mi affrettai a mangiare per rinchiudermi subito in camera mia e dare un’altra occhiata al libro ma mia madre mi aveva raggiunto per le solite raccomandazioni. In vestaglia azzurro cielo e crema da notte, ogni sera, mi propinava consigli e suggerimenti…in pratica sembrava un puffo davanti a Garganella. “Luca...domani a che ora hai lezione?” Chiese l’ansiosa della casa. Sospirai in silenzio perché quel rito si ripeteva tutte le sere. ”Alle otto mamma…come al solito.” Pausa di silenzio. Dietro la porta la sentivo agitarsi. “Mi dici la prima materia?” Alzai gli occhi al cielo. “Analisi...” nemmeno il tempo di concludere la frase che subito, incalzante, mi domandò: “E poi hai Statistica, vero?” Contai fino a cinque… “Sì mamma, domani è venerdì e ho sempre alle prime due ore, Analisi e dopo le altre due, Statistica.” Momento di silenzio. Poi l’ennesima domanda di cui mia madre conosceva già la risposta. “Vai in facoltà con Federico, vero?” Speravo che il supplizio terminasse presto. “Sì mamma, andiamo insieme in facoltà...poi a studiare in biblioteca. Tornerò nel pomeriggio…sul tardi.” Precisai con una punta di esasperazione. Sentii mia madre schiarirsi la voce, forse stava realizzando che erano quasi le undici e mezza di notte e forse ero stanco. Poi finalmente arrendendosi, concluse: “Va bene, mi raccomando però, domattina copriti bene e non dimenticarti i guanti e il cappello. Ah… e metti subito in carica il cellulare. Lo sai che mi agito se ti mando un WhatsApp e non mi rispondi.” Sorrisi clemente: “ Va bene mamma…Buonanotte.” Cercai di essere più gentile possibile. Il problema era che mia madre mi considerava sempre un bambino da proteggere e non ammetteva invece che ero cresciuto. Un ventenne con l’argento vivo addosso. Lei era una chioccia e io fremevo per l’indipendenza. La laurea in matematica mi avrebbe dato finalmente la possibilità di girare un po’ il mondo, fare esperienze e conoscere gente nuova. Il lavoretto nel negozio di restauro mio zio Tommaso mi stava dando la possibilità di mettere un po’ di soldi da parte per eventuali master all’estero. Lo stipendio di professore di mio padre ci consentiva a malapena di sopravvivere e so che i miei genitori stavano facendo i salti mortali per mantenermi all’università. Ma improvvisamente, la scoperta di quel libro mi aveva dato l’impressione che rappresentasse un’occasione… un’opportunità. Così, senza perdere tempo, infilai il pigiama e seduto sul letto lo recuperai dalla tasca del giubbotto. Prima di aprirlo, ispirai profondamente, scostando il ciuffo castano dei capelli dai miei occhi che, per pochi secondi, vagarono inquieti per la stanza. Sfiorai con lo sguardo la scrivania ingombra di libri, i pc, fisso e portatile, la libreria di ferro stracolma e i vari poster sulla parete. Albert Einstein mi fissava perplesso e i gruppi rock sembravano sfidarmi. “Dai…aprilo. Non succederà niente…”Pensai per farmi coraggio. Mi alzai di scatto dal letto. Il piccolo specchio appeso vicino all’armadio mi restituì l’immagine riflessa di uno spilungone alto e robusto ma che in quel momento era paralizzato dalla paura. Poi mi decisi. Delicatamente, con la mano sinistra, girai la prima pagina già letta nel negozio dello zio Tommaso e sfogliai la seconda. Poi la terza. Fortunatamente non accadde niente. Nessun fenomeno. Nessuna strana manifestazione. Mi concentrai allora su quei fogli così antichi che riportavano piccoli paragrafi sempre scritti a mano e sempre in latino. Poi le date e gli schizzi. Più avanti, alcuni disegni molto interessanti. Mi accorsi che si ripeteva spesso il ritratto di un giovane uomo. Certo l’inchiostro di quell’epoca rimandava l’immagine in bianco e nero ma Thomas Vidal, sicuramente autore di quei disegni, lo raffigurava con un occhio sempre più scuro dell’altro. Certamente quel ragazzo, nella vita, doveva avere il colore delle iridi diverse. “No-pensai improvvisamente fiacco -qui mi serve il traduttore online e il vocabolario di latino…e non posso iniziare questa notte a tradurre sti’ papiri!” Ero troppo stanco e serviva concentrazione per capire le misteriose frasi delle pagine che stavo fissando. “Domani-conclusi-domani, quando saremo in biblioteca mi ci metto.” Chiusi il libro, lo rimisi nel giubbotto. Nello zaino riposi invece il computer portatile e il vocabolario di latino, e mi fiondai sotto il piumone. Stranamente, nonostante tutti gli eventi della giornata, piombai in un sonno profondo. Le emozioni della giornata mi avevano stremato e mi parve che la sveglia suonasse solo dopo pochi minuti da quando mi ero coricato. Io e Federico eravamo nella biblioteca del campus già da parecchi minuti. Erano appena scoccate le due del pomeriggio e la mattinata era stata lunga e impegnativa. Quando il professore di Informatica assegnò i soliti dieci esercizi da svolgere a casa, io ero già praticamente fuso. Dopo un panino veloce al bar dell’università, con Federico ci recammo in biblioteca, accaparrandoci una postazione tranquilla. Mentre aspettavo di collegarmi alla rete con il mio computer portatile, Federico esordì con la solita protesta: “ Dieci esercizi di informatica, in più quelli di analisi e il resto. Della formula di Taylor non ricordo niente…” Poi la solita conclusione sconsolata: “Qui se non mi metto a studiare seriamente, col cavolo che supererò gli esami a febbraio. Mi toccherà passare vacanze di Natale sui libri…”. Dopo aver aperto il testo di Analisi, la materia più difficile, mi apostrofò: “Luca…ma mi stai a sentire?” Mi fissò torvo e aveva ragione. Avevo ascoltato distrattamente le sue proteste, ma ero tutto preso nel riporre sul tavolo un quaderno, la penna e il vocabolario. Serviva per tradurre le pagine del libro che avrei tirato fuori dalla tasca del giubbotto solo quando Federico si sarebbe impegnato a risolvere gli esercizi di Analisi. Curioso com’era, non mi avrebbe dato tregua nel sapere tutta la storia se solo si fosse accorto dell’attenzione che avrei riservato verso l’antico volume piuttosto che verso il libro universitario. Così mormorai distrattamente una scusa e mi immersi momentaneamente sulle benedette formule di matematica. Pochi minuti dopo, senza che se ne accorgesse, feci scivolare l’antico libro sulle ginocchia e iniziai a tradurre le varie note. Molte parole erano sbiadite. Alcune coperte da macchie o l’inchiostro era scolorito. Ma sembrava che la storia fosse scritta a ritroso. Come se la prima pagina rappresentasse l’ultimo evento poi Thomas Vidal ricordasse fatti ed eventi e li appuntasse su quelle fragili superfici che seguivano la prima, cercando di dare un certo ordine agli eventi accaduti. I contadini avevano notato la bizzarria del forestiero Era molto difficile decifrare e dare un senso a concetti così astrusi. Il cielo cambiava…luci e ombre all’improvviso mutavano… qui subentravano nel racconto altre persone. Lo straniero appariva bizzarroparlava di erbe…fiori…e non rispondeva alle domande. Così, mentre procedevo nella traduzione, avevo capito il senso di quelle antiche pagine. Thomas Vidal era una specie di giudice…un inquisitore. Improvvisamente realizzai cos’era quel libretto. Il processo di un uomo che veniva da un paese che non era la Francia. Uno straniero, appunto. Alcuni contadini lo avevano visto tante volte nei boschi, intento a raccogliere erbe e fiori. Così, per i suoi strani vestiti, il suo linguaggio e il misterioso modo di fare, lo avevano segnalato al tribunale della santa inquisizione. Poi le pagine si fanno oscure e misteriose. E mi sembra troppo assurdo il significato delle frasi che stavo traducendo… I soldati portarono dei contenitori che lo straniero nascondeva in un vecchio casaleMulti laminarum ardentium, qui dedit off lux sua…Rimasi di sasso…metallo che emanava luce. Sembrava la descrizione di un apparecchio elettronico. Lo straniero è stato arrestato…arnesi che parlano…Così, l’autore riferiva di oggetti che riconoscevo essere elettronici. Ma nel 1700 non esisteva niente di simile! Com’era possibile? Per vari minuti traducevo sempre le stesse frasi. Ma poi avevo dovuto ammettere che la traduzione di quelle parole era corretta. L’autore si soffermava nell’accurata descrizione, grossolana per un uomo del 1700, di apparecchiature, strumenti e meccanismi assolutamente incompatibili con quel secolo. In più, a riprova della mia folle ipotesi, alcuni disegni confermavano, senza dubbio, i miei sospetti. Ma era troppo assurdo ammettere cosa era accaduto! In un barlume di ottusa convinzione, mi attaccavo ancora alle mie convinzioni. In seguito, procedendo con la traduzione, le pagine raccontavano che Thomas Vidal doveva essersi ammalato e il suo incarico assegnato ad un altro inquisitore. Gli ultimi fogli narrano qualcosa di atroce. Di incredibile. Lo straniero era stato messo al rogo, insieme ai suoi misteriosi oggetti che il calore aveva fatto scoppiare. Thomas Vidal, malato e sofferente aveva assistito all’esecuzione. Abbiamo condannato un uomo innocuo…ammetteva, suo malgrado…Nessuno ha capito la patria dello straniero
…e io in quell’istante, mi sono arreso all’evidenza. Dopo più di trecento anni, solo io, rappresentante dell’umanità, ho realizzato cos’era davvero successo. Solo io ne sono testimone. Quell’uomo, probabilmente uno scienziato, era un alieno…un alieno lasciato sulla terra, con le sue attrezzature, per studiare le specie botaniche. E noi, miseri e ignoranti terrestri, preda di paure e superstizioni l’abbiamo ucciso in nome della nostra giustizia…e della nostra religione. Ma soprattutto perché andava contro le nostre convinzioni, contro il nostro credo. Quell’essere sarà certamente stato strano e inconsueto e noi uomini abbiamo paura di tutto ciò che è diverso. “Così- riflettei logicamente- alla luce di ciò che era accaduto ad uno di loro, gli alieni come potevano ritornare sul nostro pianeta?” Domanda più che legittima. Noi uomini avevamo dato prova del nostro animo spietato, della nostra cattiveria e crudeltà. Forse Thomas Vidal aveva preso coscienza del suo imperdonabile sbaglio. Forse aveva realizzato l’insensibilità e la disumanità del sistema. Richiusi il libro e lo nascosi nello zaino. Mi vergognavo profondamente dell’operato dei miei simili. A mio parere, l’umanità aveva fallito e sicuramente, se gli alieni fossero arrivati sulla terra oggi, ci saremmo comportati esattamente come nel 1700. Federico, nel frattempo aveva finito e appariva molto soddisfatto: “ Sono riuscito a terminare gli esercizi di analisi.” Chiuse il quaderno e mi chiese: “Mi sembri sconvolto…stai bene?” Ispirai profondamente. Cosa rispondere? “Certo che sono sconvolto!-pensai- sono a conoscenza di un segreto che non ha precedenti, con tanto di prove e non so cosa fare.” Con una forza che non sapevo di possedere, gli sorrisi: “ Non ho niente Fede…magari un po’ si stanchezza.” Come un bravo scolaretto, ma in uno stato di profonda confusione mentale e marcata tachicardia, presi il libro di statistica: “Allora, quali esercizi dobbiamo fare?” Chiesi, aggrappandomi al dovere e allo studio. Avevo bisogno di tempo per riflettere…e per pensare. Così, mentre procedevamo fra mode, mediane e medie, presi una decisione che, negli anni avvenire, non ho mai rimpianto. Un gesto assurdo, inspiegabile ma, a mio parere, logico. Razionale. Avrei rimesso al suo posto il libro. Nessuno, nemmeno lo zio Tommaso, avrebbe dovuto sapere. Solo io sarei stato a conoscenza di ciò che era successo. Era meglio se l’umanità avesse continuato a credere nella sua verità…nelle sue logiche. Condividere una vergogna simile non era produttivo. A questo punto meglio l’ignoranza. La prova eclatante che la terra non era degna di accogliere una razza superiore, sarebbe stato un fardello che avrei portato solo io. Meglio lasciare agli uomini l’illusione e la consolazione dei propri principi. Per ognuno di noi, come anche per me che avevo fatto della matematica la mia religione e reso cieco verso qualsiasi altra alternativa, le proprie convinzioni e il proprio credo possono rappresentare l’obbiettivo finale della nostra esistenza…o peggio ancora, l’unico motivo per giustificarla.

lunedì 4 gennaio 2021

I PIEDI NELLA PALUDE

Tanto tempo fa esisteva un regno molto povero. I sovrani avevano sperperato ogni bene dello stato e avevano prosciugato anche i risparmi dei cittadini, imponendo tasse di ogni tipo tasse. E tutti gli abitanti erano caduti nella miseria e nella disperazione. Non c’era più cibo e le case, poco alla volta, si stavano distruggendo. Gli animali erano serviti a sfamare la popolazione ma ora non c’era rimasto più nulla. Le pentole erano vuote….i focolari spenti…e tutte le persone non avevano più nemmeno la forza di lavorare. Sembrava anche che il sole e il cielo fossero offuscati dalla desolazione e dalla povertà. Così tutti i cittadini decisero di mandare in esilio i sovrani responsabili della carestia e lo sconforto in quel regno. Appena i sovrani partirono, i capi delle famiglie che un tempo erano state ricche, volevano andare al potere per governare, poiché in loro la fame di potere era uguale alla fame di cibo. Ma la situazione era così grave che per una volta, l’assemblea dei cittadini decise di mettere al comando di quel regno un vecchio saggio, che da anni viveva solo, in una caverna. Era stato l’unico che non si era candidato per il comando. L’unico che non si era presentato per essere eletto…l’unico che non voleva il potere. In un sprazzo di raziocinio, i cittadini capirono che quel vecchio eremita era il solo che poteva salvare il regno dalla distruzione totale. Così il vecchio eremita fu nominato re. La corona che portava era di ottone, poiché il precedente sovrano aveva venduto quella d’oro per comprarsi degli splendidi cavalli bianchi. L’indomani, all’alba, il vecchio eremita uscì dal castello andato in rovina, e con la zappa al collo, si recò nel campo più vicino e iniziò a zappare. I consiglieri e i dignitari appena lo videro, si misero le mani in testa! Il re che zappa la terra! Incredibile! Inaudito! Vergognoso! Il vecchio saggio, interrompendo per un attimo di zappare, disse loro: “ Invece di star lì, con le mani in mano, perché non mi aiutate a dissodare questo campo? L’inverno è vicino, e prima delle piogge, dobbiamo piantare il grano…se non facciamo tutti la nostra parte, moriremo tutti di fame.” Così consiglieri, dignitari, nobili e politici, tutti con le zappe in mano, iniziarono a preparare i campi per la semina. Il re, vecchio e stanco, guidava tutti in quel pesante lavoro, e anche se queste persone non avevano mai zappato in vita loro, seguirono l’esempio del sovrano. Se lui zappava, anche gli altri dovevano farlo. Dopo la semina, il vecchio eremita si recò al fiume e iniziò a pescare…così anche i nobili e i dignitari. I cittadini, a bocca aperta, videro i membri delle ex famiglie ricche del regno, pescare, pulire ed essiccare il pesce. Chiesero allora al re la spiegazione…e l’eremita rispose:” Se non facciamo tutti la nostra parte, moriremo tutti di fame.” Così anche i cittadini aiutarono nella pesca, e furono loro a portare il pesce nel regno vicino per poterlo vendere. Con il denaro ricavato, il re comprò tanto cotone e lo consegnò a tutte le famiglie del regno affinché lo filassero e così tutti i cittadini, nobili e non, iniziarono il lavoro. I figli di ogni famiglia, vedendo il padre e la madre che filavano il cotone, facendone stoffe colorate, chiesero loro il motivo….e ogni genitore disse al figlio:” Se non facciamo tutti la nostra parte, moriremo tutti di fame:” Così ogni ragazzo aiutò a confezionare abiti di tutti i tipi, decorandoli con la magnifica fantasia della gioventù. Gli abiti furono venduti, e poco alla volta, il regno uscì fuori dalla miseria e dalla fame. Tutti lavoravano…tutti contribuivano al benessere di tutti…gli alberghi, rinnovati, ospitarono di nuovo i turisti…i negozi ricominciarono a vendere e il denaro circolava liberamente. Ogni persona di quel regno era devoto al vecchio eremita, e tutti lo amavano e rispettavano. Nella sua vita da re non aveva voluto denaro per sé ma il benessere per la popolazione del regno che aveva dovuto salvare. Qualche anno dopo, per il vecchio eremita si avvicinò la fine, ma il saggio re non aveva paura. La morte non era un demone ma un angelo misericordioso. Tutti i cittadini vegliarono le sue ultime ore, dentro e fuori il castello. Le ultime parole del re furono per la popolazione…raccomandò loro di imparare da ciò che avevano dovuto affrontare. Le sue ultime parole furono: “ La fame e la miseria sono frutto dell’ingordigia dell’uomo. La sete di denaro e di potere è una palude profonda …ed è facile camminarci dentro….uscirne è impossibile.(
Racconto di Lucina Cuccio)