venerdì 5 marzo 2021

#medusa

Medusa è uno dei miei personaggi preferiti. Mio fratello Giuseppe ha creato l'opera in bronzo...naturalmente è stata subito mia. Spesso vado ad ammirarla...in lei c'è la forza che vorrei avere io...soprattutto lo sguardo. Lucina Cuccio #lucinacuccio #clescartoons #personaggio #medusa

giovedì 4 marzo 2021

L'IDAGO E I LAGHI DI PIETRA

Il re Torraiolo era stremato. Per molte notti aveva dato ordini agli eserciti dei suoi elfi di difendere il castello, antica dimora di famiglia che si trovava vicino i laghi di pietra. Aveva saputo che il terribile Idago stava arrivando per conquistare il suo territorio. Gli altri sovrani elfi erano già stati sconfitti e si erano rifugiati al nord, fra i monti del ghiacciaio eterno e i loro eserciti erano stati dispersi dalla potente creatura. Molti soldati elfi erano stati uccisi, altri avevano perso il senno o la memoria poiché il loro sguardo aveva incrociato troppo a lungo quello dell’Idago che, in quell’attimo, aveva deciso di controllare le loro menti. Le armi del terribile animale non solo erano rappresentate dalla sua forza smisurata e dalla incredibile velocità che possedeva, ma soprattutto dal potere della mente che faceva vacillare chiunque lo guardasse in viso. Torraiolo però sperava che l’Idago giungesse prima ai laghi di pietra per poterlo fermare. Il castello dell’elfo era protetto da quelli che, per secoli, il popolo aveva definito “gli occhi della terra.” Enormi buchi rocciosi che contenevano sassi liquidi, azzurri come l’acqua. Ogni pozza era molto profonda e terminava con un immenso fondo nero come la pece. La chiara superficie ogni tanto si increspava a causa degli uccelli che, incauti, volavano sulle strane acque e cadevano paralizzati. Questo era il loro grande potere. I laghi di pietra bloccavano tutti coloro che non erano elfi e per tal motivo re Torraiolo aveva fatto edificare accanto a loro la sua dimora fatta da marmi neri e lucenti che rispecchiavano la sua buffa immagine, il verde della pelle e le orecchie a punto. Il sovrano amava il suo castello, enorme e maestoso e le cui torri quasi sfioravano le cime dei monti. L’Idago, volando basso, aveva appena superato gli alberi bitorzoluti del bosco di cristallo. Ogni pianta era fatta da tronchi sottili e foglie a forma di cuore. Qualsiasi albero che cresceva vicino il reame di Torraiolo stranamente mutava. Perfino gli arbusti, i cespugli e i fiori assumevano una strana rigidità…come se fossero delle pietre, dure e rigide e finanche il vento, in quella parte del bosco, cadeva. Un silenzio profondo avvolgeva quegli strani luoghi. E infatti l’Idago, avvicinandosi a quei luoghi, immediatamente interruppe la sua corsa, percependo nel cuore, ansia e inquietudine. L’odore del pericolo lo fece fermare e acquattare. Subito le ali si chiusero, avvolgendolo come un manto rosso. In lontananza osservò il castello di Torraiolo, circondato da monti e laghi azzurri. La volontà incitava l’animale a puntare dritto verso la dimora reale per conquistarne il territorio, però l’istinto gli impedì di muoversi. C’era qualcosa di spaventosamente strano in quei posti e l’Idago percepì una terrificante minaccia. Un pericolo che aspettava solo che lui si avvicinasse di più al castello. Nel frattempo Torraiolo ordinò ai soldati di catturare la creatura appena si fosse paralizzata nei pressi dei laghi di pietra. Le ore erano passate, e della magica creatura, si erano perse le tracce. Il re aveva perso la pazienza e ora sbraitava contro il generale delle guardie di prima linea: “ Siete dei buoni a nulla! Dei lavativi-Torraiolo si agitava come un ossesso- mi dici dove diavolo è finito l’Idago?” Il generale balbettava: “ Sire, lo abbiamo atteso sul confine sud, certi che avrebbe puntato al castello, ed invece non è arrivato. Non sappiamo ora dove si trova…il mio luogotenente suggerisce che forse si è ritirato. Probabilmente intimorito dallo spiegamento di tutti gli eserciti ha preferito tornare indietro e lasciare il regno. Però il mio aiutante non ne è certo.” “Idioti-il reale elfo si avvicinò al generale al punto che le antenne che entrambi avevano sulla testa, si sfiorarono-L’Idago è l’essere più potente dei regni…è l’animale più forte che mai sia stato generato. Il mio regno è l’ultimo che gli rimane da conquistare e tu credi che si ritiri senza combattere?” Il generale bofonchiava: ”Allora può darsi che abbia percepito il pericolo dei laghi di pietra e ci aspetti ai margini del bosco di cristallo per farci un’imboscata. Lì il flusso paralizzante dei laghi non arriva.” Torraiolo tacque, riflettendo sull’ipotesi del militare: “ Non credo-rispose però turbato- nessuno conosce il potere dei laghi poiché solo gli elfi ne sono immuni e ogni essere vivente, pianta o animale, vicino ai laghi si paralizza. Questo segreto non è mai uscito dal mio regno. Come può l’Idago esserne venuto a conoscenza?” Il Generale tacque e così anche il re che poi aggiunse:” Fai perlustrare tutto il territorio e assicurati che l’animale sia andato via. Solo in questo modo mi posso tranquillizzare.” Il militare fece eseguire l’ordine senza sapere che l’Idago invece si era nascosto nel folto del bosco, mimetizzandosi fra l’erba, proprio come aveva ipotizzato lui. Le guardie però non lo videro e così la sera, giunse la falsa notizia che la potente creatura aveva lasciato il regno. Torraiolo esultava felice, convinto che l’animale, preda della paura, avesse avuto timore di battersi e fosse fuggito. Non sapeva però che l’astuto essere lo stava aspettando ai confini del bosco di cristallo per poter influenzare la sua mente, e strappargli tutti i poteri regali degli elfi, compresa l’immunità dei laghi di pietra. Così Torraiolo, l’indomani, volle percorrere personalmente, insieme alle sue guardie, i confini del suo territorio per accertarsi che tutto fosse tornato alla normalità, quando improvvisamente l’Idago sbucò dal folto del bosco. Le guardie, terrorizzate, lo fissarono per pochi secondi e fuggirono via, pazzi di orrore e sgomento. Le loro menti, confuse e stordite, persero il senno e la memoria. Il re elfo, nel panico, tentò di fuggire ma la magica creatura lo raggiunse immediatamente. Resosi conto che era stato sconfitto, il re Torraiolo si inginocchiò davanti l’Idago e gli consegnò lo scettro, cedendo all’animale ogni potere e forza della sua condizione di elfo reale. La potente creatura conquistò l’ultimo territorio su cui non comandava e divenne così il sovrano assoluto di tutti i regni magici della terra.

L'IDAGO RICONQUISTA IL PALAZZO

La regina delle streghe era inferocita. Aveva saputo che l’Idago, re dei mondi magici della terra, era riuscito a scappare dalla caverna dove lei e i sovrani degli elfi l’avevano imprigionato. Ora stava arrivando per riprendersi il suo palazzo, splendido edificio di marmo rosa e oro bianco che brillava nel mezzo della foresta dei pini d’argento. “Quella vipera della moglie è riuscita a far cadere le sbarre di odio e rancore che bloccavano l’uscita della caverna-urlò la regina delle streghe, Fresabonda- e ora l’Idago sta arrivando qui. Cosa facciamo?” Con lo sguardo avido, la sovrana rimirò lo splendido salone da ballo. Una grande sala cinta da specchi e azzurre finestre che si affacciavano sui giardini del palazzo. Il pavimento dorato brillava bianco e fulgido, in contrasto con il soffitto affrescato da splendide figure di animali e fiori. La strega amava quella ricchezza e andava matta per l’oro e i brillanti che decoravano i fregi di ogni ambiente del palazzo. “Questa è la sua casa-obbiettò Torraiolo, uno dei sovrani degli elfi- è normale che la voglia riconquistare e tu sai benissimo che noi l’abbiamo imprigionato con l’inganno, per rubargli i regni e la sua dimora. Quindi l’unica cosa da fare è fuggire e rifugiarci al nord, sperando che non ci raggiunga.” “Mai-esclamò Fresabonda furiosa- non lascerò mai questo palazzo! Io dico invece di restare e combattere!” “Combattere?- chiese balbettando Torraiolo esterrefatto- Tu sei pazza! Nessuno dei nostri eserciti, uniti insieme, è in grado di sconfiggere l’Idago. Per non parlare dei suoi magici poteri. Sai bene che la morte lo protegge ed è in grado, con il solo sguardo, di far impazzire chiunque. La sua mente è troppo potente e la sua forza infinita!” La strega lo guardò con odio. Disprezzava la codardia dell’elfo. Gli altri re non avevano tanta paura, e Fresabonda avrebbe voluto litigare e convincere Torraiolo a combattere, ma il tempo era poco e bisognava decidere in fretta poiché la bestia stava arrivando. Così la maga si alzò dal trono dove un tempo sedeva l’Idago, e si diresse fuori dalla sala dove la stavano aspettando i comandanti in capo degli eserciti degli elfi e delle fattucchiere. In migliaia attendevano la loro decisione. Ad un certo punto si bloccò a pochi metri dalla porta. “Io dico invece di combattere! Esclamò decisa la regina delle streghe- e se tu hai paura, puoi anche ritirarti…! Però se vinciamo, il bottino lo dividiamo senza di te!” Torraiolo strinse le buffe labbra. Gli elfi erano strane creature, con le orecchie lunghe come asini, naso a punta e capelli verdi. Sembravano tanti bambini cresciuti, con quegli abiti di pelle e i mantelli color delle foglie. Entrambi erano avidi e assetati di potere e comandare i regni dell’Idago era il sogno di tutti i sovrani della terra. Torraiolo non voleva perdere ciò che aveva guadagnato con l’inganno e benché temesse l’animale e i suoi poteri, si sentì con le spalle al muro. Per niente al mondo avrebbe rinunciato alla sua parte di bottino. “E va bene-bofonchiò-riuniamo gli eserciti e lo attacchiamo. Ma ricordati quello che ti dico…L’Idago ci sconfiggerà! E sarà un miracolo che non ci ucciderà tutti!” Fresabonda raggiunse allora la porta dorata porta che accedeva alla sala attigua dove i vicecomandanti degli eserciti stavano aspettando gli ordini. Urlò loro di attaccare e combattere la bestia. Così in pochi secondi, grida di rabbia e incitamento percorsero le sale fino a fuori l’edificio e le armate, eccitate e rabbiose, guidarono contro l’Idago per sconfiggerlo. Gli eserciti delle streghe e degli elfi intercettarono la bestia vicino le foreste dei pini d’argento che circondavano il palazzo, ma l’impatto fra l’animale e i combattenti fu terribile. Veloce come la luce e forte come le montagne, l’Idago disperdette via, in pochi minuti, migliaia di elfi e streghe. Tentarono di trafiggergli la schiena e il petto con lance e frecce, ma abile e scattante, la magica creatura si sollevava in aria con le robuste ali rosse, per poi fiondarsi a picco contro i guerreggianti, spazzandoli via. Furono sconfitti in poco tempo e i superstiti delle armate si diedero alla fuga. L’Idago li lasciò scappare ma inseguì la regina Fresabonda poiché sapeva che lei era la vera artefice di quella battaglia. Il cuore della strega era assetato di ricchezza e smanioso di potere, e pur di non perdere ciò che aveva rubato, aveva convinto Torraiolo a scendere sul campo di battaglia. La regina si precipitò fuori dal palazzo, affannata e sudata, ma sentiva la bestia guadagnare terreno. Durante la battaglia si era nascosta nelle armerie dell’edificio, ma sapendo che tutti gli eserciti erano stati sconfitti, aveva deciso di darsi anche lei alla fuga. Ma l’Idago non voleva lasciarla andare e la raggiunse in pochi secondi, piombando su di lei. Il suo sangue colorò di rosso il verde del prato.

NELLE MANI DELL'IDAGO

Fra le creature della foresta, l’Idago era una delle più terribili. Feroce e crudele come la morte, era riuscito ad arrivare al comando di tutti gli elfi, le streghe e i fantasmi della terra. Solo a nominare il suo nome, le foglie degli alberi cadevano e i laghi si prosciugavano. I fiumi si gelavano come investiti da una glaciale tormenta di neve. Ogni animale che incontrasse l’Idago rimaneva immobile, paralizzato dalla paura dei suoi occhi di ghiaccio, mentre coloro che si fermavano a guardarlo un solo istante di più, impazzivano e perdevano la memoria poiché lo sguardo del terribile essere stregava i sensi e comandava la volontà. Era un re senza castello ma con milioni di sudditi, vivi e morti. Nessun uomo era mai riuscito a vederlo da vivo. Solo i fantasmi potevano vederlo e ne erano terrificati. L’Idago era figlio di un imperatore puma e di un’aquila reale, allevato dal ghiaccio e dalla morte. Gli era stato insegnato ad non aver paura di niente, ad essere crudele e spietato. Dopo tre secoli dalla sua nascita, aveva sottomesso i sovrani degli elfi e la regina delle streghe, così lui stesso aveva assoggettato tutti i regni magici della terra. La morte gli aveva regalato il potere di comandare ogni spirito dell’aldilà che non avesse raggiunto la sua destinazione finale mentre il padre e la madre gli avevano trasmesso la crudele bellezza degli animali. L’Idago non aveva nome, e d'altronde non gli serviva poiché nessuno osava rivolgergli la parola. Imponente e muscoloso, volava basso e veloce, silenzioso come la neve. Aveva artigli più affilati di lame, denti aguzzi come coltelli ma piume morbide e setose, rosse come sangue. Su ogni parte del corpo, verde come le foreste, piccoli smeraldi splendenti. Le ali era grandi e forti e camminava leggero, ma era vigoroso come mille leoni e resistente come il ferro. Nessun essere vivente era in grado di ucciderlo, poiché il suo cuore era protetto dal ghiaccio e dalla morte. Così gli elfi erano piombati nella paura e le streghe si nascondevano nelle valli solitarie pur di non incontrarlo. La feroce creatura si nutriva di spine, uccelli e serpenti. Non conosceva la pietà e non aveva mai provato tenerezza o amore. Era solo come un monarca, ombroso e duro. Padrone per metà del mondo, sentiva però che qualcosa mancava al suo impero. Tutto il potere accumulato doveva tramandarlo ad un suo simile, ma lui era unico al mondo. Non esisteva altra creatura come lui. Così decise di catturare un essere vivente per farne la sua sposa e avere un figlio. Elfi e streghe non lo attiravano così cominciò a cercare una donna che fosse bella, di sangue nobile ma crudele come lui. Trovò tante fanciulle che incontravano i suoi gusti, di nobile lignaggio, figlie di re e imperatori, quando un giorno vide una bellissima ragazza che zappava la terra. Non era né nobile né crudele ma bella come un raggio di sole e sentendola parlare con le altre persone, buona come l’amore. Per la prima volta la terribile creatura si innamorò di un altro essere vivente. L’Idago era terrorizzato…perché mai si sentiva così strano? Nel petto, il suo cuore andava a fuoco, il respiro era affannoso e brividi di piacere percorrevano il suo corpo piumato. Dimenticò l’umile origine della fanciulla, figlia di un contadino, così la sera la rapì portandola nella sua caverna, fra le foreste della Russia. Da secoli viveva in quella caverna sconosciuta, ricoperta da pelli di animali e decorata da pietre preziose. La ragazza, poverina si ritrovò sola, nelle mani dell’Idago, senza sapere chi fosse e cosa volesse da lei. Il posto dove l’aveva portata era caldo per via dei fuochi accesi all’interno e reso luminoso dalle migliaia di rubini e diamanti che brillavano. Tremante chiese, stringendosi le braccia al petto: “Chi sei e perché mi hai portato qui?” L’Idago fiutò la sua paura ma decise di essere sincero. Cercava di non usare i suoi poteri per influenzarne la mente e la volontà. Desiderava che la fanciulla rimanesse lucida e cosciente di sé stessa, ma era totalmente soggiogato dalla bellezza della ragazza. Ciò che lui stava provando aveva zittito la crudeltà del suo cuore. Così con voce profonda le disse: “ Sono il padrone di tutti i regni sconosciuti della terra e comando gli elfi, le streghe e gli spiriti. Ho diritto di decidere la vita e la morte di chiunque e sono di nobile stirpe, ma ho bisogno di tramandare il mio potere e la mia ricchezza e poiché non ho un erede ho deciso di sposarti e avere un figlio da te. La tua bellezza mi ha fatto dimenticare che non sei di sangue blu e crudele come me. Ma appena ti ho vista ho stabilito che saresti stata la mia sposa.” La fanciulla sgranò gli occhi inorridita. Pensò: “ Sposare un animale, che benché molto bello, rimaneva una bestia? Terribile!” Non le importava se aveva poteri soprannaturali, ricchezze infinite, ed era un re. Non le importava neanche se era un bellissimo animale. Lei era un essere umano nelle mani di un pazzo. L’Idago quasi leggendole nella mente aggiunse: “Non devi aver paura di me, non ti farò del male e come mia moglie, avrai tutto ciò che desideri. Sarai rispettata, ma ciò che pretendo da te è la tua fedeltà. I miei sudditi non mi amano e non sono miei amici. Quindi non avrai contatti né con gli elfi né con le streghe poiché essi non aspettano altro che ribellarsi e spodestarmi dal potere. Vogliono le mie ricchezze e la mia reggenza.” La fanciulla si guardò allora intorno. Preziose pelli di animali fissate alle pareti e pietre preziose, ma quel posto rimaneva sempre una caverna. L’Idago sorrise ed aggiunse: “ E non preoccuparti per questa caverna. Non vivrai qui… farò al più presto costruire un palazzo dove potrai abitare ed esserne la regina. Non ti mancherà nulla, te lo prometto. Ciò che solo desidero è che tu rimanga accanto a me per il resto della tua vita…Ti chiedo troppo?” La fanciulla non rispose ma chinò la testa in segno di assenso. Aveva accettato le condizioni dell’animale. D'altronde non aveva alternative ma un profondo senso di rabbia e ingiustizia le invasero l’anima. Era un ultimatum e lei, in fondo, non aveva scelta. Così dopo pochi giorni L’Idago sposò la fanciulla, e pochi mesi dopo, la portò a vivere in un immenso palazzo di marmo rosa e oro bianco, costruito dagli elfi e dalle streghe e nascosto dai boschi. Era inaccessibile a qualsiasi essere umano. Oramai sposa del mostro, la fanciulla però era circondata da agi e ricchezze infinite. Il suo sposo la colmava di premure, le faceva mille regali, era gentile e affettuoso. Abiti sfarzosi, cibi sopraffini. Nulla le era negato e l’Idago stesso le raccontava storie bellissime ed avventure. Ma, nonostante tutto, essa continuava a covare nel cuore rancore e rabbia. Non gli aveva perdonato di essere stata strappata con la forza dalla sua famiglia, dalla sua terra e soprattutto essere stata costretta a sposarlo. Così si rivolse di nascosto ai sovrani degli elfi e alla regina delle streghe per far imprigionare l’Idago, e in cambio, farla fuggire. Lei avrebbe ceduto tutte le ricchezze, il palazzo e i regni del marito. Così la sera del tradimento, la fanciulla fece bere all’Idago, mescolato nel vino, una pozione che le streghe le avevano dato per farlo dormire profondamente. Appena addormentato, decine di elfi e streghe lo portarono nella sua vecchia caverna e bloccarono l’ingresso con sbarre magiche fatte di odio e ira. L’animale era schiavo di sé stesso ed infatti quando si svegliò dal sonno profondo, impazzì di rabbia, e nel veder allontanare la sposa che tornava alla sua casa, le gridò come un forsennato: “ Io ti amavo e non ti ho mai fatto niente di male! Ti ho dato tutto ciò che avevo e mi hai tradito. Mi hai fatto imprigionare dai miei nemici! Ti avevo donato il mio cuore e mi hai pugnalato alle spalle.” La ragazza si tappò le orecchie alle urla del marito. Le era costato averlo consegnato nelle mani dei suoi nemici, lo aveva fatto soprattutto per orgoglio e per vendicarsi di essere stata costretta a sposarlo contro la sua volontà, ma ora vederlo prigioniero, e il suo palazzo invaso da elfi e streghe che festeggiavano la vittoria, iniziò a dolerle il cuore. Ad ogni passo, punte di pentimento e pena le pungevano il cuore. Si sentiva in colpa e giorni dopo, appena arrivata a casa, si era già pentita di ciò che aveva fatto. Ma ormai non c’era più nulla da fare, e la famiglia la riaccolse con gioia. La fanciulla riprese la sua solita vita, fatta di lavoro, fatica e miseria. Ma qualche settimana dopo si accorse di essere incinta. Erano tanti giorni che aveva nausea e le girava la testa. Un tempo sarebbe impazzita di orrore e paura nel dare alla luce chissà quale mostro, ora invece ne era contenta poiché in tutti quei mesi non aveva fatto altro che pensare all’Idago, alla sua gentilezza, alle sue premure e ai mesi che insieme avevano trascorso nel loro palazzo. Incredibile a dirsi, la ragazza si era innamorata del marito. Pochi mesi dopo, di nascosto a tutti i suoi familiari che non si erano accorti della gravidanza, in una vecchia capanna del bosco, la fanciulla diede alla luce da sola il figlio dell’Idago. Non era un animale, non aveva ali, né artigli, ma era un bambino come gli altri. Aveva solo gli occhi uguali al padre, chiari come il ghiaccio. Ma era un bambino bellissimo, più bello di qualsiasi neonato mai visto ed era l’erede legittimo dei regni del marito. Fu in quel minuto, nell’attimo esatto in cui lo prese fra le braccia che la ragazza decise di tornare dall’Idago, liberarlo e fargli vedere il figlio che aveva sempre desiderato. Tornò nella casa dei suoi genitori con il bambino, raccontò loro tutta la storia, quindi li abbracciò e li salutò per l’ultima volta. Aveva deciso di tornare indietro, chiedere perdono al marito per il suo tradimento e dare una famiglia al bambino. Quel bimbo così amato e così bello aveva diritto a stare anche con il padre, vivere nel suo palazzo ed avere una vita serena e felice. Così, lasciata la casa dei genitori, con il bambino fra le braccia, camminò vari giorni, dirigendosi verso la caverna dell’Idago. Ogni tanto si fermava, puliva il figlio e gli dava il latte. Lo baciava e coccolava, fiera di aver dato alla luce un bambino così bello e perfetto. Il cammino era lungo, e molte volte la ragazza dovette nascondersi perché aveva visto arrivare qualche strega o un elfo. Aveva paura che le impedissero di liberare il marito. Quando arrivò davanti l’ingresso della caverna, l’Idago la aspettava davanti alle sbarre poiché aveva fiutato già il suo arrivo. Era ritto, tetro e ombroso, lo guardo duro come il granito. La fanciulla nascondeva il bimbo alla vista del padre. Giunta davanti lui, con un nodo in gola, mormorò pentita, timide scuse: “ Perdonami- gli disse contrita- per tutto ciò che ho fatto. Ho voluto soddisfare la mia sete di vendetta, ma ho capito che stavo sbagliando subito dopo essere andata via…” L’Idago taceva. La ragazza gli si inginocchiò davanti, piangendo. “ Scusami-implorava- io ti amo…ora ti amo. Ho impiegato un po’ di tempo a capirlo, ma ti giuro che è vero!” Silenzio fra i due. Allora la fanciulla scostò la coperta nella quale teneva nascosto il neonato e aggiunse:” Questo è tuo figlio…quel figlio che hai sempre desiderato e che ti appartiene. Nella vene scorre il tuo nobile sangue ed è il tuo legittimo erede.” Il bimbo aprì gli occhi e si specchiò negli stessi occhi del padre. La rabbia e il rancore dell’Idago si sciolsero immediatamente alla vista del bimbo e lo riconobbe subito come suo. Aveva i suoi stessi occhi e il medesimo odore. Sorrise alla moglie e in quell’istante le sbarre di ira e rabbia che lo tenevano prigioniero caddero a terra. L’amore e il perdono avevano liberato l’Idago che abbracciò la sua famiglia. Mille spiegazioni, mille parole e marito moglie, per la prima volta, gioirono uniti nell’abbracciare il bambino. Il crudele cuore del re era stato conquistato dall’amore e dall’ indulgenza. Qualsiasi barriera al mondo può essere superata dal cuore. L’Idago nascosta la moglie e il figlio nella caverna, velocemente si diresse al suo palazzo e facilmente si liberò degli elfi e delle streghe. Poche battaglie e i suoi nemici erano in fuga e sconfitti. Pochi giorni dopo la fanciulla con il marito e il figlio, tornarono a vivere nel palazzo di marmo e oro bianco, e si amarono per il resto della vita. Nel cuore dell’Idago finalmente albergarono la pace e l’amore. La crudeltà e la morte erano state sconfitte, e la fanciulla fu felice di affidare la sua anima e la sua vita nelle mani del marito e anche di dargli un nome. Il nome dell’Idago fu Lyubov, che in russo significa amore. Il bambino, principe dei regni della magia, crebbe in grazia e bellezza. Guidato dall’amore della madre e dalla forza del padre, divenne un re giusto e stabilì patti di pace con gli elfi, le streghe e i fantasmi. Non usò la cattiveria e la crudeltà per comandare, ma la giustizia e la bontà.

giovedì 7 gennaio 2021

L'ultimo credo

Mi tremavano le mani, mentre sorreggevo quel libro come una preziosa coppa di cristallo. A voce bassa, in un mormorio appena udibile, leggevo quelle oscure frasi… per supplicium, ab igne et a fumo, audivi haec verba. Parole sbiadite…lontane e remote, come isole sperdute nell’oceano. Supra omnem voluntatem... espressioni appena leggibili…imperscrutabili. Ingoiavo a vuoto perché avvertivo, ad un tratto come un gelo, che senza motivo, dal libro, passando per i guanti di lattice, le mani e le braccia, era arrivato nel mio cuore. Voca me… voca me? Cosa significava? In latino non ero mai stato bravo. Quei termini misteriosi e arcani, quelle pagine ingiallite e fragili, come foglie secche, mi stavano portando indietro nel tempo. I secoli avevano lasciato un segno spietato su quelle superfici. E poi la data e la firma. Carcassonne 1703 Thomas Vidal Il liceo scientifico che avevo frequentato e in cui mi ero diplomato, due anni prima, mi aveva dato la possibilità di tentare di capire, bene o male, il senso di quelle vetuste parole. Ci misi qualche minuto ma alla fini compresi. Alla luce del tempo eterno il cambiamento mi chiama Al di sopra di ogni volontà Poi tutto è mutato. Dal fuoco e dal fumo, per supplizio ho sentito queste parole. Sembrava un formula magica, tranne per la frase che si riferiva ad un preciso momento in cui, siffatto sconosciuto Thomas Vidal, aveva udito queste parole. E se mi era chiaro, da qualcuno che stesse morendo. L’unico supplizio che conoscevo con il fuoco era la condanna degli eretici bruciati vivi sul rogo. Certo, trovare nel doppiofondo di quell’antica cassapanca francese, sotto strati di polvere e insetti morti, quel piccolo tomo rilegato in pelle, mi era sembrato un colpo di fortuna. Ora però, non ne ero più tanto sicuro. Nel leggere, a voce sommessa quelle frasi, mi ero subito accorto che qualcosa era cambiato. Qualcosa non andava. Sembrava che l’aria, nel retrobottega del negozio di restauro di mio zio Tommaso, si fosse rarefatta. Fra gli scaffali, dove disordinatamente erano disposti vari barattoli di vernici, colle e stucchi, era sceso il gelo. Improvvisamente mi sembrava di essere entrato dentro un frigorifero. Poi la lampada al neon del soffitto, lentamente variò intensità di luce. Ritmiche ondulazioni di frequenza. Ingoiai varie volte, cercando di mantenere la calma. “Non essere cretino-mi ripetevo per farmi coraggio- anche se è notte, e sono solo in negozio, certe stupidaggini non devono suggestionarmi.” Fissai il pavimento, le mie vecchie Reenbok e poi pezzi di antichi mobili smontati, in attesa del restauro, i trucioli di legno e le limature che coprivano le consumate mattonelle di coccio. Davanti i miei piedi, poi, il falso fondo che avevo rimosso per preparare alla riparazione quella singolare cassapanca e che ora avevo quasi paura di toccare. L’oggetto, arrivato nel pomeriggio tramite corriere e molto particolare, proveniva da un vecchio convento della città di Carcassonne. Era stato donato alla nostra Arcidiocesi ma che prima doveva essere restaurato. Mio zio aveva accettato felice l’incarico. Figuriamoci, un vecchio devoto come lui! Da più di un anno facevo pratica nella sua bottega di restauro e per quel lavoro indossavo guanti di lattice, la felpa nera e i miei intramontabili jeans che mi ero rifiutato di buttare. Ora però sentivo i vestiti strangolarmi. “La magia non esiste-mi ripetevo-cavolo, studio matematica…io credo solo in quello che vedo!” Eppure, preso da strane fantasie, il suono del cellulare mi fece sobbalzare. In un attimo lo recuperai dalla tasca dei pantaloni. “ Luca…dove sei?.” La voce roca di mio zio, vecchio fumatore di pipa, squarciò per un attimo, l’atmosfera irreale che si era appena creata nella stanza. “Zio…sono ancora al negozio.” Farfugliai cercando di darmi un tono normale. In sottofondo, il suono lontano di una sirena. Milano non dormiva mai. “Ancora?-esclamò contrariato- ma sono quasi le dieci! Senti, torna subito a casa. Tua madre se la prenderà con me perché ti sei trattenuto a lavorare fino ad ora in negozio e magari domani arrivi tardi all’università!” Mia madre, sua sorella, era in un perenne stato di agitazione nei miei confronti, figlio unico di un matrimonio felice. Preoccupata sempre per la mia salute, per la mia sicurezza, per i miei studi e per il mio futuro. Invece, fortunatamente, mio padre era tutto il contrario. Simbolo del relax e della tranquillità era in pace con il mondo e senza remore, lo dimostrava. Per lui, tutto sarebbe andata bene! Insomma una coppia perfettamente compensata. “Va bene, vado subito.” Chiusi la telefonata così, con molta delicatezza, come anche il piccolo libro che avevo in mano. Rimasi lì, pensieroso e indeciso sul da farsi. “Che faccio? Richiamo subito lo zio e gli racconto cosa ho trovato?” Mi chiesi, titubante. Eppure, insieme alla paura, ora si insinuava un leggero stato di eccitazione. “E quelle parole…seguite da quegli strani fenomeni- riflettevo velocemente- magari sono tutta suggestione!” Continuavo a rimuginare. “Però, per correttezza, dovresti informarlo del ritrovamento.” Sussurrò la vocina della mia coscienza. Mille pensieri si susseguivano nella mia mente, e continuavo a rimanere lì, immobile e indeciso. Certo portarmi a casa qualcosa che non apparteneva a me, e neanche a mio zio, mi sembrava poco onesto. Però volevo darci un’altra occhiata perché nel chiudere il libro, avevo intravisto altre pagine, dopo quella iniziale, vergate con altre date e frasi. E in fondo al volume, anche qualche disegno. “Domani, quando torno dalla facoltà, informerò subito lo zio del libro- decretai-e magari mi prenderà in giro quando gli racconterò quegli strani fenomeni accaduti mentre lo leggevo.” Decisi quindi di soprassedere e rimandare tutto a domani. Velocemente mi diressi verso l’uscita della stanza, dopo essermi tolto i guanti di lattice e aver indossato il giaccone. Spensi le luci e recuperai il mio zaino. Mi avviai verso l’uscita del negozio, ingombra di oggetti d’arte, pronti per essere consegnati. Chiusi il portone, inserii la combinazione dell’allarme. Nella tasca destra recuperai i guanti di lana e il cappello, nell’altra infilai il prezioso libro. Sentivo l’agitazione crescere mentre salivo al volo sul tram che mi avrebbe portato proprio davanti casa, in Corso Sempione. Intanto, mentre la città sfilava davanti ai miei occhi, osservavo distrattamente le macchine e le persone che, nonostante l’ora tarda, spumeggiavano per le strade. Assorto, ripensavo agli strani fenomeni accaduti, non facendo caso ai passeggeri dentro il tram, e a tutto ciò che mi circondava nell’abitacolo. Rivedevo la luce intermittente della lampada al neon sul soffitto. Sulle braccia, sotto la felpa, avvertivo ancora il gelo e quella strana percezione dell’aria, intorno a me, come una gelida nebbia asfissiante…ma, come sempre, il mio raziocinio mi riportò alla realtà. “Non sono fenomeni paranormali-mi ripetei mentalmente-e tutto può essere spiegato. I numeri e la matematica possono chiarire tutto e mi rifiuto di credere a qualsiasi altra cosa!” Ancora perso nelle mie convinzioni e sostenuto dal mio credo, la logica ragione, sobbalzai nell’accorgermi che ero appena giunto sotto casa. “Sì mamma, va bene mamma!” Ripetei a mia madre per l’ennesima volta, da dietro la porta della mia stanza. Appena arrivato a casa avevo consumato velocemente la cena riposta nel forno per me, mentre i miei genitori si stavano preparando per andare a dormire. Naturalmente mi affrettai a mangiare per rinchiudermi subito in camera mia e dare un’altra occhiata al libro ma mia madre mi aveva raggiunto per le solite raccomandazioni. In vestaglia azzurro cielo e crema da notte, ogni sera, mi propinava consigli e suggerimenti…in pratica sembrava un puffo davanti a Garganella. “Luca...domani a che ora hai lezione?” Chiese l’ansiosa della casa. Sospirai in silenzio perché quel rito si ripeteva tutte le sere. ”Alle otto mamma…come al solito.” Pausa di silenzio. Dietro la porta la sentivo agitarsi. “Mi dici la prima materia?” Alzai gli occhi al cielo. “Analisi...” nemmeno il tempo di concludere la frase che subito, incalzante, mi domandò: “E poi hai Statistica, vero?” Contai fino a cinque… “Sì mamma, domani è venerdì e ho sempre alle prime due ore, Analisi e dopo le altre due, Statistica.” Momento di silenzio. Poi l’ennesima domanda di cui mia madre conosceva già la risposta. “Vai in facoltà con Federico, vero?” Speravo che il supplizio terminasse presto. “Sì mamma, andiamo insieme in facoltà...poi a studiare in biblioteca. Tornerò nel pomeriggio…sul tardi.” Precisai con una punta di esasperazione. Sentii mia madre schiarirsi la voce, forse stava realizzando che erano quasi le undici e mezza di notte e forse ero stanco. Poi finalmente arrendendosi, concluse: “Va bene, mi raccomando però, domattina copriti bene e non dimenticarti i guanti e il cappello. Ah… e metti subito in carica il cellulare. Lo sai che mi agito se ti mando un WhatsApp e non mi rispondi.” Sorrisi clemente: “ Va bene mamma…Buonanotte.” Cercai di essere più gentile possibile. Il problema era che mia madre mi considerava sempre un bambino da proteggere e non ammetteva invece che ero cresciuto. Un ventenne con l’argento vivo addosso. Lei era una chioccia e io fremevo per l’indipendenza. La laurea in matematica mi avrebbe dato finalmente la possibilità di girare un po’ il mondo, fare esperienze e conoscere gente nuova. Il lavoretto nel negozio di restauro mio zio Tommaso mi stava dando la possibilità di mettere un po’ di soldi da parte per eventuali master all’estero. Lo stipendio di professore di mio padre ci consentiva a malapena di sopravvivere e so che i miei genitori stavano facendo i salti mortali per mantenermi all’università. Ma improvvisamente, la scoperta di quel libro mi aveva dato l’impressione che rappresentasse un’occasione… un’opportunità. Così, senza perdere tempo, infilai il pigiama e seduto sul letto lo recuperai dalla tasca del giubbotto. Prima di aprirlo, ispirai profondamente, scostando il ciuffo castano dei capelli dai miei occhi che, per pochi secondi, vagarono inquieti per la stanza. Sfiorai con lo sguardo la scrivania ingombra di libri, i pc, fisso e portatile, la libreria di ferro stracolma e i vari poster sulla parete. Albert Einstein mi fissava perplesso e i gruppi rock sembravano sfidarmi. “Dai…aprilo. Non succederà niente…”Pensai per farmi coraggio. Mi alzai di scatto dal letto. Il piccolo specchio appeso vicino all’armadio mi restituì l’immagine riflessa di uno spilungone alto e robusto ma che in quel momento era paralizzato dalla paura. Poi mi decisi. Delicatamente, con la mano sinistra, girai la prima pagina già letta nel negozio dello zio Tommaso e sfogliai la seconda. Poi la terza. Fortunatamente non accadde niente. Nessun fenomeno. Nessuna strana manifestazione. Mi concentrai allora su quei fogli così antichi che riportavano piccoli paragrafi sempre scritti a mano e sempre in latino. Poi le date e gli schizzi. Più avanti, alcuni disegni molto interessanti. Mi accorsi che si ripeteva spesso il ritratto di un giovane uomo. Certo l’inchiostro di quell’epoca rimandava l’immagine in bianco e nero ma Thomas Vidal, sicuramente autore di quei disegni, lo raffigurava con un occhio sempre più scuro dell’altro. Certamente quel ragazzo, nella vita, doveva avere il colore delle iridi diverse. “No-pensai improvvisamente fiacco -qui mi serve il traduttore online e il vocabolario di latino…e non posso iniziare questa notte a tradurre sti’ papiri!” Ero troppo stanco e serviva concentrazione per capire le misteriose frasi delle pagine che stavo fissando. “Domani-conclusi-domani, quando saremo in biblioteca mi ci metto.” Chiusi il libro, lo rimisi nel giubbotto. Nello zaino riposi invece il computer portatile e il vocabolario di latino, e mi fiondai sotto il piumone. Stranamente, nonostante tutti gli eventi della giornata, piombai in un sonno profondo. Le emozioni della giornata mi avevano stremato e mi parve che la sveglia suonasse solo dopo pochi minuti da quando mi ero coricato. Io e Federico eravamo nella biblioteca del campus già da parecchi minuti. Erano appena scoccate le due del pomeriggio e la mattinata era stata lunga e impegnativa. Quando il professore di Informatica assegnò i soliti dieci esercizi da svolgere a casa, io ero già praticamente fuso. Dopo un panino veloce al bar dell’università, con Federico ci recammo in biblioteca, accaparrandoci una postazione tranquilla. Mentre aspettavo di collegarmi alla rete con il mio computer portatile, Federico esordì con la solita protesta: “ Dieci esercizi di informatica, in più quelli di analisi e il resto. Della formula di Taylor non ricordo niente…” Poi la solita conclusione sconsolata: “Qui se non mi metto a studiare seriamente, col cavolo che supererò gli esami a febbraio. Mi toccherà passare vacanze di Natale sui libri…”. Dopo aver aperto il testo di Analisi, la materia più difficile, mi apostrofò: “Luca…ma mi stai a sentire?” Mi fissò torvo e aveva ragione. Avevo ascoltato distrattamente le sue proteste, ma ero tutto preso nel riporre sul tavolo un quaderno, la penna e il vocabolario. Serviva per tradurre le pagine del libro che avrei tirato fuori dalla tasca del giubbotto solo quando Federico si sarebbe impegnato a risolvere gli esercizi di Analisi. Curioso com’era, non mi avrebbe dato tregua nel sapere tutta la storia se solo si fosse accorto dell’attenzione che avrei riservato verso l’antico volume piuttosto che verso il libro universitario. Così mormorai distrattamente una scusa e mi immersi momentaneamente sulle benedette formule di matematica. Pochi minuti dopo, senza che se ne accorgesse, feci scivolare l’antico libro sulle ginocchia e iniziai a tradurre le varie note. Molte parole erano sbiadite. Alcune coperte da macchie o l’inchiostro era scolorito. Ma sembrava che la storia fosse scritta a ritroso. Come se la prima pagina rappresentasse l’ultimo evento poi Thomas Vidal ricordasse fatti ed eventi e li appuntasse su quelle fragili superfici che seguivano la prima, cercando di dare un certo ordine agli eventi accaduti. I contadini avevano notato la bizzarria del forestiero Era molto difficile decifrare e dare un senso a concetti così astrusi. Il cielo cambiava…luci e ombre all’improvviso mutavano… qui subentravano nel racconto altre persone. Lo straniero appariva bizzarroparlava di erbe…fiori…e non rispondeva alle domande. Così, mentre procedevo nella traduzione, avevo capito il senso di quelle antiche pagine. Thomas Vidal era una specie di giudice…un inquisitore. Improvvisamente realizzai cos’era quel libretto. Il processo di un uomo che veniva da un paese che non era la Francia. Uno straniero, appunto. Alcuni contadini lo avevano visto tante volte nei boschi, intento a raccogliere erbe e fiori. Così, per i suoi strani vestiti, il suo linguaggio e il misterioso modo di fare, lo avevano segnalato al tribunale della santa inquisizione. Poi le pagine si fanno oscure e misteriose. E mi sembra troppo assurdo il significato delle frasi che stavo traducendo… I soldati portarono dei contenitori che lo straniero nascondeva in un vecchio casaleMulti laminarum ardentium, qui dedit off lux sua…Rimasi di sasso…metallo che emanava luce. Sembrava la descrizione di un apparecchio elettronico. Lo straniero è stato arrestato…arnesi che parlano…Così, l’autore riferiva di oggetti che riconoscevo essere elettronici. Ma nel 1700 non esisteva niente di simile! Com’era possibile? Per vari minuti traducevo sempre le stesse frasi. Ma poi avevo dovuto ammettere che la traduzione di quelle parole era corretta. L’autore si soffermava nell’accurata descrizione, grossolana per un uomo del 1700, di apparecchiature, strumenti e meccanismi assolutamente incompatibili con quel secolo. In più, a riprova della mia folle ipotesi, alcuni disegni confermavano, senza dubbio, i miei sospetti. Ma era troppo assurdo ammettere cosa era accaduto! In un barlume di ottusa convinzione, mi attaccavo ancora alle mie convinzioni. In seguito, procedendo con la traduzione, le pagine raccontavano che Thomas Vidal doveva essersi ammalato e il suo incarico assegnato ad un altro inquisitore. Gli ultimi fogli narrano qualcosa di atroce. Di incredibile. Lo straniero era stato messo al rogo, insieme ai suoi misteriosi oggetti che il calore aveva fatto scoppiare. Thomas Vidal, malato e sofferente aveva assistito all’esecuzione. Abbiamo condannato un uomo innocuo…ammetteva, suo malgrado…Nessuno ha capito la patria dello straniero
…e io in quell’istante, mi sono arreso all’evidenza. Dopo più di trecento anni, solo io, rappresentante dell’umanità, ho realizzato cos’era davvero successo. Solo io ne sono testimone. Quell’uomo, probabilmente uno scienziato, era un alieno…un alieno lasciato sulla terra, con le sue attrezzature, per studiare le specie botaniche. E noi, miseri e ignoranti terrestri, preda di paure e superstizioni l’abbiamo ucciso in nome della nostra giustizia…e della nostra religione. Ma soprattutto perché andava contro le nostre convinzioni, contro il nostro credo. Quell’essere sarà certamente stato strano e inconsueto e noi uomini abbiamo paura di tutto ciò che è diverso. “Così- riflettei logicamente- alla luce di ciò che era accaduto ad uno di loro, gli alieni come potevano ritornare sul nostro pianeta?” Domanda più che legittima. Noi uomini avevamo dato prova del nostro animo spietato, della nostra cattiveria e crudeltà. Forse Thomas Vidal aveva preso coscienza del suo imperdonabile sbaglio. Forse aveva realizzato l’insensibilità e la disumanità del sistema. Richiusi il libro e lo nascosi nello zaino. Mi vergognavo profondamente dell’operato dei miei simili. A mio parere, l’umanità aveva fallito e sicuramente, se gli alieni fossero arrivati sulla terra oggi, ci saremmo comportati esattamente come nel 1700. Federico, nel frattempo aveva finito e appariva molto soddisfatto: “ Sono riuscito a terminare gli esercizi di analisi.” Chiuse il quaderno e mi chiese: “Mi sembri sconvolto…stai bene?” Ispirai profondamente. Cosa rispondere? “Certo che sono sconvolto!-pensai- sono a conoscenza di un segreto che non ha precedenti, con tanto di prove e non so cosa fare.” Con una forza che non sapevo di possedere, gli sorrisi: “ Non ho niente Fede…magari un po’ si stanchezza.” Come un bravo scolaretto, ma in uno stato di profonda confusione mentale e marcata tachicardia, presi il libro di statistica: “Allora, quali esercizi dobbiamo fare?” Chiesi, aggrappandomi al dovere e allo studio. Avevo bisogno di tempo per riflettere…e per pensare. Così, mentre procedevamo fra mode, mediane e medie, presi una decisione che, negli anni avvenire, non ho mai rimpianto. Un gesto assurdo, inspiegabile ma, a mio parere, logico. Razionale. Avrei rimesso al suo posto il libro. Nessuno, nemmeno lo zio Tommaso, avrebbe dovuto sapere. Solo io sarei stato a conoscenza di ciò che era successo. Era meglio se l’umanità avesse continuato a credere nella sua verità…nelle sue logiche. Condividere una vergogna simile non era produttivo. A questo punto meglio l’ignoranza. La prova eclatante che la terra non era degna di accogliere una razza superiore, sarebbe stato un fardello che avrei portato solo io. Meglio lasciare agli uomini l’illusione e la consolazione dei propri principi. Per ognuno di noi, come anche per me che avevo fatto della matematica la mia religione e reso cieco verso qualsiasi altra alternativa, le proprie convinzioni e il proprio credo possono rappresentare l’obbiettivo finale della nostra esistenza…o peggio ancora, l’unico motivo per giustificarla.

lunedì 4 gennaio 2021

I PIEDI NELLA PALUDE

Tanto tempo fa esisteva un regno molto povero. I sovrani avevano sperperato ogni bene dello stato e avevano prosciugato anche i risparmi dei cittadini, imponendo tasse di ogni tipo tasse. E tutti gli abitanti erano caduti nella miseria e nella disperazione. Non c’era più cibo e le case, poco alla volta, si stavano distruggendo. Gli animali erano serviti a sfamare la popolazione ma ora non c’era rimasto più nulla. Le pentole erano vuote….i focolari spenti…e tutte le persone non avevano più nemmeno la forza di lavorare. Sembrava anche che il sole e il cielo fossero offuscati dalla desolazione e dalla povertà. Così tutti i cittadini decisero di mandare in esilio i sovrani responsabili della carestia e lo sconforto in quel regno. Appena i sovrani partirono, i capi delle famiglie che un tempo erano state ricche, volevano andare al potere per governare, poiché in loro la fame di potere era uguale alla fame di cibo. Ma la situazione era così grave che per una volta, l’assemblea dei cittadini decise di mettere al comando di quel regno un vecchio saggio, che da anni viveva solo, in una caverna. Era stato l’unico che non si era candidato per il comando. L’unico che non si era presentato per essere eletto…l’unico che non voleva il potere. In un sprazzo di raziocinio, i cittadini capirono che quel vecchio eremita era il solo che poteva salvare il regno dalla distruzione totale. Così il vecchio eremita fu nominato re. La corona che portava era di ottone, poiché il precedente sovrano aveva venduto quella d’oro per comprarsi degli splendidi cavalli bianchi. L’indomani, all’alba, il vecchio eremita uscì dal castello andato in rovina, e con la zappa al collo, si recò nel campo più vicino e iniziò a zappare. I consiglieri e i dignitari appena lo videro, si misero le mani in testa! Il re che zappa la terra! Incredibile! Inaudito! Vergognoso! Il vecchio saggio, interrompendo per un attimo di zappare, disse loro: “ Invece di star lì, con le mani in mano, perché non mi aiutate a dissodare questo campo? L’inverno è vicino, e prima delle piogge, dobbiamo piantare il grano…se non facciamo tutti la nostra parte, moriremo tutti di fame.” Così consiglieri, dignitari, nobili e politici, tutti con le zappe in mano, iniziarono a preparare i campi per la semina. Il re, vecchio e stanco, guidava tutti in quel pesante lavoro, e anche se queste persone non avevano mai zappato in vita loro, seguirono l’esempio del sovrano. Se lui zappava, anche gli altri dovevano farlo. Dopo la semina, il vecchio eremita si recò al fiume e iniziò a pescare…così anche i nobili e i dignitari. I cittadini, a bocca aperta, videro i membri delle ex famiglie ricche del regno, pescare, pulire ed essiccare il pesce. Chiesero allora al re la spiegazione…e l’eremita rispose:” Se non facciamo tutti la nostra parte, moriremo tutti di fame.” Così anche i cittadini aiutarono nella pesca, e furono loro a portare il pesce nel regno vicino per poterlo vendere. Con il denaro ricavato, il re comprò tanto cotone e lo consegnò a tutte le famiglie del regno affinché lo filassero e così tutti i cittadini, nobili e non, iniziarono il lavoro. I figli di ogni famiglia, vedendo il padre e la madre che filavano il cotone, facendone stoffe colorate, chiesero loro il motivo….e ogni genitore disse al figlio:” Se non facciamo tutti la nostra parte, moriremo tutti di fame:” Così ogni ragazzo aiutò a confezionare abiti di tutti i tipi, decorandoli con la magnifica fantasia della gioventù. Gli abiti furono venduti, e poco alla volta, il regno uscì fuori dalla miseria e dalla fame. Tutti lavoravano…tutti contribuivano al benessere di tutti…gli alberghi, rinnovati, ospitarono di nuovo i turisti…i negozi ricominciarono a vendere e il denaro circolava liberamente. Ogni persona di quel regno era devoto al vecchio eremita, e tutti lo amavano e rispettavano. Nella sua vita da re non aveva voluto denaro per sé ma il benessere per la popolazione del regno che aveva dovuto salvare. Qualche anno dopo, per il vecchio eremita si avvicinò la fine, ma il saggio re non aveva paura. La morte non era un demone ma un angelo misericordioso. Tutti i cittadini vegliarono le sue ultime ore, dentro e fuori il castello. Le ultime parole del re furono per la popolazione…raccomandò loro di imparare da ciò che avevano dovuto affrontare. Le sue ultime parole furono: “ La fame e la miseria sono frutto dell’ingordigia dell’uomo. La sete di denaro e di potere è una palude profonda …ed è facile camminarci dentro….uscirne è impossibile.(
Racconto di Lucina Cuccio)