sabato 24 ottobre 2015

L'IDAGO RICONQUISTA IL PALAZZO

L’IDAGO RICONQUISTA IL PALAZZO La regina delle streghe era inferocita. Aveva saputo che l’Idago, re dei mondi magici della terra, era riuscito a scappare dalla caverna dove lei e i sovrani degli elfi l’avevano imprigionato. Ora stava arrivando per riprendersi il suo palazzo, splendido edificio di marmo rosa e oro bianco che brillava nel mezzo della foresta dei pini d’argento. “Quella vipera della moglie è riuscita a far cadere le sbarre di odio e rancore che bloccavano l’uscita della caverna-urlò la regina delle streghe, Fresabonda- e ora l’Idago sta arrivando qui. Cosa facciamo?” Con lo sguardo avido, la sovrana rimirò lo splendido salone da ballo. Una grande sala cinta da specchi e azzurre finestre che si affacciavano sui giardini del palazzo. Il pavimento dorato brillava bianco e fulgido, in contrasto con il soffitto affrescato da splendide figure di animali e fiori. La strega amava quella ricchezza e andava matta per l’oro e i brillanti che decoravano i fregi di ogni ambiente del palazzo. “Questa è la sua casa-obbiettò Torraiolo, uno dei sovrani degli elfi- è normale che la voglia riconquistare e tu sai benissimo che noi l’abbiamo imprigionato con l’inganno, per rubargli i regni e la sua dimora. Quindi l’unica cosa da fare è fuggire e rifugiarci al nord, sperando che non ci raggiunga.” “Mai-esclamò Fresabonda furiosa- non lascerò mai questo palazzo! Io dico invece di restare e combattere!” “Combattere?- chiese balbettando Torraiolo esterrefatto- Tu sei pazza! Nessuno dei nostri eserciti, uniti insieme, è in grado di sconfiggere l’Idago. Per non parlare dei suoi magici poteri. Sai bene che la morte lo protegge ed è in grado, con il solo sguardo, di far impazzire chiunque. La sua mente è troppo potente e la sua forza infinita!” La strega lo guardò con odio. Disprezzava la codardia dell’elfo. Gli altri re non avevano tanta paura, e Fresabonda avrebbe voluto litigare e convincere Torraiolo a combattere, ma il tempo era poco e bisognava decidere in fretta poiché la bestia stava arrivando. Così la maga si alzò dal trono dove un tempo sedeva l’Idago, e si diresse fuori dalla sala dove la stavano aspettando i comandanti in capo degli eserciti degli elfi e delle fattucchiere. In migliaia attendevano la loro decisione. Ad un certo punto si bloccò a pochi metri dalla porta. “Io dico invece di combattere! Esclamò decisa la regina delle streghe- e se tu hai paura, puoi anche ritirarti…! Però se vinciamo, il bottino lo dividiamo senza di te!” Torraiolo strinse le buffe labbra. Gli elfi erano strane creature, con le orecchie lunghe come asini, naso a punta e capelli verdi. Sembravano tanti bambini cresciuti, con quegli abiti di pelle e i mantelli color delle foglie. Entrambi erano avidi e assetati di potere e comandare i regni dell’Idago era il sogno di tutti i sovrani della terra. Torraiolo non voleva perdere ciò che aveva guadagnato con l’inganno e benché temesse l’animale e i suoi poteri, si sentì con le spalle al muro. Per niente al mondo avrebbe rinunciato alla sua parte di bottino. “E va bene-bofonchiò-riuniamo gli eserciti e lo attacchiamo. Ma ricordati quello che ti dico…L’Idago ci sconfiggerà! E sarà un miracolo che non ci ucciderà tutti!” Fresabonda raggiunse allora la porta dorata porta che accedeva alla sala attigua dove i vicecomandanti degli eserciti stavano aspettando gli ordini. Urlò loro di attaccare e combattere la bestia. Così in pochi secondi, grida di rabbia e incitamento percorsero le sale fino a fuori l’edificio e le armate, eccitate e rabbiose, guidarono contro l’Idago per sconfiggerlo. Gli eserciti delle streghe e degli elfi intercettarono la bestia vicino le foreste dei pini d’argento che circondavano il palazzo, ma l’impatto fra l’animale e i combattenti fu terribile. Veloce come la luce e forte come le montagne, l’Idago disperdette via, in pochi minuti, migliaia di elfi e streghe. Tentarono di trafiggergli la schiena e il petto con lance e frecce, ma abile e scattante, la magica creatura si sollevava in aria con le robuste ali rosse, per poi fiondarsi a picco contro i guerreggianti, spazzandoli via. Furono sconfitti in poco tempo e i superstiti delle armate si diedero alla fuga. L’Idago li lasciò scappare ma inseguì la regina Fresabonda poiché sapeva che lei era la vera artefice di quella battaglia. Il cuore della strega era assetato di ricchezza e smanioso di potere, e pur di non perdere ciò che aveva rubato, aveva convinto Torraiolo a scendere sul campo di battaglia. La regina si precipitò fuori dal palazzo, affannata e sudata, ma sentiva la bestia guadagnare terreno. Durante la battaglia si era nascosta nelle armerie dell’edificio, ma sapendo che tutti gli eserciti erano stati sconfitti, aveva deciso di darsi anche lei alla fuga. Ma l’Idago non voleva lasciarla andare e la raggiunse in pochi secondi, piombando su di lei. Il suo sangue colorò di rosso il verde del prato.

L'IDAGO RICONQUISTA IL PALAZZO

L’IDAGO RICONQUISTA IL PALAZZO La regina delle streghe era inferocita. Aveva saputo che l’Idago, re dei mondi magici della terra, era riuscito a scappare dalla caverna dove lei e i sovrani degli elfi l’avevano imprigionato. Ora stava arrivando per riprendersi il suo palazzo, splendido edificio di marmo rosa e oro bianco che brillava nel mezzo della foresta dei pini d’argento. “Quella vipera della moglie è riuscita a far cadere le sbarre di odio e rancore che bloccavano l’uscita della caverna-urlò la regina delle streghe, Fresabonda- e ora l’Idago sta arrivando qui. Cosa facciamo?” Con lo sguardo avido, la sovrana rimirò lo splendido salone da ballo. Una grande sala cinta da specchi e azzurre finestre che si affacciavano sui giardini del palazzo. Il pavimento dorato brillava bianco e fulgido, in contrasto con il soffitto affrescato da splendide figure di animali e fiori. La strega amava quella ricchezza e andava matta per l’oro e i brillanti che decoravano i fregi di ogni ambiente del palazzo. “Questa è la sua casa-obbiettò Torraiolo, uno dei sovrani degli elfi- è normale che la voglia riconquistare e tu sai benissimo che noi l’abbiamo imprigionato con l’inganno, per rubargli i regni e la sua dimora. Quindi l’unica cosa da fare è fuggire e rifugiarci al nord, sperando che non ci raggiunga.” “Mai-esclamò Fresabonda furiosa- non lascerò mai questo palazzo! Io dico invece di restare e combattere!” “Combattere?- chiese balbettando Torraiolo esterrefatto- Tu sei pazza! Nessuno dei nostri eserciti, uniti insieme, è in grado di sconfiggere l’Idago. Per non parlare dei suoi magici poteri. Sai bene che la morte lo protegge ed è in grado, con il solo sguardo, di far impazzire chiunque. La sua mente è troppo potente e la sua forza infinita!” La strega lo guardò con odio. Disprezzava la codardia dell’elfo. Gli altri re non avevano tanta paura, e Fresabonda avrebbe voluto litigare e convincere Torraiolo a combattere, ma il tempo era poco e bisognava decidere in fretta poiché la bestia stava arrivando. Così la maga si alzò dal trono dove un tempo sedeva l’Idago, e si diresse fuori dalla sala dove la stavano aspettando i comandanti in capo degli eserciti degli elfi e delle fattucchiere. In migliaia attendevano la loro decisione. Ad un certo punto si bloccò a pochi metri dalla porta. “Io dico invece di combattere! Esclamò decisa la regina delle streghe- e se tu hai paura, puoi anche ritirarti…! Però se vinciamo, il bottino lo dividiamo senza di te!” Torraiolo strinse le buffe labbra. Gli elfi erano strane creature, con le orecchie lunghe come asini, naso a punta e capelli verdi. Sembravano tanti bambini cresciuti, con quegli abiti di pelle e i mantelli color delle foglie. Entrambi erano avidi e assetati di potere e comandare i regni dell’Idago era il sogno di tutti i sovrani della terra. Torraiolo non voleva perdere ciò che aveva guadagnato con l’inganno e benché temesse l’animale e i suoi poteri, si sentì con le spalle al muro. Per niente al mondo avrebbe rinunciato alla sua parte di bottino. “E va bene-bofonchiò-riuniamo gli eserciti e lo attacchiamo. Ma ricordati quello che ti dico…L’Idago ci sconfiggerà! E sarà un miracolo che non ci ucciderà tutti!” Fresabonda raggiunse allora la porta dorata porta che accedeva alla sala attigua dove i vicecomandanti degli eserciti stavano aspettando gli ordini. Urlò loro di attaccare e combattere la bestia. Così in pochi secondi, grida di rabbia e incitamento percorsero le sale fino a fuori l’edificio e le armate, eccitate e rabbiose, guidarono contro l’Idago per sconfiggerlo. Gli eserciti delle streghe e degli elfi intercettarono la bestia vicino le foreste dei pini d’argento che circondavano il palazzo, ma l’impatto fra l’animale e i combattenti fu terribile. Veloce come la luce e forte come le montagne, l’Idago disperdette via, in pochi minuti, migliaia di elfi e streghe. Tentarono di trafiggergli la schiena e il petto con lance e frecce, ma abile e scattante, la magica creatura si sollevava in aria con le robuste ali rosse, per poi fiondarsi a picco contro i guerreggianti, spazzandoli via. Furono sconfitti in poco tempo e i superstiti delle armate si diedero alla fuga. L’Idago li lasciò scappare ma inseguì la regina Fresabonda poiché sapeva che lei era la vera artefice di quella battaglia. Il cuore della strega era assetato di ricchezza e smanioso di potere, e pur di non perdere ciò che aveva rubato, aveva convinto Torraiolo a scendere sul campo di battaglia. La regina si precipitò fuori dal palazzo, affannata e sudata, ma sentiva la bestia guadagnare terreno. Durante la battaglia si era nascosta nelle armerie dell’edificio, ma sapendo che tutti gli eserciti erano stati sconfitti, aveva deciso di darsi anche lei alla fuga. Ma l’Idago non voleva lasciarla andare e la raggiunse in pochi secondi, piombando su di lei. Il suo sangue colorò di rosso il verde del prato.

L'IDAGO RICONQUISTA IL PALAZZO (Racconto di Lucina Cuccio)

giovedì 22 ottobre 2015

NELLE MANI DELL'IDAGO

NELLE MANI DELL’IDAGO Fra le creature della foresta, l’Idago era una delle più terribili. Feroce e crudele come la morte, era riuscito ad arrivare al comando di tutti gli elfi, le streghe e i fantasmi della terra. Solo a nominare il suo nome, le foglie degli alberi cadevano e i laghi si prosciugavano. I fiumi si gelavano come investiti da una glaciale tormenta di neve. Ogni animale che incontrasse l’Idago rimaneva immobile, paralizzato dalla paura dei suoi occhi di ghiaccio, mentre coloro che si fermavano a guardarlo un solo istante di più, impazzivano e perdevano la memoria poiché lo sguardo del terribile essere stregava i sensi e comandava la volontà. Era un re senza castello ma con milioni di sudditi, vivi e morti. Nessun uomo era mai riuscito a vederlo da vivo. Solo i fantasmi potevano vederlo e ne erano terrificati. L’Idago era figlio di un imperatore puma e di un’aquila reale, allevato dal ghiaccio e dalla morte. Gli era stato insegnato ad non aver paura di niente, ad essere crudele e spietato. Dopo tre secoli dalla sua nascita, aveva sottomesso i sovrani degli elfi e la regina delle streghe, così lui stesso aveva assoggettato tutti i regni magici della terra. La morte gli aveva regalato il potere di comandare ogni spirito dell’aldilà che non avesse raggiunto la sua destinazione finale mentre il padre e la madre gli avevano trasmesso la crudele bellezza degli animali. L’Idago non aveva nome, e d'altronde non gli serviva poiché nessuno osava rivolgergli la parola. Imponente e muscoloso, volava basso e veloce, silenzioso come la neve. Aveva artigli più affilati di lame, denti aguzzi come coltelli ma piume morbide e setose, rosse come sangue. Su ogni parte del corpo, verde come le foreste, piccoli smeraldi splendenti. Le ali era grandi e forti e camminava leggero, ma era vigoroso come mille leoni e resistente come il ferro. Nessun essere vivente era in grado di ucciderlo, poiché il suo cuore era protetto dal ghiaccio e dalla morte. Così gli elfi erano piombati nella paura e le streghe si nascondevano nelle valli solitarie pur di non incontrarlo. La feroce creatura si nutriva di spine, uccelli e serpenti. Non conosceva la pietà e non aveva mai provato tenerezza o amore. Era solo come un monarca, ombroso e duro. Padrone per metà del mondo, sentiva però che qualcosa mancava al suo impero. Tutto il potere accumulato doveva tramandarlo ad un suo simile, ma lui era unico al mondo. Non esisteva altra creatura come lui. Così decise di catturare un essere vivente per farne la sua sposa e avere un figlio. Elfi e streghe non lo attiravano così cominciò a cercare una donna che fosse bella, di sangue nobile ma crudele come lui. Trovò tante fanciulle che incontravano i suoi gusti, di nobile lignaggio, figlie di re e imperatori, quando un giorno vide una bellissima ragazza che zappava la terra. Non era né nobile né crudele ma bella come un raggio di sole e sentendola parlare con le altre persone, buona come l’amore. Per la prima volta la terribile creatura si innamorò di un altro essere vivente. L’Idago era terrorizzato…perché mai si sentiva così strano? Nel petto, il suo cuore andava a fuoco, il respiro era affannoso e brividi di piacere percorrevano il suo corpo piumato. Dimenticò l’umile origine della fanciulla, figlia di un contadino, così la sera la rapì portandola nella sua caverna, fra le foreste della Russia. Da secoli viveva in quella caverna sconosciuta, ricoperta da pelli di animali e decorata da pietre preziose. La ragazza, poverina si ritrovò sola, nelle mani dell’Idago, senza sapere chi fosse e cosa volesse da lei. Il posto dove l’aveva portata era caldo per via dei fuochi accesi all’interno e reso luminoso dalle migliaia di rubini e diamanti che brillavano. Tremante chiese, stringendosi le braccia al petto: “Chi sei e perché mi hai portato qui?” L’Idago fiutò la sua paura ma decise di essere sincero. Cercava di non usare i suoi poteri per influenzarne la mente e la volontà. Desiderava che la fanciulla rimanesse lucida e cosciente di sé stessa, ma era totalmente soggiogato dalla bellezza della ragazza. Ciò che lui stava provando aveva zittito la crudeltà del suo cuore. Così con voce profonda le disse: “ Sono il padrone di tutti i regni sconosciuti della terra e comando gli elfi, le streghe e gli spiriti. Ho diritto di decidere la vita e la morte di chiunque e sono di nobile stirpe, ma ho bisogno di tramandare il mio potere e la mia ricchezza e poiché non ho un erede ho deciso di sposarti e avere un figlio da te. La tua bellezza mi ha fatto dimenticare che non sei di sangue blu e crudele come me. Ma appena ti ho vista ho stabilito che saresti stata la mia sposa.” La fanciulla sgranò gli occhi inorridita. Pensò: “ Sposare un animale, che benché molto bello, rimaneva una bestia? Terribile!” Non le importava se aveva poteri soprannaturali, ricchezze infinite, ed era un re. Non le importava neanche se era un bellissimo animale. Lei era un essere umano nelle mani di un pazzo. L’Idago quasi leggendole nella mente aggiunse: “Non devi aver paura di me, non ti farò del male e come mia moglie, avrai tutto ciò che desideri. Sarai rispettata, ma ciò che pretendo da te è la tua fedeltà. I miei sudditi non mi amano e non sono miei amici. Quindi non avrai contatti né con gli elfi né con le streghe poiché essi non aspettano altro che ribellarsi e spodestarmi dal potere. Vogliono le mie ricchezze e la mia reggenza.” La fanciulla si guardò allora intorno. Preziose pelli di animali fissate alle pareti e pietre preziose, ma quel posto rimaneva sempre una caverna. L’Idago sorrise ed aggiunse: “ E non preoccuparti per questa caverna. Non vivrai qui… farò al più presto costruire un palazzo dove potrai abitare ed esserne la regina. Non ti mancherà nulla, te lo prometto. Ciò che solo desidero è che tu rimanga accanto a me per il resto della tua vita…Ti chiedo troppo?” La fanciulla non rispose ma chinò la testa in segno di assenso. Aveva accettato le condizioni dell’animale. D'altronde non aveva alternative ma un profondo senso di rabbia e ingiustizia le invasero l’anima. Era un ultimatum e lei, in fondo, non aveva scelta. Così dopo pochi giorni L’Idago sposò la fanciulla, e pochi mesi dopo, la portò a vivere in un immenso palazzo di marmo rosa e oro bianco, costruito dagli elfi e dalle streghe e nascosto dai boschi. Era inaccessibile a qualsiasi essere umano. Oramai sposa del mostro, la fanciulla però era circondata da agi e ricchezze infinite. Il suo sposo la colmava di premure, le faceva mille regali, era gentile e affettuoso. Abiti sfarzosi, cibi sopraffini. Nulla le era negato e l’Idago stesso le raccontava storie bellissime ed avventure. Ma, nonostante tutto, essa continuava a covare nel cuore rancore e rabbia. Non gli aveva perdonato di essere stata strappata con la forza dalla sua famiglia, dalla sua terra e soprattutto essere stata costretta a sposarlo. Così si rivolse di nascosto ai sovrani degli elfi e alla regina delle streghe per far imprigionare l’Idago, e in cambio, farla fuggire. Lei avrebbe ceduto tutte le ricchezze, il palazzo e i regni del marito. Così la sera del tradimento, la fanciulla fece bere all’Idago, mescolato nel vino, una pozione che le streghe le avevano dato per farlo dormire profondamente. Appena addormentato, decine di elfi e streghe lo portarono nella sua vecchia caverna e bloccarono l’ingresso con sbarre magiche fatte di odio e ira. L’animale era schiavo di sé stesso ed infatti quando si svegliò dal sonno profondo, impazzì di rabbia, e nel veder allontanare la sposa che tornava alla sua casa, le gridò come un forsennato: “ Io ti amavo e non ti ho mai fatto niente di male! Ti ho dato tutto ciò che avevo e mi hai tradito. Mi hai fatto imprigionare dai miei nemici! Ti avevo donato il mio cuore e mi hai pugnalato alle spalle.” La ragazza si tappò le orecchie alle urla del marito. Le era costato averlo consegnato nelle mani dei suoi nemici, lo aveva fatto soprattutto per orgoglio e per vendicarsi di essere stata costretta a sposarlo contro la sua volontà, ma ora vederlo prigioniero, e il suo palazzo invaso da elfi e streghe che festeggiavano la vittoria, iniziò a dolerle il cuore. Ad ogni passo, punte di pentimento e pena le pungevano il cuore. Si sentiva in colpa e giorni dopo, appena arrivata a casa, si era già pentita di ciò che aveva fatto. Ma ormai non c’era più nulla da fare, e la famiglia la riaccolse con gioia. La fanciulla riprese la sua solita vita, fatta di lavoro, fatica e miseria. Ma qualche settimana dopo si accorse di essere incinta. Erano tanti giorni che aveva nausea e le girava la testa. Un tempo sarebbe impazzita di orrore e paura nel dare alla luce chissà quale mostro, ora invece ne era contenta poiché in tutti quei mesi non aveva fatto altro che pensare all’Idago, alla sua gentilezza, alle sue premure e ai mesi che insieme avevano trascorso nel loro palazzo. Incredibile a dirsi, la ragazza si era innamorata del marito. Pochi mesi dopo, di nascosto a tutti i suoi familiari che non si erano accorti della gravidanza, in una vecchia capanna del bosco, la fanciulla diede alla luce da sola il figlio dell’Idago. Non era un animale, non aveva ali, né artigli, ma era un bambino come gli altri. Aveva solo gli occhi uguali al padre, chiari come il ghiaccio. Ma era un bambino bellissimo, più bello di qualsiasi neonato mai visto ed era l’erede legittimo dei regni del marito. Fu in quel minuto, nell’attimo esatto in cui lo prese fra le braccia che la ragazza decise di tornare dall’Idago, liberarlo e fargli vedere il figlio che aveva sempre desiderato. Tornò nella casa dei suoi genitori con il bambino, raccontò loro tutta la storia, quindi li abbracciò e li salutò per l’ultima volta. Aveva deciso di tornare indietro, chiedere perdono al marito per il suo tradimento e dare una famiglia al bambino. Quel bimbo così amato e così bello aveva diritto a stare anche con il padre, vivere nel suo palazzo ed avere una vita serena e felice. Così, lasciata la casa dei genitori, con il bambino fra le braccia, camminò vari giorni, dirigendosi verso la caverna dell’Idago. Ogni tanto si fermava, puliva il figlio e gli dava il latte. Lo baciava e coccolava, fiera di aver dato alla luce un bambino così bello e perfetto. Il cammino era lungo, e molte volte la ragazza dovette nascondersi perché aveva visto arrivare qualche strega o un elfo. Aveva paura che le impedissero di liberare il marito. Quando arrivò davanti l’ingresso della caverna, l’Idago la aspettava davanti alle sbarre poiché aveva fiutato già il suo arrivo. Era ritto, tetro e ombroso, lo guardo duro come il granito. La fanciulla nascondeva il bimbo alla vista del padre. Giunta davanti lui, con un nodo in gola, mormorò pentita, timide scuse: “ Perdonami- gli disse contrita- per tutto ciò che ho fatto. Ho voluto soddisfare la mia sete di vendetta, ma ho capito che stavo sbagliando subito dopo essere andata via…” L’Idago taceva. La ragazza gli si inginocchiò davanti, piangendo. “ Scusami-implorava- io ti amo…ora ti amo. Ho impiegato un po’ di tempo a capirlo, ma ti giuro che è vero!” Silenzio fra i due. Allora la fanciulla scostò la coperta nella quale teneva nascosto il neonato e aggiunse:” Questo è tuo figlio…quel figlio che hai sempre desiderato e che ti appartiene. Nella vene scorre il tuo nobile sangue ed è il tuo legittimo erede.” Il bimbo aprì gli occhi e si specchiò negli stessi occhi del padre. La rabbia e il rancore dell’Idago si sciolsero immediatamente alla vista del bimbo e lo riconobbe subito come suo. Aveva i suoi stessi occhi e il medesimo odore. Sorrise alla moglie e in quell’istante le sbarre di ira e rabbia che lo tenevano prigioniero caddero a terra. L’amore e il perdono avevano liberato l’Idago che abbracciò la sua famiglia. Mille spiegazioni, mille parole e marito moglie, per la prima volta, gioirono uniti nell’abbracciare il bambino. Il crudele cuore del re era stato conquistato dall’amore e dall’ indulgenza. Qualsiasi barriera al mondo può essere superata dal cuore. L’Idago nascosta la moglie e il figlio nella caverna, velocemente si diresse al suo palazzo e facilmente si liberò degli elfi e delle streghe. Poche battaglie e i suoi nemici erano in fuga e sconfitti. Pochi giorni dopo la fanciulla con il marito e il figlio, tornarono a vivere nel palazzo di marmo e oro bianco, e si amarono per il resto della vita. Nel cuore dell’Idago finalmente albergarono la pace e l’amore. La crudeltà e la morte erano state sconfitte, e la fanciulla fu felice di affidare la sua anima e la sua vita nelle mani del marito e anche di dargli un nome. Il nome dell’Idago fu Lyubov, che in russo significa amore. Il bambino, principe dei regni della magia, crebbe in grazia e bellezza. Guidato dall’amore della madre e dalla forza del padre, divenne un re giusto e stabilì patti di pace con gli elfi, le streghe e i fantasmi. Non usò la cattiveria e la crudeltà per comandare, ma la giustizia e la bontà.

venerdì 16 ottobre 2015

NELLE MANI DELL'IDAGO (RACCONTO)

NELLE MANI DELL’IDAGO Fra le creature della foresta, l’Idago era una delle più terribili. Feroce e crudele come la morte, era riuscito ad arrivare al comando di tutti gli elfi, le streghe e i fantasmi della terra. Solo a nominare il suo nome, le foglie degli alberi cadevano e i laghi si prosciugavano. I fiumi si gelavano come investiti da una glaciale tormenta di neve. Ogni animale che incontrasse l’Idago rimaneva immobile, paralizzato dalla paura dei suoi occhi di ghiaccio, mentre coloro che si fermavano a guardarlo un solo istante di più, impazzivano e perdevano la memoria poiché lo sguardo del terribile essere stregava i sensi e comandava la volontà. Era un re senza castello ma con milioni di sudditi, vivi e morti. Nessun uomo era mai riuscito a vederlo da vivo. Solo i fantasmi potevano vederlo e ne erano terrificati. L’Idago era figlio di un imperatore puma e di un’aquila reale, allevato dal ghiaccio e dalla morte. Gli era stato insegnato ad non aver paura di niente, ad essere crudele e spietato. Dopo tre secoli dalla sua nascita, aveva sottomesso i sovrani degli elfi e la regina delle streghe, così lui stesso aveva assoggettato tutti i regni magici della terra. La morte gli aveva regalato il potere di comandare ogni spirito dell’aldilà che non avesse raggiunto la sua destinazione finale mentre il padre e la madre gli avevano trasmesso la crudele bellezza degli animali. L’Idago non aveva nome, e d'altronde non gli serviva poiché nessuno osava rivolgergli la parola. Imponente e muscoloso, volava basso e veloce, silenzioso come la neve. Aveva artigli più affilati di lame, denti aguzzi come coltelli ma piume morbide e setose, rosse come sangue. Su ogni parte del corpo, verde come le foreste, piccoli smeraldi splendenti. Le ali era grandi e forti e camminava leggero, ma era vigoroso come mille leoni e resistente come il ferro. Nessun essere vivente era in grado di ucciderlo, poiché il suo cuore era protetto dal ghiaccio e dalla morte. Così gli elfi erano piombati nella paura e le streghe si nascondevano nelle valli solitarie pur di non incontrarlo. La feroce creatura si nutriva di spine, uccelli e serpenti. Non conosceva la pietà e non aveva mai provato tenerezza o amore. Era solo come un monarca, ombroso e duro. Padrone per metà del mondo, sentiva però che qualcosa mancava al suo impero. Tutto il potere accumulato doveva tramandarlo ad un suo simile, ma lui era unico al mondo. Non esisteva altra creatura come lui. Così decise di catturare un essere vivente per farne la sua sposa e avere un figlio. Elfi e streghe non lo attiravano così cominciò a cercarne una donna che fosse bella, di sangue nobile ma crudele come lui. Trovò tante fanciulle che incontravano i suoi gusti, di nobile lignaggio, figlie di re e imperatori, quando un giorno vide una bellissima ragazza che zappava la terra. Non era né nobile né crudele ma bella come un raggio di sole e sentendola parlare con le altre persone, buona come l’amore. Per la prima volta la terribile creatura si innamorò di un altro essere vivente. L’Idago era terrorizzato…perché mai si sentiva così strano? Nel petto, il suo cuore andava a fuoco, il respiro era affannoso e brividi di piacere percorrevano il suo corpo piumato. Dimenticò l’umile origine della fanciulla, figlia di un contadino, così la sera la rapì portandola nella sua caverna, fra le foreste della Russia. Da secoli viveva in quella caverna sconosciuta, ricoperta da pelli di animali e decorata da pietre preziose. La ragazza, poverina si ritrovò sola, nelle mani dell’Idago, senza sapere chi fosse e cosa volesse da lei. Il posto dove l’aveva portata era caldo per via dei fuochi accesi all’interno e reso luminoso dalle migliaia di rubini e diamanti che brillavano. Tremante chiese, stringendosi le braccia al petto: “Chi sei e perché mi hai portato qui?” L’Idago fiutò la sua paura ma decise di essere sincero. Cercava di non usare i suoi poteri per influenzarne la mente e la volontà. Desiderava che la fanciulla rimanesse lucida e cosciente di sé stessa, ma era totalmente soggiogato dalla bellezza della ragazza. Ciò che lui stava provando aveva zittito la crudeltà del suo cuore. Così con voce profonda le disse: “ Sono il padrone di tutti i regni sconosciuti della terra e comando gli elfi, le streghe e gli spiriti. Ho diritto di decidere la vita e la morte di chiunque e sono di nobile stirpe, ma ho bisogno di tramandare il mio potere e la mia ricchezza e poiché non ho un erede ho deciso di sposarti e avere un figlio da te. La tua bellezza mi ha fatto dimenticare che non sei di sangue blu e crudele come me. Ma appena ti ho vista ho stabilito che saresti stata la mia sposa.” La fanciulla sgranò gli occhi inorridita. Pensò: “ Sposare un animale, che benché molto bello, rimaneva una bestia? Terribile!” Non le importava se aveva poteri soprannaturali, ricchezze infinite, ed era un re. Non le importava neanche se era un bellissimo animale. Lei era un essere umano nelle mani di un pazzo. L’Idago quasi leggendole nella mente aggiunse: “Non devi aver paura di me, non ti farò del male e come mia moglie, avrai tutto ciò che desideri. Sarai rispettata, ma ciò che pretendo da te è la tua fedeltà. I miei sudditi non mi amano e non sono miei amici. Quindi non avrai contatti né con gli elfi né con le streghe poiché essi non aspettano altro che ribellarsi e spodestarmi dal potere. Vogliono le mie ricchezze e la mia reggenza.” La fanciulla si guardò allora intorno. Preziose pelli di animali fissate alle pareti e pietre preziose, ma quel posto rimaneva sempre una caverna. L’Idago sorrise ed aggiunse: “ E non preoccuparti per questa caverna. Non vivrai qui… farò al più presto costruire un palazzo dove potrai abitare ed esserne la regina. Non ti mancherà nulla, te lo prometto. Ciò che solo desidero è che tu rimanga accanto a me per il resto della tua vita…Ti chiedo troppo?” La fanciulla non rispose ma chinò la testa in segno di assenso. Aveva accettato le condizioni dell’animale. D'altronde non aveva alternative ma un profondo senso di rabbia e ingiustizia le invasero l’anima. Era un ultimatum e lei, in fondo, non aveva scelta. Così dopo pochi giorni L’Idago sposò la fanciulla, e pochi mesi dopo, la portò a vivere in un immenso palazzo di marmo rosa e oro bianco, costruito dagli elfi e dalle streghe e nascosto dai boschi. Era inaccessibile a qualsiasi esseri umano. Oramai sposa del mostro, la fanciulla però era circondata da agi e ricchezze infinite. Il suo sposo la colmava di premure, le faceva mille regali, era gentile e affettuoso. Abiti sfarzosi, cibi sopraffini. Nulla le era negato e l’Idago stesso le raccontava storie bellissime ed avventure. Ma, nonostante tutto, essa continuava a covare nel cuore rancore e rabbia. Non gli aveva perdonato di essere stata strappata con la forza dalla sua famiglia, dalla sua terra e soprattutto essere stata costretta a sposarlo. Così si rivolse di nascosto ai sovrani degli elfi e alla regina delle streghe per far imprigionare l’Idalgo, e in cambio, farla fuggire. Lei avrebbe ceduto tutte le ricchezze, il palazzo e i regni del marito. Così la sera del tradimento, la fanciulla fece bere all’Idago, mescolato nel vino, una pozione che le streghe le avevano dato per farlo dormire profondamente. Appena addormentato, decine di elfi e streghe lo portarono nella sua vecchia caverna e bloccarono l’ingresso con sbarre magiche fatte di odio e ira. L’animale era schiavo di sé stesso ed infatti quando si svegliò dal sonno profondo, impazzì di rabbia, e nel veder allontanare la sposa che tornava alla sua casa, le gridò come un forsennato: “ Io ti amavo e non ti ho mai fatto niente di male! Ti ho dato tutto ciò che avevo e mi hai tradito. Mi hai fatto imprigionare dai miei nemici! Ti avevo donato il mio cuore e mi hai pugnalato alle spalle.” La ragazza si tappò le orecchie alle urla del marito. Le era costato averlo consegnato nelle mani dei suoi nemici, lo aveva fatto soprattutto per orgoglio e per vendicarsi di essere stata costretta a sposarlo contro la sua volontà, ma ora vederlo prigioniero, e il suo palazzo invaso da elfi e streghe che festeggiavano la vittoria, iniziò a dolerle il cuore. Ad ogni passo, punte di pentimento e pena le pungevano il cuore. Si sentiva in colpa e giorni dopo, appena arrivata a casa, si era già pentita di ciò che aveva fatto. Ma ormai non c’era più nulla da fare, e la famiglia la riaccolse con gioia. La fanciulla riprese la sua solita vita, fatta di lavoro, fatica e miseria. Ma qualche settimana dopo si accorse di essere incinta. Erano tanti giorni che aveva nausea e le girava la testa. Un tempo sarebbe impazzita di orrore e paura nel dare alla luce chissà quale mostro, ora invece ne era contenta poiché in tutti quei mesi non aveva fatto altro che pensare all’Idago, alla sua gentilezza, alle sue premure e ai mesi che insieme avevano trascorso nel loro palazzo. Incredibile a dirsi, la ragazza si era innamorata del marito. Pochi mesi dopo, di nascosto a tutti i suoi familiari che non si erano accorti della gravidanza, in una vecchia capanna del bosco, la fanciulla diede alla luce da sola il figlio dell’Idalgo. Non era un animale, non aveva ali, né artigli, ma era un bambino come gli altri. Aveva solo gli occhi uguali al padre, chiari come il ghiaccio. Ma era un bambino bellissimo, più bello di qualsiasi neonato mai visto ed era l’erede legittimo dei regni del marito. Fu in quel minuto, nell’attimo esatto in cui lo prese fra le braccia che la ragazza decise di tornare dall’Idago, liberarlo e fargli vedere il figlio che aveva sempre desiderato. Tornò nella casa dei suoi genitori con il bambino, raccontò loro tutta la storia, quindi li abbracciò e li salutò per l’ultima volta. Aveva deciso di tornare indietro, chiedere perdono al marito per il suo tradimento e dare una famiglia al bambino. Quel bimbo così amato e così bello aveva diritto a stare anche con il padre, vivere nel suo palazzo ed avere una vita serene e felice. Così, lasciata la casa dei genitori, con il bambino fra le braccia, camminò vari giorni, dirigendosi verso la caverna dell’Idago. Ogni tanto si fermava, puliva il figlio e gli dava il latte. Lo baciava e coccolava, fiera di aver dato alla luce un bambino così bello e perfetto. Il cammino era lungo, e molte volte la ragazza dovette nascondersi perché aveva visto arrivare qualche strega o un elfo. Aveva paura che le impedissero di liberare il marito. Quando arrivò davanti l’ingresso della caverna, l’Idago la aspettava davanti alle sbarre poiché aveva fiutato già il suo arrivo. Era ritto, tetro e ombroso, lo guardo duro come il granito. La fanciulla nascondeva il bimbo alla vista del padre . Giunta davanti lui, con un nodo in gola, mormorò pentita, timide scuse: “ Perdonami- gli disse contrita- per tutto ciò che ho fatto. Ho voluto soddisfare la mia sete di vendetta, ma ho capito che stavo sbagliando subito dopo essere andata via…” L’Idago taceva. La ragazza gli si inginocchiò davanti, piangendo. “ Scusami-implorava- io ti amo…ora ti amo. Ho impiegato un po’ di tempo a capirlo, ma ti giuro che è vero!” Silenzio fra i due. Allora la fanciulla scostò la coperta nella quale teneva nascosto il neonato e aggiunse:” Questo è tuo figlio…quel figlio che hai sempre desiderato e che ti appartiene. Nella vene scorre il tuo nobile sangue ed è il tuo legittimo erede.” Il bimbo aprì gli occhi e si specchiò negli stessi occhi del padre. La rabbia e il rancore dell’Idago si sciolsero immediatamente alla vista del bimbo e lo riconobbe subito come suo. Aveva i suoi stessi occhi e il medesimo odore. Sorrise alla moglie e in quell’istante le sbarre di ira e rabbia che lo tenevano prigioniero caddero a terra. L’amore e il perdono avevano liberato l’Idago che abbracciò la sua famiglia. Mille spiegazioni, mille parole e marito moglie, per la prima volta, gioirono uniti nell’abbracciare il bambino. Il crudele cuore del re era stato conquistato dall’amore e dall’ indulgenza. Qualsiasi barriera al mondo può essere superata dal cuore. L’Idago nascosta la moglie e il figlio nella caverna, velocemente si diresse al suo palazzo e facilmente si liberò degli elfi e delle streghe. Poche battaglie e i suoi nemici erano in fuga e sconfitti. Pochi giorni dopo la fanciulla con il marito e il figlio, tornarono a vivere nel palazzo di marmo e oro bianco, e si amarono per il resto della vita. Nel cuore dell’Idago finalmente albergarono la pace e l’amore. La crudeltà e la morte erano state sconfitte, e la fanciulla fu felice di affidare la sua anima e la sua vita nelle mani del marito e anche di dargli un nome. Il nome dell’Idago fu Lyubov, che in russo significa amore. Il bambino, principe dei regni della magia, crebbe in grazia e bellezza. Guidato dall’amore della madre e dalla forza del padre, divenne un re giusto e stabilì patti di pace con gli elfi, le streghe e i fantasmi. Non usò la cattiveria e la crudeltà per comandare, ma la giustizia e la bontà.

giovedì 15 ottobre 2015

Il FANTASMA SENZ’ANIMA La fulgida bellezza di Edoardo era stata incenerita dalla peste che nel 1630 era scoppiata a Milano. L’epidemia non aveva risparmiato nemmeno la nobile famiglia del giovane ed uno ad uno, tutti i familiari, straziati e torturati erano morti fra mille sofferenze. Edoardo aveva lasciato questa vita per ultimo, dopo aver seppellito i suoi cari e soprattutto l’amato fratello. Per settimane, notte e giorno, aveva pregato che la terribile malattia risparmiasse i suoi cari ma le sue invocazioni erano rimaste vane e così quando l’ora della morte era arrivata anche per lui, Edoardo era pieno di odio per la vita, per il destino, per tutto l’universo. La sua anima tracimava di rancore liquido e miseria d’amore. Vent’anni erano sufficienti per spirare gridando contro la vita e l’universo? Sembrerebbe di sì e così Edoardo, livido di violenza, era diventato un fantasma, schiavo del suo rancore e del suo astio. Aveva mantenuto la bellezza della mortalità…anzi, nell’oltretomba era diventato ancora più bello…nemmeno il sole o la luna era così splendenti, ma rimaneva prigioniero di un mondo freddo, silenzioso e solitario. La condanna che gli era stata inflitta erano stati infatti mille anni di solitudine. Il suo fantasma aveva accesso al mondo dei viventi, ma non poteva essere visto da nessuno, non poteva parlare con le persone e non poteva toccare niente. Nemmeno con gli altri fantasmi come lui poteva comunicare ma poteva tentare di influenzare solo i pensieri degli esseri viventi poiché i fantasmi sono fatti di elettricità e quindi possono condizionare la trasmissione elettrica dei neuroni. Ma Edoardo era completamente solo e così dal giorno della sua morte, aveva vagato per le città, per le valli, cattivo e perfido, influenzando e portando alla violenza qualsiasi essere vivete incontrasse. Non gli importava più nulla di ciò che faceva e magari delle conseguenze. Cosa importava se invece di mille anni, la sua condanna sarebbe stata allungata a diecimila anni? Edoardo non aveva più cuore né anima. La cattiveria era la sua vendetta. La vita gli aveva tolto tutto, anche il caro fratello amato più di chiunque altro e più giovane di lui di dieci anni. Così per secoli questo fantasma si era vendicato sugli esseri viventi. Se c’era una violente lite, se c’era una guerra o un incidente, sicuramente Edoardo era vicino. Ma dopo tre secoli, questo terribile fantasma aveva cominciato ad annoiarsi. Aveva visto ogni città del mondo, ogni paese e conosciuto ad uno ad uno ogni abitante della terra. Per Edoardo non esisteva notte né giorno ma un lungo e infinito secondo nel quale si muoveva alla velocità della luce, raggiungendo qualsiasi luogo del pianeta. Ogni tanto il riflesso del sole illuminava la sua bellezza, luminosa e splendente e si chiedeva perché la vita gli era stata tolta così presto. Non si era potuto sposare, né avere figli. Non aveva potuto godere della sua famiglia e la ricchezza della nobiltà non aveva salvato i suoi cari. Gli mancava un figlio, al quale potere dare il nome di suo padre e tramandare il nobile casato. Gli mancava la dolcezza di una moglie, ma ora era troppo tardi. Finita la sua condanna cosa ne sarebbe stato di lui? Un fantasma che nell’aldilà aveva commesso solo cattiverie, a cosa era destinato? Probabilmente a rimanere ancora incastrato nel silenzio e nel ghiaccio della sua condanna. Nessuno avrebbe avuto pietà per la sua anima poiché il suo cuore da troppo tempo si era dato all’odio e alla cattiveria. Così mentre vagava all’alba, nei boschi delle Alpi, vide un cacciatore che si era infortunato. Era a terra, dolorante, mentre con un telefono chiamava aiuto. Ma Improvvisamente dai boschi un terribile orso fiutò il suo sangue e pericolosamente si avvicinò al malcapitato. Edoardo comprese subito il pericolo e per la prima volta in trecento anni, fece una buona azione. Si intrufolò nei pensieri dell’animale e riuscì a distrarlo e ad allontanarlo dal cacciatore. Pochi minuti dopo l’infortunato era stato soccorso e portato in ospedale da alcuni amici. Edoardo lo seguì, chiedendosi perché lo aveva salvato. Cosa mai gli stava accadendo? Non era la cattiveria l’unico cibo della sua anima. Cosa gli importava di fare una buna azione? Perso nei suoi pensieri, non si accorse che nella stanza dell’ospedale dove il cacciatore era stato ricoverato, entrarono la moglie e i figli. Un bambino di dieci anni e una ragazza. Edoardo aveva visto molte donne, ma nessuna era bella come quella. Faceva quasi male guardarla, come quei capelli castani come la corteccia degli alberi e gli occhi color dei boschi estivi. E il fratello lo traumatizzò ancora di più. Simile per tanti aspetti al suo povero fratello scomparso. Edoardo li vide affettuosi e solerti accanto al padre e la vista di quella bellissima famiglia lo fece sentire ancora più solo e disperato. Anche lui voleva una famiglia simile, con l’amore di una donna e il dolce tepore del sorriso dei figli….invece la sua esistenza terrena era stata breve e superficiale e la sua morte, cruda, dolorosa e cattiva. Così per la prima volta, da quando aveva lasciato questa terra, pregò. Pregò il cielo di avere pietà della sua anima….chiese perdono dei suoi sbagli…quelli terreni ma soprattutto quelli commessi nell’aldilà…chiese perdono per la sua cattiveria che gli aveva tolto l’anima e il cuore e chiese anche l’impossibile: Tornare in vita e avere una famiglia…voleva essere amato come quel cacciatore e poter stringere fra le braccia quella bellissima ragazza. Edoardo non sapeva nemmeno se cielo l’avrebbe ascoltato…ora che aveva visto quale gioia e felicità dona l’amore di una famiglia, anche lui voleva provare quelle emozioni e così continuò ad invocare il cielo con preghiere e suppliche. Non si allontanò più da quella bellissima fanciulla e quando il cacciatore fu dimesso, il suo spirito li seguì nella loro casa e non li lasciò più. Passarono i giorni, poi le settimane e il fantasma Edoardo, pazzo d’amore per quella fanciulla, continuava a rimanerle accanto, continuava a pregare il cielo che lo perdonasse e per una volta infrangesse le regole e cioè farlo tornare in vita per poterla sposare. Ogni sua parola era rivolta al cielo, ma per quanto lo invocasse, nulla della sua condizione era cambiata. L’infinito non lo perdonò e così passarono gli anni e Il povero fantasma vide la sua amata ragazza innamorarsi di un altro ragazzo, frequentarlo e dopo pochi mesi, sposarlo. Edoardo le rimase vicino durante la cerimonia nuziale...e non la lasciò nemmeno quando partì per il viaggio di nozze. Era presente alla nascita dei suoi figli…era vicino a lei durante tutto giorno, quando andava al lavoro, quando cucinava, quando usciva con le amiche. E nelle lunghe serate d’inverno, Edoardo le stava vicino e anche se lei non lo poteva sentire, le parlava dolcemente, mentre il fuoco del camino scoppiettava. E così lentamente gli anni passarono e il fantasma rimase vicino alla sua amata fino alla fine, convinto che almeno nell’aldilà lei l’avrebbe raggiunto come fantasma. Ma La sua amata morì delicatamente, con un sorriso sulle labbra, circondata dai suoi figli e nipoti e da suo marito, ormai anziano. Ma Edoardo non fu raggiunto dal fantasma della ragazza poiché la sua anima era destinata ad un altro luogo, pieno di luce e di felicità e non alla prigione nella quale Edoardo era rimasto fin dalla sua morte. Il povero Fantasma rimase ancora più solo e triste, e si abbandonò alla disperazione. A nulla erano valse le sue preghiere. Gli era stato negato l’amore poiché il suo debito non era stato ancora pagato e le regole del cielo non potevano essere cambiate. Così Edoardo riprese a vagare per la terra, sperando che la giustizia divina non gli allungasse la pena e aspettando di poter essere libero e di poter provare anche lui un po’ di quell’amore che ogni essere vivente, vivo o morto, spera di avere.

domenica 4 ottobre 2015

RACCONTO: IL TEMPO NELLA BOTTIGLIA di LUCINA CUCCIO

IL TEMPO NELLA BOTTIGLIA Il pirata Quattrossa remò faticosamente fino al faraglione. Aveva dato ordini di attraccare il galeone dietro l’Isola dei Venti, lasciando di guardia il suo fido Piedebucato, mozzo e amico da ben dieci anni. Gli aveva intimato che l’equipaggio non poteva per nessun motivo lasciare la nave e che massimo al calar del sole, lui sarebbe rientrato a bordo. Il faraglione ricordava un’ informe pagnotta di pane, così Quattrossa dopo aver trascinato la vecchia barca dentro un’insenatura lunga e stretta, percorse zoppicando una stradina scavata dalle onde. Alghe secche e tronchi avvizziti intralciavano il passo, quando finalmente il vecchio pirata si trovò davanti uno spazio fra gli scogli. Nella tasca trasportava il prezioso tesoro che durante il cammino tenne accostato a sé con la mano per paura di romperlo. La fessura continuava in un budello umido e oscuro che Quattrossa scese lentamente, illuminato dalla torcia che tremolava timida. Pochi metri e si ritrovò in un’ambiente non più grande di una stanza. La torcia si stava spegnendo quietamente così il pirata tirò fuori dalla tasca il suo tesoro. Era una boccia di vetro, verde e panciuta che per qualche minuto il pirata osservò ruotandola con la mano e la nebbia arancione che vi era chiusa dentro si mosse vorticando piano. Avvicinò poi piano piano il piccolo fiasco al viso rugoso e con lentezza le diede un bacio, quindi adagiò a terra la bottiglia coprendola con una pezza bianca che si era portato dietro. Si rimise in piedi e ritornò sui suoi passi. Meno di un’ora dopo il vecchio pirata era già sul ponte della sua nave ordinando di tirare l’ancora e issare le vele. Voleva lasciare al più presto l’Isola dei Venti. “Comandante- esordì il vecchio amico Piedebucato- dove diavolo hai trascinato le tue vecchie ossa? Sei sparito dietro il faraglione e non ti abbiamo più visto. “ “Per mille sputi di vipera!-Sbraitò allora Quattrossa, rivolto alla ciurma- più forza con quelle funi! Il vento sta calando!” Poi si girò verso l’amico con gli occhi fuori dalle orbite: ”Ho la suocera in casa per dirle dove trascino la mia carcassa?” “No ma…” tentò di scusarsi Piedebucato. “Affari miei” ringhiò il bucaniere voltandogli le spalle ingobbite. Scese un gelo infinito fra i due uomini coperto dal frastuono di corde e urla dell’equipaggio. L’indomani navigavano veloci sulla rotta dei mercantili provenienti dall’Inghilterra quando avvistarono una nave della corona inglese e decisero di abbordarla. Purtroppo l’abbordaggio andò male, e i pirati furono sconfitti dopo una breve ma terribile battaglia. La nave inglese era piena di cannoni e un equipaggio numeroso e ben addestrato, così molti dei filibustieri si buttarono in mare per evitare di essere presi prigionieri ma Quattrossa e Piedebucato rimasero sul galeone fino alla fine e con pochi altri della ciurma furono trascinati e messi ai ferri nella nave della corona. “Finalmente ti abbiamo acciuffato” esclamò il comandante dell’ammiraglia. Silenzio. Il pirata taceva. “Ora tu mi sveli tutti i tesori che hai e soprattutto dove sono nascosti.” Continuò il militare avvicinando la spada al collo di Quattrossa. Il corsaro non si mosse nemmeno quando la lama gli tagliò leggermente la pelle e iniziò a sanguinare. “Va bene, come vuoi-si interruppe il comandante- allora vediamo se questo ti scioglierà la lingua.” Un rumore terribile, secco e sordo seguito da un urlo disumano fece sobbalzare il vecchio pirata. Un dito della mano di Piedebucato era stato tagliato di netto con un colpo di spada dal comandante. Quattrossa divenne pallido, quasi esangue alla vista del dolore dell’amato compagno di viaggi e avventure e ai mugolii della sua sofferenza. Dopo aver ingoiato lacrime e sudore sibilò: ”Il mio tesoro più grande si trova nell’Isola dei Venti, dentro una piccola grotta del faraglione nord. E’ dentro una bottiglia, nascosto da uno straccio.” Il comandante della nave, ironico e cattivo gli chiese: “Dentro una bottiglia?” Scoppiò in una fragorosa risata, poi continuò: E che tipo di tesoro è? Polvere di diamanti? oro liquido?” Quattrossa ringhiò feroce: “ C’è il tempo, idiota! Sono riuscito a metterne un po’ dentro la bottiglia dalla Fonte della Morte. Sono l’unico al mondo a possedere il tempo…ma per salvare la vita al mio buon amico Piedebucato sono pronto a rinunciarvi” “La Fonte della Morte?” spiegati Corsaro della malora!” Il vecchio pirata, ispirando pazienza e disgusto per quell’orribile uomo iniziò a raccontare: “ Più di dieci anni fa ho salvato un povero naufrago che prima di morire mi confessò che esisteva nell’Oceano Pacifico un’isola vulcanica, dove c’era una fonte nascosta in una caverna chiamata “Fonte della Morte.” Non vi scorreva acqua ma una nebbia arancione…. Cioè vi scorreva il tempo. Il naufrago era un pirata come me e la sua nave era andata a sbattere contro quell’isola e per caso aveva scoperto quella fonte. Non sapeva cos’era quella nebbia arancione e l’aveva toccata. Il giorno di quel pirata si era allungato di dieci anni. Solo sfiorare quella nebbia fa allungare la vita di tanti anni. Quel pirata non capiva perché il sole non tramontava più, non aveva più fame né sete. Era una strana magia però aveva compreso che quel che gli stava accadendo aveva a che fare con la nebbia. Ma dopo tanti anni passati in quell’isola solitaria ha costruito una zattera e ha tentato di attraversare l’oceano convinto di avere ancora tempo da sfruttare invece non sapeva che la sua scorta di tempo era finita e così in balia delle onde per vari giorni soffrì la fame e la sete finché io non lo salvai dal mare. Ma era troppo tardi ….però prima di morire mi confessò quel terribile segreto. Allora andai personalmente a cercare quell’isola vulcanica, la trovai e scovai la Fonte della Morte. Ma mentre stavo raccogliendo il tempo per metterlo nella bottiglia, un terremoto fece tremare la terra. Il vulcano era esploso. Allora mi allontanai velocemente, raggiunsi la nave e vidi l’isola scoppiare. Ero riuscito a salvare un po’ di nebbia nella bottiglia ma averla toccata aveva allungato la mia vita di trent’anni e reputo quella bottiglia il tesoro più grande che posseggo.” Il vecchio pirata tacque. Il racconto per quanto incredibile aveva interessato il perfido comandante che chiese:” Quindi chi tocca la nebbia vive un giorno lungo anni?” Quattrossa rispose: “ E’ così.” Il signore dell’ammiraglia improvvisamente con la spada uccise il povero mozzo Piedebucato, poi Quattrossa e i pirati che aveva catturato. La confessione che aveva ascoltato era sufficiente. Aveva ragione quel vecchio pirata. In quella bottiglia c’era il tesoro più grande del mondo. I soldati della nave lo videro infilzare con rabbia felice uno ad uno i poveri bucanieri, insensibile alle urla e al sangue che sporcò il pavimento e le pareti. Poi diede ordine di raggiungere al più presto l’Isola dei Venti. Non voleva perdere un secondo in più e desiderava al più presto impossessarsi di quella bottiglia Pochi giorni dopo, seguendo le indicazioni di Quattrossa, il comandante con l’ammiraglia arrivò all’Isola dei Venti. Non disse a nessuno dove sarebbe andato e diede ordine all’equipaggio di non muoversi per nessuna ragione. Quindi con una scialuppa si allontanò dalla nave, raggiunse il faraglione nord e trovò facilmente la caverna e la discese quasi tremante dalla gioia. Alla vista della bottiglia esultò, gridando come un pazzo. La commozione era infinita ma nell’attimo preciso in cui aprì la bottiglia e la nebbia ne uscì, spargendosi sulle sue mani, un dolore feroce al petto lo colpì come una fucilata. Nausea e vomito lo distrussero in un momento. Gli era venuto un infarto dalla troppa felicità. Un malessere infernale lo sconvolse. Attese, sdraiato a terra che tutto quel male finisse. Piangeva e urlava dagli spasimi e la sofferenza gli impedivano di muoversi. Vomitava sangue e acido, ma il tempo passava, e il comandante, torturato e sofferente comprese che la nebbia aveva fatto allungare quel terribile giorno di dolore per centinaia e centinaia di anni. Il dolore, la nausea e il disgusto non sarebbero passati più. Dopo varie settimane, l’equipaggio si convinse che il comandante era morto, quindi il sottufficiale diede ordine di salpare e lasciare l’isola. Ma nessuno sapeva invece che il comandate era rimasto lì, in quella caverna a torcersi nel vomito e nello schifo, solo e al buio e preda del dolore e dei fantasmi di Quattrossa e Piedebucato che lo tormentarono per centinaia di anni. E quell’orribile uomo è ancora lì, aspettando, soffrendo e piangendo che il suo tempo finisca al più presto. Qualsiasi tesoro, anche il più grande, se cade nelle mani sbagliate difficilmente dà la felicità.