giovedì 4 marzo 2021

NELLE MANI DELL'IDAGO

Fra le creature della foresta, l’Idago era una delle più terribili. Feroce e crudele come la morte, era riuscito ad arrivare al comando di tutti gli elfi, le streghe e i fantasmi della terra. Solo a nominare il suo nome, le foglie degli alberi cadevano e i laghi si prosciugavano. I fiumi si gelavano come investiti da una glaciale tormenta di neve. Ogni animale che incontrasse l’Idago rimaneva immobile, paralizzato dalla paura dei suoi occhi di ghiaccio, mentre coloro che si fermavano a guardarlo un solo istante di più, impazzivano e perdevano la memoria poiché lo sguardo del terribile essere stregava i sensi e comandava la volontà. Era un re senza castello ma con milioni di sudditi, vivi e morti. Nessun uomo era mai riuscito a vederlo da vivo. Solo i fantasmi potevano vederlo e ne erano terrificati. L’Idago era figlio di un imperatore puma e di un’aquila reale, allevato dal ghiaccio e dalla morte. Gli era stato insegnato ad non aver paura di niente, ad essere crudele e spietato. Dopo tre secoli dalla sua nascita, aveva sottomesso i sovrani degli elfi e la regina delle streghe, così lui stesso aveva assoggettato tutti i regni magici della terra. La morte gli aveva regalato il potere di comandare ogni spirito dell’aldilà che non avesse raggiunto la sua destinazione finale mentre il padre e la madre gli avevano trasmesso la crudele bellezza degli animali. L’Idago non aveva nome, e d'altronde non gli serviva poiché nessuno osava rivolgergli la parola. Imponente e muscoloso, volava basso e veloce, silenzioso come la neve. Aveva artigli più affilati di lame, denti aguzzi come coltelli ma piume morbide e setose, rosse come sangue. Su ogni parte del corpo, verde come le foreste, piccoli smeraldi splendenti. Le ali era grandi e forti e camminava leggero, ma era vigoroso come mille leoni e resistente come il ferro. Nessun essere vivente era in grado di ucciderlo, poiché il suo cuore era protetto dal ghiaccio e dalla morte. Così gli elfi erano piombati nella paura e le streghe si nascondevano nelle valli solitarie pur di non incontrarlo. La feroce creatura si nutriva di spine, uccelli e serpenti. Non conosceva la pietà e non aveva mai provato tenerezza o amore. Era solo come un monarca, ombroso e duro. Padrone per metà del mondo, sentiva però che qualcosa mancava al suo impero. Tutto il potere accumulato doveva tramandarlo ad un suo simile, ma lui era unico al mondo. Non esisteva altra creatura come lui. Così decise di catturare un essere vivente per farne la sua sposa e avere un figlio. Elfi e streghe non lo attiravano così cominciò a cercare una donna che fosse bella, di sangue nobile ma crudele come lui. Trovò tante fanciulle che incontravano i suoi gusti, di nobile lignaggio, figlie di re e imperatori, quando un giorno vide una bellissima ragazza che zappava la terra. Non era né nobile né crudele ma bella come un raggio di sole e sentendola parlare con le altre persone, buona come l’amore. Per la prima volta la terribile creatura si innamorò di un altro essere vivente. L’Idago era terrorizzato…perché mai si sentiva così strano? Nel petto, il suo cuore andava a fuoco, il respiro era affannoso e brividi di piacere percorrevano il suo corpo piumato. Dimenticò l’umile origine della fanciulla, figlia di un contadino, così la sera la rapì portandola nella sua caverna, fra le foreste della Russia. Da secoli viveva in quella caverna sconosciuta, ricoperta da pelli di animali e decorata da pietre preziose. La ragazza, poverina si ritrovò sola, nelle mani dell’Idago, senza sapere chi fosse e cosa volesse da lei. Il posto dove l’aveva portata era caldo per via dei fuochi accesi all’interno e reso luminoso dalle migliaia di rubini e diamanti che brillavano. Tremante chiese, stringendosi le braccia al petto: “Chi sei e perché mi hai portato qui?” L’Idago fiutò la sua paura ma decise di essere sincero. Cercava di non usare i suoi poteri per influenzarne la mente e la volontà. Desiderava che la fanciulla rimanesse lucida e cosciente di sé stessa, ma era totalmente soggiogato dalla bellezza della ragazza. Ciò che lui stava provando aveva zittito la crudeltà del suo cuore. Così con voce profonda le disse: “ Sono il padrone di tutti i regni sconosciuti della terra e comando gli elfi, le streghe e gli spiriti. Ho diritto di decidere la vita e la morte di chiunque e sono di nobile stirpe, ma ho bisogno di tramandare il mio potere e la mia ricchezza e poiché non ho un erede ho deciso di sposarti e avere un figlio da te. La tua bellezza mi ha fatto dimenticare che non sei di sangue blu e crudele come me. Ma appena ti ho vista ho stabilito che saresti stata la mia sposa.” La fanciulla sgranò gli occhi inorridita. Pensò: “ Sposare un animale, che benché molto bello, rimaneva una bestia? Terribile!” Non le importava se aveva poteri soprannaturali, ricchezze infinite, ed era un re. Non le importava neanche se era un bellissimo animale. Lei era un essere umano nelle mani di un pazzo. L’Idago quasi leggendole nella mente aggiunse: “Non devi aver paura di me, non ti farò del male e come mia moglie, avrai tutto ciò che desideri. Sarai rispettata, ma ciò che pretendo da te è la tua fedeltà. I miei sudditi non mi amano e non sono miei amici. Quindi non avrai contatti né con gli elfi né con le streghe poiché essi non aspettano altro che ribellarsi e spodestarmi dal potere. Vogliono le mie ricchezze e la mia reggenza.” La fanciulla si guardò allora intorno. Preziose pelli di animali fissate alle pareti e pietre preziose, ma quel posto rimaneva sempre una caverna. L’Idago sorrise ed aggiunse: “ E non preoccuparti per questa caverna. Non vivrai qui… farò al più presto costruire un palazzo dove potrai abitare ed esserne la regina. Non ti mancherà nulla, te lo prometto. Ciò che solo desidero è che tu rimanga accanto a me per il resto della tua vita…Ti chiedo troppo?” La fanciulla non rispose ma chinò la testa in segno di assenso. Aveva accettato le condizioni dell’animale. D'altronde non aveva alternative ma un profondo senso di rabbia e ingiustizia le invasero l’anima. Era un ultimatum e lei, in fondo, non aveva scelta. Così dopo pochi giorni L’Idago sposò la fanciulla, e pochi mesi dopo, la portò a vivere in un immenso palazzo di marmo rosa e oro bianco, costruito dagli elfi e dalle streghe e nascosto dai boschi. Era inaccessibile a qualsiasi essere umano. Oramai sposa del mostro, la fanciulla però era circondata da agi e ricchezze infinite. Il suo sposo la colmava di premure, le faceva mille regali, era gentile e affettuoso. Abiti sfarzosi, cibi sopraffini. Nulla le era negato e l’Idago stesso le raccontava storie bellissime ed avventure. Ma, nonostante tutto, essa continuava a covare nel cuore rancore e rabbia. Non gli aveva perdonato di essere stata strappata con la forza dalla sua famiglia, dalla sua terra e soprattutto essere stata costretta a sposarlo. Così si rivolse di nascosto ai sovrani degli elfi e alla regina delle streghe per far imprigionare l’Idago, e in cambio, farla fuggire. Lei avrebbe ceduto tutte le ricchezze, il palazzo e i regni del marito. Così la sera del tradimento, la fanciulla fece bere all’Idago, mescolato nel vino, una pozione che le streghe le avevano dato per farlo dormire profondamente. Appena addormentato, decine di elfi e streghe lo portarono nella sua vecchia caverna e bloccarono l’ingresso con sbarre magiche fatte di odio e ira. L’animale era schiavo di sé stesso ed infatti quando si svegliò dal sonno profondo, impazzì di rabbia, e nel veder allontanare la sposa che tornava alla sua casa, le gridò come un forsennato: “ Io ti amavo e non ti ho mai fatto niente di male! Ti ho dato tutto ciò che avevo e mi hai tradito. Mi hai fatto imprigionare dai miei nemici! Ti avevo donato il mio cuore e mi hai pugnalato alle spalle.” La ragazza si tappò le orecchie alle urla del marito. Le era costato averlo consegnato nelle mani dei suoi nemici, lo aveva fatto soprattutto per orgoglio e per vendicarsi di essere stata costretta a sposarlo contro la sua volontà, ma ora vederlo prigioniero, e il suo palazzo invaso da elfi e streghe che festeggiavano la vittoria, iniziò a dolerle il cuore. Ad ogni passo, punte di pentimento e pena le pungevano il cuore. Si sentiva in colpa e giorni dopo, appena arrivata a casa, si era già pentita di ciò che aveva fatto. Ma ormai non c’era più nulla da fare, e la famiglia la riaccolse con gioia. La fanciulla riprese la sua solita vita, fatta di lavoro, fatica e miseria. Ma qualche settimana dopo si accorse di essere incinta. Erano tanti giorni che aveva nausea e le girava la testa. Un tempo sarebbe impazzita di orrore e paura nel dare alla luce chissà quale mostro, ora invece ne era contenta poiché in tutti quei mesi non aveva fatto altro che pensare all’Idago, alla sua gentilezza, alle sue premure e ai mesi che insieme avevano trascorso nel loro palazzo. Incredibile a dirsi, la ragazza si era innamorata del marito. Pochi mesi dopo, di nascosto a tutti i suoi familiari che non si erano accorti della gravidanza, in una vecchia capanna del bosco, la fanciulla diede alla luce da sola il figlio dell’Idago. Non era un animale, non aveva ali, né artigli, ma era un bambino come gli altri. Aveva solo gli occhi uguali al padre, chiari come il ghiaccio. Ma era un bambino bellissimo, più bello di qualsiasi neonato mai visto ed era l’erede legittimo dei regni del marito. Fu in quel minuto, nell’attimo esatto in cui lo prese fra le braccia che la ragazza decise di tornare dall’Idago, liberarlo e fargli vedere il figlio che aveva sempre desiderato. Tornò nella casa dei suoi genitori con il bambino, raccontò loro tutta la storia, quindi li abbracciò e li salutò per l’ultima volta. Aveva deciso di tornare indietro, chiedere perdono al marito per il suo tradimento e dare una famiglia al bambino. Quel bimbo così amato e così bello aveva diritto a stare anche con il padre, vivere nel suo palazzo ed avere una vita serena e felice. Così, lasciata la casa dei genitori, con il bambino fra le braccia, camminò vari giorni, dirigendosi verso la caverna dell’Idago. Ogni tanto si fermava, puliva il figlio e gli dava il latte. Lo baciava e coccolava, fiera di aver dato alla luce un bambino così bello e perfetto. Il cammino era lungo, e molte volte la ragazza dovette nascondersi perché aveva visto arrivare qualche strega o un elfo. Aveva paura che le impedissero di liberare il marito. Quando arrivò davanti l’ingresso della caverna, l’Idago la aspettava davanti alle sbarre poiché aveva fiutato già il suo arrivo. Era ritto, tetro e ombroso, lo guardo duro come il granito. La fanciulla nascondeva il bimbo alla vista del padre. Giunta davanti lui, con un nodo in gola, mormorò pentita, timide scuse: “ Perdonami- gli disse contrita- per tutto ciò che ho fatto. Ho voluto soddisfare la mia sete di vendetta, ma ho capito che stavo sbagliando subito dopo essere andata via…” L’Idago taceva. La ragazza gli si inginocchiò davanti, piangendo. “ Scusami-implorava- io ti amo…ora ti amo. Ho impiegato un po’ di tempo a capirlo, ma ti giuro che è vero!” Silenzio fra i due. Allora la fanciulla scostò la coperta nella quale teneva nascosto il neonato e aggiunse:” Questo è tuo figlio…quel figlio che hai sempre desiderato e che ti appartiene. Nella vene scorre il tuo nobile sangue ed è il tuo legittimo erede.” Il bimbo aprì gli occhi e si specchiò negli stessi occhi del padre. La rabbia e il rancore dell’Idago si sciolsero immediatamente alla vista del bimbo e lo riconobbe subito come suo. Aveva i suoi stessi occhi e il medesimo odore. Sorrise alla moglie e in quell’istante le sbarre di ira e rabbia che lo tenevano prigioniero caddero a terra. L’amore e il perdono avevano liberato l’Idago che abbracciò la sua famiglia. Mille spiegazioni, mille parole e marito moglie, per la prima volta, gioirono uniti nell’abbracciare il bambino. Il crudele cuore del re era stato conquistato dall’amore e dall’ indulgenza. Qualsiasi barriera al mondo può essere superata dal cuore. L’Idago nascosta la moglie e il figlio nella caverna, velocemente si diresse al suo palazzo e facilmente si liberò degli elfi e delle streghe. Poche battaglie e i suoi nemici erano in fuga e sconfitti. Pochi giorni dopo la fanciulla con il marito e il figlio, tornarono a vivere nel palazzo di marmo e oro bianco, e si amarono per il resto della vita. Nel cuore dell’Idago finalmente albergarono la pace e l’amore. La crudeltà e la morte erano state sconfitte, e la fanciulla fu felice di affidare la sua anima e la sua vita nelle mani del marito e anche di dargli un nome. Il nome dell’Idago fu Lyubov, che in russo significa amore. Il bambino, principe dei regni della magia, crebbe in grazia e bellezza. Guidato dall’amore della madre e dalla forza del padre, divenne un re giusto e stabilì patti di pace con gli elfi, le streghe e i fantasmi. Non usò la cattiveria e la crudeltà per comandare, ma la giustizia e la bontà.

giovedì 7 gennaio 2021

L'ultimo credo

Mi tremavano le mani, mentre sorreggevo quel libro come una preziosa coppa di cristallo. A voce bassa, in un mormorio appena udibile, leggevo quelle oscure frasi… per supplicium, ab igne et a fumo, audivi haec verba. Parole sbiadite…lontane e remote, come isole sperdute nell’oceano. Supra omnem voluntatem... espressioni appena leggibili…imperscrutabili. Ingoiavo a vuoto perché avvertivo, ad un tratto come un gelo, che senza motivo, dal libro, passando per i guanti di lattice, le mani e le braccia, era arrivato nel mio cuore. Voca me… voca me? Cosa significava? In latino non ero mai stato bravo. Quei termini misteriosi e arcani, quelle pagine ingiallite e fragili, come foglie secche, mi stavano portando indietro nel tempo. I secoli avevano lasciato un segno spietato su quelle superfici. E poi la data e la firma. Carcassonne 1703 Thomas Vidal Il liceo scientifico che avevo frequentato e in cui mi ero diplomato, due anni prima, mi aveva dato la possibilità di tentare di capire, bene o male, il senso di quelle vetuste parole. Ci misi qualche minuto ma alla fini compresi. Alla luce del tempo eterno il cambiamento mi chiama Al di sopra di ogni volontà Poi tutto è mutato. Dal fuoco e dal fumo, per supplizio ho sentito queste parole. Sembrava un formula magica, tranne per la frase che si riferiva ad un preciso momento in cui, siffatto sconosciuto Thomas Vidal, aveva udito queste parole. E se mi era chiaro, da qualcuno che stesse morendo. L’unico supplizio che conoscevo con il fuoco era la condanna degli eretici bruciati vivi sul rogo. Certo, trovare nel doppiofondo di quell’antica cassapanca francese, sotto strati di polvere e insetti morti, quel piccolo tomo rilegato in pelle, mi era sembrato un colpo di fortuna. Ora però, non ne ero più tanto sicuro. Nel leggere, a voce sommessa quelle frasi, mi ero subito accorto che qualcosa era cambiato. Qualcosa non andava. Sembrava che l’aria, nel retrobottega del negozio di restauro di mio zio Tommaso, si fosse rarefatta. Fra gli scaffali, dove disordinatamente erano disposti vari barattoli di vernici, colle e stucchi, era sceso il gelo. Improvvisamente mi sembrava di essere entrato dentro un frigorifero. Poi la lampada al neon del soffitto, lentamente variò intensità di luce. Ritmiche ondulazioni di frequenza. Ingoiai varie volte, cercando di mantenere la calma. “Non essere cretino-mi ripetevo per farmi coraggio- anche se è notte, e sono solo in negozio, certe stupidaggini non devono suggestionarmi.” Fissai il pavimento, le mie vecchie Reenbok e poi pezzi di antichi mobili smontati, in attesa del restauro, i trucioli di legno e le limature che coprivano le consumate mattonelle di coccio. Davanti i miei piedi, poi, il falso fondo che avevo rimosso per preparare alla riparazione quella singolare cassapanca e che ora avevo quasi paura di toccare. L’oggetto, arrivato nel pomeriggio tramite corriere e molto particolare, proveniva da un vecchio convento della città di Carcassonne. Era stato donato alla nostra Arcidiocesi ma che prima doveva essere restaurato. Mio zio aveva accettato felice l’incarico. Figuriamoci, un vecchio devoto come lui! Da più di un anno facevo pratica nella sua bottega di restauro e per quel lavoro indossavo guanti di lattice, la felpa nera e i miei intramontabili jeans che mi ero rifiutato di buttare. Ora però sentivo i vestiti strangolarmi. “La magia non esiste-mi ripetevo-cavolo, studio matematica…io credo solo in quello che vedo!” Eppure, preso da strane fantasie, il suono del cellulare mi fece sobbalzare. In un attimo lo recuperai dalla tasca dei pantaloni. “ Luca…dove sei?.” La voce roca di mio zio, vecchio fumatore di pipa, squarciò per un attimo, l’atmosfera irreale che si era appena creata nella stanza. “Zio…sono ancora al negozio.” Farfugliai cercando di darmi un tono normale. In sottofondo, il suono lontano di una sirena. Milano non dormiva mai. “Ancora?-esclamò contrariato- ma sono quasi le dieci! Senti, torna subito a casa. Tua madre se la prenderà con me perché ti sei trattenuto a lavorare fino ad ora in negozio e magari domani arrivi tardi all’università!” Mia madre, sua sorella, era in un perenne stato di agitazione nei miei confronti, figlio unico di un matrimonio felice. Preoccupata sempre per la mia salute, per la mia sicurezza, per i miei studi e per il mio futuro. Invece, fortunatamente, mio padre era tutto il contrario. Simbolo del relax e della tranquillità era in pace con il mondo e senza remore, lo dimostrava. Per lui, tutto sarebbe andata bene! Insomma una coppia perfettamente compensata. “Va bene, vado subito.” Chiusi la telefonata così, con molta delicatezza, come anche il piccolo libro che avevo in mano. Rimasi lì, pensieroso e indeciso sul da farsi. “Che faccio? Richiamo subito lo zio e gli racconto cosa ho trovato?” Mi chiesi, titubante. Eppure, insieme alla paura, ora si insinuava un leggero stato di eccitazione. “E quelle parole…seguite da quegli strani fenomeni- riflettevo velocemente- magari sono tutta suggestione!” Continuavo a rimuginare. “Però, per correttezza, dovresti informarlo del ritrovamento.” Sussurrò la vocina della mia coscienza. Mille pensieri si susseguivano nella mia mente, e continuavo a rimanere lì, immobile e indeciso. Certo portarmi a casa qualcosa che non apparteneva a me, e neanche a mio zio, mi sembrava poco onesto. Però volevo darci un’altra occhiata perché nel chiudere il libro, avevo intravisto altre pagine, dopo quella iniziale, vergate con altre date e frasi. E in fondo al volume, anche qualche disegno. “Domani, quando torno dalla facoltà, informerò subito lo zio del libro- decretai-e magari mi prenderà in giro quando gli racconterò quegli strani fenomeni accaduti mentre lo leggevo.” Decisi quindi di soprassedere e rimandare tutto a domani. Velocemente mi diressi verso l’uscita della stanza, dopo essermi tolto i guanti di lattice e aver indossato il giaccone. Spensi le luci e recuperai il mio zaino. Mi avviai verso l’uscita del negozio, ingombra di oggetti d’arte, pronti per essere consegnati. Chiusi il portone, inserii la combinazione dell’allarme. Nella tasca destra recuperai i guanti di lana e il cappello, nell’altra infilai il prezioso libro. Sentivo l’agitazione crescere mentre salivo al volo sul tram che mi avrebbe portato proprio davanti casa, in Corso Sempione. Intanto, mentre la città sfilava davanti ai miei occhi, osservavo distrattamente le macchine e le persone che, nonostante l’ora tarda, spumeggiavano per le strade. Assorto, ripensavo agli strani fenomeni accaduti, non facendo caso ai passeggeri dentro il tram, e a tutto ciò che mi circondava nell’abitacolo. Rivedevo la luce intermittente della lampada al neon sul soffitto. Sulle braccia, sotto la felpa, avvertivo ancora il gelo e quella strana percezione dell’aria, intorno a me, come una gelida nebbia asfissiante…ma, come sempre, il mio raziocinio mi riportò alla realtà. “Non sono fenomeni paranormali-mi ripetei mentalmente-e tutto può essere spiegato. I numeri e la matematica possono chiarire tutto e mi rifiuto di credere a qualsiasi altra cosa!” Ancora perso nelle mie convinzioni e sostenuto dal mio credo, la logica ragione, sobbalzai nell’accorgermi che ero appena giunto sotto casa. “Sì mamma, va bene mamma!” Ripetei a mia madre per l’ennesima volta, da dietro la porta della mia stanza. Appena arrivato a casa avevo consumato velocemente la cena riposta nel forno per me, mentre i miei genitori si stavano preparando per andare a dormire. Naturalmente mi affrettai a mangiare per rinchiudermi subito in camera mia e dare un’altra occhiata al libro ma mia madre mi aveva raggiunto per le solite raccomandazioni. In vestaglia azzurro cielo e crema da notte, ogni sera, mi propinava consigli e suggerimenti…in pratica sembrava un puffo davanti a Garganella. “Luca...domani a che ora hai lezione?” Chiese l’ansiosa della casa. Sospirai in silenzio perché quel rito si ripeteva tutte le sere. ”Alle otto mamma…come al solito.” Pausa di silenzio. Dietro la porta la sentivo agitarsi. “Mi dici la prima materia?” Alzai gli occhi al cielo. “Analisi...” nemmeno il tempo di concludere la frase che subito, incalzante, mi domandò: “E poi hai Statistica, vero?” Contai fino a cinque… “Sì mamma, domani è venerdì e ho sempre alle prime due ore, Analisi e dopo le altre due, Statistica.” Momento di silenzio. Poi l’ennesima domanda di cui mia madre conosceva già la risposta. “Vai in facoltà con Federico, vero?” Speravo che il supplizio terminasse presto. “Sì mamma, andiamo insieme in facoltà...poi a studiare in biblioteca. Tornerò nel pomeriggio…sul tardi.” Precisai con una punta di esasperazione. Sentii mia madre schiarirsi la voce, forse stava realizzando che erano quasi le undici e mezza di notte e forse ero stanco. Poi finalmente arrendendosi, concluse: “Va bene, mi raccomando però, domattina copriti bene e non dimenticarti i guanti e il cappello. Ah… e metti subito in carica il cellulare. Lo sai che mi agito se ti mando un WhatsApp e non mi rispondi.” Sorrisi clemente: “ Va bene mamma…Buonanotte.” Cercai di essere più gentile possibile. Il problema era che mia madre mi considerava sempre un bambino da proteggere e non ammetteva invece che ero cresciuto. Un ventenne con l’argento vivo addosso. Lei era una chioccia e io fremevo per l’indipendenza. La laurea in matematica mi avrebbe dato finalmente la possibilità di girare un po’ il mondo, fare esperienze e conoscere gente nuova. Il lavoretto nel negozio di restauro mio zio Tommaso mi stava dando la possibilità di mettere un po’ di soldi da parte per eventuali master all’estero. Lo stipendio di professore di mio padre ci consentiva a malapena di sopravvivere e so che i miei genitori stavano facendo i salti mortali per mantenermi all’università. Ma improvvisamente, la scoperta di quel libro mi aveva dato l’impressione che rappresentasse un’occasione… un’opportunità. Così, senza perdere tempo, infilai il pigiama e seduto sul letto lo recuperai dalla tasca del giubbotto. Prima di aprirlo, ispirai profondamente, scostando il ciuffo castano dei capelli dai miei occhi che, per pochi secondi, vagarono inquieti per la stanza. Sfiorai con lo sguardo la scrivania ingombra di libri, i pc, fisso e portatile, la libreria di ferro stracolma e i vari poster sulla parete. Albert Einstein mi fissava perplesso e i gruppi rock sembravano sfidarmi. “Dai…aprilo. Non succederà niente…”Pensai per farmi coraggio. Mi alzai di scatto dal letto. Il piccolo specchio appeso vicino all’armadio mi restituì l’immagine riflessa di uno spilungone alto e robusto ma che in quel momento era paralizzato dalla paura. Poi mi decisi. Delicatamente, con la mano sinistra, girai la prima pagina già letta nel negozio dello zio Tommaso e sfogliai la seconda. Poi la terza. Fortunatamente non accadde niente. Nessun fenomeno. Nessuna strana manifestazione. Mi concentrai allora su quei fogli così antichi che riportavano piccoli paragrafi sempre scritti a mano e sempre in latino. Poi le date e gli schizzi. Più avanti, alcuni disegni molto interessanti. Mi accorsi che si ripeteva spesso il ritratto di un giovane uomo. Certo l’inchiostro di quell’epoca rimandava l’immagine in bianco e nero ma Thomas Vidal, sicuramente autore di quei disegni, lo raffigurava con un occhio sempre più scuro dell’altro. Certamente quel ragazzo, nella vita, doveva avere il colore delle iridi diverse. “No-pensai improvvisamente fiacco -qui mi serve il traduttore online e il vocabolario di latino…e non posso iniziare questa notte a tradurre sti’ papiri!” Ero troppo stanco e serviva concentrazione per capire le misteriose frasi delle pagine che stavo fissando. “Domani-conclusi-domani, quando saremo in biblioteca mi ci metto.” Chiusi il libro, lo rimisi nel giubbotto. Nello zaino riposi invece il computer portatile e il vocabolario di latino, e mi fiondai sotto il piumone. Stranamente, nonostante tutti gli eventi della giornata, piombai in un sonno profondo. Le emozioni della giornata mi avevano stremato e mi parve che la sveglia suonasse solo dopo pochi minuti da quando mi ero coricato. Io e Federico eravamo nella biblioteca del campus già da parecchi minuti. Erano appena scoccate le due del pomeriggio e la mattinata era stata lunga e impegnativa. Quando il professore di Informatica assegnò i soliti dieci esercizi da svolgere a casa, io ero già praticamente fuso. Dopo un panino veloce al bar dell’università, con Federico ci recammo in biblioteca, accaparrandoci una postazione tranquilla. Mentre aspettavo di collegarmi alla rete con il mio computer portatile, Federico esordì con la solita protesta: “ Dieci esercizi di informatica, in più quelli di analisi e il resto. Della formula di Taylor non ricordo niente…” Poi la solita conclusione sconsolata: “Qui se non mi metto a studiare seriamente, col cavolo che supererò gli esami a febbraio. Mi toccherà passare vacanze di Natale sui libri…”. Dopo aver aperto il testo di Analisi, la materia più difficile, mi apostrofò: “Luca…ma mi stai a sentire?” Mi fissò torvo e aveva ragione. Avevo ascoltato distrattamente le sue proteste, ma ero tutto preso nel riporre sul tavolo un quaderno, la penna e il vocabolario. Serviva per tradurre le pagine del libro che avrei tirato fuori dalla tasca del giubbotto solo quando Federico si sarebbe impegnato a risolvere gli esercizi di Analisi. Curioso com’era, non mi avrebbe dato tregua nel sapere tutta la storia se solo si fosse accorto dell’attenzione che avrei riservato verso l’antico volume piuttosto che verso il libro universitario. Così mormorai distrattamente una scusa e mi immersi momentaneamente sulle benedette formule di matematica. Pochi minuti dopo, senza che se ne accorgesse, feci scivolare l’antico libro sulle ginocchia e iniziai a tradurre le varie note. Molte parole erano sbiadite. Alcune coperte da macchie o l’inchiostro era scolorito. Ma sembrava che la storia fosse scritta a ritroso. Come se la prima pagina rappresentasse l’ultimo evento poi Thomas Vidal ricordasse fatti ed eventi e li appuntasse su quelle fragili superfici che seguivano la prima, cercando di dare un certo ordine agli eventi accaduti. I contadini avevano notato la bizzarria del forestiero Era molto difficile decifrare e dare un senso a concetti così astrusi. Il cielo cambiava…luci e ombre all’improvviso mutavano… qui subentravano nel racconto altre persone. Lo straniero appariva bizzarroparlava di erbe…fiori…e non rispondeva alle domande. Così, mentre procedevo nella traduzione, avevo capito il senso di quelle antiche pagine. Thomas Vidal era una specie di giudice…un inquisitore. Improvvisamente realizzai cos’era quel libretto. Il processo di un uomo che veniva da un paese che non era la Francia. Uno straniero, appunto. Alcuni contadini lo avevano visto tante volte nei boschi, intento a raccogliere erbe e fiori. Così, per i suoi strani vestiti, il suo linguaggio e il misterioso modo di fare, lo avevano segnalato al tribunale della santa inquisizione. Poi le pagine si fanno oscure e misteriose. E mi sembra troppo assurdo il significato delle frasi che stavo traducendo… I soldati portarono dei contenitori che lo straniero nascondeva in un vecchio casaleMulti laminarum ardentium, qui dedit off lux sua…Rimasi di sasso…metallo che emanava luce. Sembrava la descrizione di un apparecchio elettronico. Lo straniero è stato arrestato…arnesi che parlano…Così, l’autore riferiva di oggetti che riconoscevo essere elettronici. Ma nel 1700 non esisteva niente di simile! Com’era possibile? Per vari minuti traducevo sempre le stesse frasi. Ma poi avevo dovuto ammettere che la traduzione di quelle parole era corretta. L’autore si soffermava nell’accurata descrizione, grossolana per un uomo del 1700, di apparecchiature, strumenti e meccanismi assolutamente incompatibili con quel secolo. In più, a riprova della mia folle ipotesi, alcuni disegni confermavano, senza dubbio, i miei sospetti. Ma era troppo assurdo ammettere cosa era accaduto! In un barlume di ottusa convinzione, mi attaccavo ancora alle mie convinzioni. In seguito, procedendo con la traduzione, le pagine raccontavano che Thomas Vidal doveva essersi ammalato e il suo incarico assegnato ad un altro inquisitore. Gli ultimi fogli narrano qualcosa di atroce. Di incredibile. Lo straniero era stato messo al rogo, insieme ai suoi misteriosi oggetti che il calore aveva fatto scoppiare. Thomas Vidal, malato e sofferente aveva assistito all’esecuzione. Abbiamo condannato un uomo innocuo…ammetteva, suo malgrado…Nessuno ha capito la patria dello straniero
…e io in quell’istante, mi sono arreso all’evidenza. Dopo più di trecento anni, solo io, rappresentante dell’umanità, ho realizzato cos’era davvero successo. Solo io ne sono testimone. Quell’uomo, probabilmente uno scienziato, era un alieno…un alieno lasciato sulla terra, con le sue attrezzature, per studiare le specie botaniche. E noi, miseri e ignoranti terrestri, preda di paure e superstizioni l’abbiamo ucciso in nome della nostra giustizia…e della nostra religione. Ma soprattutto perché andava contro le nostre convinzioni, contro il nostro credo. Quell’essere sarà certamente stato strano e inconsueto e noi uomini abbiamo paura di tutto ciò che è diverso. “Così- riflettei logicamente- alla luce di ciò che era accaduto ad uno di loro, gli alieni come potevano ritornare sul nostro pianeta?” Domanda più che legittima. Noi uomini avevamo dato prova del nostro animo spietato, della nostra cattiveria e crudeltà. Forse Thomas Vidal aveva preso coscienza del suo imperdonabile sbaglio. Forse aveva realizzato l’insensibilità e la disumanità del sistema. Richiusi il libro e lo nascosi nello zaino. Mi vergognavo profondamente dell’operato dei miei simili. A mio parere, l’umanità aveva fallito e sicuramente, se gli alieni fossero arrivati sulla terra oggi, ci saremmo comportati esattamente come nel 1700. Federico, nel frattempo aveva finito e appariva molto soddisfatto: “ Sono riuscito a terminare gli esercizi di analisi.” Chiuse il quaderno e mi chiese: “Mi sembri sconvolto…stai bene?” Ispirai profondamente. Cosa rispondere? “Certo che sono sconvolto!-pensai- sono a conoscenza di un segreto che non ha precedenti, con tanto di prove e non so cosa fare.” Con una forza che non sapevo di possedere, gli sorrisi: “ Non ho niente Fede…magari un po’ si stanchezza.” Come un bravo scolaretto, ma in uno stato di profonda confusione mentale e marcata tachicardia, presi il libro di statistica: “Allora, quali esercizi dobbiamo fare?” Chiesi, aggrappandomi al dovere e allo studio. Avevo bisogno di tempo per riflettere…e per pensare. Così, mentre procedevamo fra mode, mediane e medie, presi una decisione che, negli anni avvenire, non ho mai rimpianto. Un gesto assurdo, inspiegabile ma, a mio parere, logico. Razionale. Avrei rimesso al suo posto il libro. Nessuno, nemmeno lo zio Tommaso, avrebbe dovuto sapere. Solo io sarei stato a conoscenza di ciò che era successo. Era meglio se l’umanità avesse continuato a credere nella sua verità…nelle sue logiche. Condividere una vergogna simile non era produttivo. A questo punto meglio l’ignoranza. La prova eclatante che la terra non era degna di accogliere una razza superiore, sarebbe stato un fardello che avrei portato solo io. Meglio lasciare agli uomini l’illusione e la consolazione dei propri principi. Per ognuno di noi, come anche per me che avevo fatto della matematica la mia religione e reso cieco verso qualsiasi altra alternativa, le proprie convinzioni e il proprio credo possono rappresentare l’obbiettivo finale della nostra esistenza…o peggio ancora, l’unico motivo per giustificarla.

lunedì 4 gennaio 2021

I PIEDI NELLA PALUDE

Tanto tempo fa esisteva un regno molto povero. I sovrani avevano sperperato ogni bene dello stato e avevano prosciugato anche i risparmi dei cittadini, imponendo tasse di ogni tipo tasse. E tutti gli abitanti erano caduti nella miseria e nella disperazione. Non c’era più cibo e le case, poco alla volta, si stavano distruggendo. Gli animali erano serviti a sfamare la popolazione ma ora non c’era rimasto più nulla. Le pentole erano vuote….i focolari spenti…e tutte le persone non avevano più nemmeno la forza di lavorare. Sembrava anche che il sole e il cielo fossero offuscati dalla desolazione e dalla povertà. Così tutti i cittadini decisero di mandare in esilio i sovrani responsabili della carestia e lo sconforto in quel regno. Appena i sovrani partirono, i capi delle famiglie che un tempo erano state ricche, volevano andare al potere per governare, poiché in loro la fame di potere era uguale alla fame di cibo. Ma la situazione era così grave che per una volta, l’assemblea dei cittadini decise di mettere al comando di quel regno un vecchio saggio, che da anni viveva solo, in una caverna. Era stato l’unico che non si era candidato per il comando. L’unico che non si era presentato per essere eletto…l’unico che non voleva il potere. In un sprazzo di raziocinio, i cittadini capirono che quel vecchio eremita era il solo che poteva salvare il regno dalla distruzione totale. Così il vecchio eremita fu nominato re. La corona che portava era di ottone, poiché il precedente sovrano aveva venduto quella d’oro per comprarsi degli splendidi cavalli bianchi. L’indomani, all’alba, il vecchio eremita uscì dal castello andato in rovina, e con la zappa al collo, si recò nel campo più vicino e iniziò a zappare. I consiglieri e i dignitari appena lo videro, si misero le mani in testa! Il re che zappa la terra! Incredibile! Inaudito! Vergognoso! Il vecchio saggio, interrompendo per un attimo di zappare, disse loro: “ Invece di star lì, con le mani in mano, perché non mi aiutate a dissodare questo campo? L’inverno è vicino, e prima delle piogge, dobbiamo piantare il grano…se non facciamo tutti la nostra parte, moriremo tutti di fame.” Così consiglieri, dignitari, nobili e politici, tutti con le zappe in mano, iniziarono a preparare i campi per la semina. Il re, vecchio e stanco, guidava tutti in quel pesante lavoro, e anche se queste persone non avevano mai zappato in vita loro, seguirono l’esempio del sovrano. Se lui zappava, anche gli altri dovevano farlo. Dopo la semina, il vecchio eremita si recò al fiume e iniziò a pescare…così anche i nobili e i dignitari. I cittadini, a bocca aperta, videro i membri delle ex famiglie ricche del regno, pescare, pulire ed essiccare il pesce. Chiesero allora al re la spiegazione…e l’eremita rispose:” Se non facciamo tutti la nostra parte, moriremo tutti di fame.” Così anche i cittadini aiutarono nella pesca, e furono loro a portare il pesce nel regno vicino per poterlo vendere. Con il denaro ricavato, il re comprò tanto cotone e lo consegnò a tutte le famiglie del regno affinché lo filassero e così tutti i cittadini, nobili e non, iniziarono il lavoro. I figli di ogni famiglia, vedendo il padre e la madre che filavano il cotone, facendone stoffe colorate, chiesero loro il motivo….e ogni genitore disse al figlio:” Se non facciamo tutti la nostra parte, moriremo tutti di fame:” Così ogni ragazzo aiutò a confezionare abiti di tutti i tipi, decorandoli con la magnifica fantasia della gioventù. Gli abiti furono venduti, e poco alla volta, il regno uscì fuori dalla miseria e dalla fame. Tutti lavoravano…tutti contribuivano al benessere di tutti…gli alberghi, rinnovati, ospitarono di nuovo i turisti…i negozi ricominciarono a vendere e il denaro circolava liberamente. Ogni persona di quel regno era devoto al vecchio eremita, e tutti lo amavano e rispettavano. Nella sua vita da re non aveva voluto denaro per sé ma il benessere per la popolazione del regno che aveva dovuto salvare. Qualche anno dopo, per il vecchio eremita si avvicinò la fine, ma il saggio re non aveva paura. La morte non era un demone ma un angelo misericordioso. Tutti i cittadini vegliarono le sue ultime ore, dentro e fuori il castello. Le ultime parole del re furono per la popolazione…raccomandò loro di imparare da ciò che avevano dovuto affrontare. Le sue ultime parole furono: “ La fame e la miseria sono frutto dell’ingordigia dell’uomo. La sete di denaro e di potere è una palude profonda …ed è facile camminarci dentro….uscirne è impossibile.(
Racconto di Lucina Cuccio)

domenica 15 novembre 2020

L'ETERNO INDECISO

Di tutti gli elfi del bosco, Osvaldo era il più strano. Oltre ad essere pigro e svogliato, la strana creatura era eternamente indecisa. Per giorni e giorni si gingillava dubbioso fra portare il vento autunnale fra i rami del querceto o ingiallire le foglie delle viti, l’elfo si perdeva in mille congetture e problemi senza mai concludere niente. “E se il vento che richiamo è troppo forte?- Si chiedeva titubante- o se il giallo delle foglie risultasse troppo spento e opaco?’ Si domandava ancor più angustiato. Così seduto su un sasso si perdeva in mille dubbi e supposizioni, mentre gli altri elfi del bosco protestavano perché la stagione si era fermata. Ogni mattina, Gervasio, il capo-elfo gli chiedeva, torvo e preoccupato: “ Allora Osvaldo…hai già sparso la rugiada sull’erba?” E come spesso accadeva, l’elfo indeciso e pigro, balzava in piedi, sgomento e si precipitava sui prati, dove le perle lucenti di brina, venivano effuse disordinatamente e senza grazia. La comunità dei suoi pari non ne poteva più. I lavori venivano fatti in ritardo, in fretta e con mille difetti. Osvaldo riceveva mille rimproveri, sia dai suoi genitori che dai suoi fratelli ma soprattutto dai responsabili del settore. Tutti si chiedevano la ragione del suo comportamento. Bisognava mettergli accanto una compagna che lo aiutasse e lo esortasse a svolgere bene le sue mansioni. Qualcuno che lo guidasse, con dolcezza ma anche con fermezza. Così i genitori e Gervasio, il capo-elfo, si riunirono in una fredda notte nevosa, all’interno di un tronco di albero per decidere chi proporre alla sua attenzione. Una graziosa e simpatica elfa che gli fosse di aiuto e sostegno. Delle tante candidate che furono chiamate, accettarono la proposta di matrimonio due fanciulle. Primula, la più ricca elfa del bosco, la cui famiglia possedeva centinaia di alberi da frutto, ruscelli e interi cespugli di more, tantissime case e servitori ed era una creatura intelligente e arguta, ma purtroppo non molto attraente… Mirtilla invece, era povera e un po’ stupida, ma possedeva fascino e bellezza. Osvaldo, appena i genitori gli comunicarono la notizia che doveva prendere moglie, cadde in una profonda prostrazione…La decisione di sposarsi lo solleticava parecchio, ma chi scegliere fra le due candidate? Entrambe avevano sia aspetti positivi che negativi. Per un elfo, cosa doveva contare di più…la ricchezza o la bellezza? E cos’era peggio…la bruttezza o la stupidità? Per settimane, indeciso, passava le notti fra mille dubbi e perplessità e la mattina, esitante, Osvaldo chiedeva ai genitori e a Gervasio, più tempo per riflettere. La scelta fra le due future spose doveva essere ponderata e convinta e il tempo passava. Primula e Mirtilla però iniziarono ad agitarsi, a litigare fra loro e nel bosco crebbe la tensione e il malcontento. L’inverno trascorse triste e melanconico. Il lavoro degli elfi ne risentì. La stagione della primavera non era pronta. Il profumo e il colore dei fiori non era pertinente…le foglioline appena nate non erano abbastanza morbide…la neve era ancora ghiacciata. Fra i tronchi e i cespugli del bosco, risuonava l’eco delle discussioni di Primula e Mirtilla, i rimproveri dei genitori di Osvaldo e i rimbrotti di Gervasio per il mancato lavoro dell’elfo indeciso. Alla fine, tutti stufi ed esasperati per questa situazione, decisero di lasciare cuocere Osvaldo nel proprio brodo, disinteressandosi di lui e dei suoi problemi. Primula e Mirtilla convolarono a nozze con altri due elfi, più decisi e intraprendenti e Gervasio affidò al titubante folletto, solo compiti noiosi e monotoni, sicché l’eterno indeciso passò il resto della sua vita, scontento e insoddisfatto.

mercoledì 19 agosto 2020

LE PAROLE DEGLI ALBERI

Tanto tempo fa, in una regione sperduta del Nord Europa, giunse uno studioso di erbe medicinali che nonostante la giovane età, era diventato famoso per i miracolosi medicamenti da lui preparati. Per molti mesi aveva perlustrato varie zone di quello Stato in cerca di piante e arbusti che potessero migliorare i suoi balsami. Ma quel viaggio per lui, rappresentava un momento di pausa, oltre che di lavoro. La fama e il successo lo avevano reso molto popolare e ricercato, così la sua giovane moglie era diventata gelosa e aggressiva. Le provocanti e avvenenti clienti, rappresentavano potenziali pericoli per la loro unione, così la consorte lo controllava, lo spiava perfino quando preparava i vari rimedi medici. La donna era una presenza costante e ossessiva che portava la coppia a continue litigate. E spesso le sere, lo studioso le passava nel laboratorio, esausto per l’ennesima scenata e la moglie a piangere nel letto. Così, qualche mese prima, l’uomo aveva deciso di fare un viaggio alla ricerca di nuove erbe…Ma in realtà desiderava anche allontanarsi dalla moglie e dalle sue scenate di gelosia. Aveva sentito parlare di una regione isolata ma molto ricca di vegetali pregiati e anche molto ricercati così, nonostante le suppliche e le minacce della sposa, era partito lo stesso alla volta di quella zona così singolare. Le settimane erano volate, e lo studioso, nonostante la stanchezza del viaggio, si sentiva già sollevato per non dover più subire altre scenate di gelosia. La consorte gli mancava ma era anche contento della pace ritrovata. Così infine, giunse nella famosa regione e dopo aver girovagato un bel po’ per monti e valli arrivò a destinazione. Quel giorno aveva attraversato vari avvallamenti per giungere in quella zona montuosa, ricca di boschi e foreste. Il pomeriggio stava volgendo al termine e lo studioso cercò le indicazioni per trovare un paese dove certamente avrebbe potuto pernottare. Per arrivare al villaggio, un piccolo borgo medievale, doveva attraversare un fitto bosco di pini e salici. Sul versante orientale si trovava una strada sterrata che si ricongiungeva, attraversando la selva, a quella principale. George Cecil Browne, stanco per aver camminato molto a lungo in quella fredda giornata autunnale, vide l’insegna lignea che indicava la località designata, così si addentrò nel profondo e impenetrabile bosco per raggiungerla. Ogni passo era difficile per i folti cespugli, grovigli di rami e foglie secche, alberi caduti e discese poco visibili. Il cammino lento permise così a George di osservare, con attenzione, la folta vegetazione e gli ultimi fiori che stanchi tentavano di sopravvivere nella macchia intricata. Pallidi e rari raggi di sole penetravano attraverso quel tetto frondoso di rami e foglie prossime a cadere. “ Ma guarda! –esclamò lo studioso-Achillea e Tarassaco!” E subito si fermò a raccogliere i preziosi vegetali, stando attendo a non rovinare le piante da cui aveva preso qualche foglia. Così, valutando l’area interessante, si guardò intorno nella speranza di trovarne altre. Perlustrando con occhi attenti il terreno, sfiorò con lo sguardo la corteccia di un albero e rimase a bocca aperta. Si avvicinò sempre di più, mettendo a fuoco quelle che riconobbe come alcune lettere dell’alfabeto…Ma ciò che di veramente bizzarro sconvolse l’animo dello studioso fu che le lettere, che formavano una frase di senso compiuto, non erano intagliate sulla superficie del tronco, ma bensì sporgevano all’esterno. “Non è possibile-continuava a ripetere l’uomo- come fa una pianta a produrre una simile alterazione della corteccia?” La frase, con un’elegante scrittura in corsivo, recitava: “Non è un buon affare. Devo parlare di nuovo con il ministro degli esteri.” E mentre il pover’uomo trasecolava, spostando lo sguardo verso l’albero accanto, si accorse che anche quello aveva una frase sulla corteccia che recitava : “Questa cena è troppo noiosa!” E così più lo scienziato perlustrava il bosco, migliaia e migliaia di frasi emergevano dal tronco degli alberi, ad altezza d’uomo. Ma anche verso il basso e fra i rami più alti. I messaggi non si potevano contare. George incuriosito, scrutava gli alberi, anche i più lontani, trovando sempre molte frasi e realizzando che chi avesse voluto leggerle tutte, doveva faticare un bel po’! Il ricercatore, dopo varie ore, esausto, lasciò il bosco e raggiunse la via principale che portava al paese. Ma nel percorrerla, in lontananza, su una collina solitaria che si stagliava sul cielo blu cobalto dove le prime stelle brillavano discrete, sorpassò le rovine di un vecchio castello ormai diroccato. Dalla cinta muraria, emergevano le torri e la pietra grigia dei muri merlati era ricoperta da vecchi rampicanti, in parte secchi. Delle antiche finestre bifore non rimanevano che pochi vetri policromi. Un tempo il castello doveva apparire come una splendida pietra di ghiaccio lucente ma ora sembrava solo un ramo scheletrico che si ergeva, prostrato, dal solitario promontorio. Lo studioso, in poco tempo, arrivò presso l’unica locanda del paese. Un edificio basso, dai mattoni rossi, con grandi finestre rettangolari e un grande ingresso ad arco. Un piacevole tepore accolse l’uomo quando entrò nella sala principale dove, vari tavoli, erano disposti non lontani da un grande camino scoppiettante. L’aria fredda della sera e l’umido del bosco stentarono ad andarsene dal mantello che George posò su una delle seggiole del tavolo libero dove si accomodò. Subito lo raggiunse l’oste con una brocca di vino che versò immediatamente nel bicchiere, dando per scontato che lo studioso l’avesse richiesto. “Oltre a cenare, potrei avere una camera per stanotte?” Chiese il viaggiatore, sorseggiando il liquido violaceo e analizzando con sguardo leggero, i vari commensali che, con il loro allegro chiacchiericcio, allietavano l’atmosfera e l’ambiente dove il personale di sala serviva velocemente i vari clienti. Contadini e mercanti formavano un’allegra compagnia in quel luogo che ispirava relax e desiderio di divertirsi. “Naturalmente”- rispose il padrone della locanda, con orgoglio, lisciandosi i folti baffi e aggiunse: “ Le daremo la camera ad ovest che di solito è molto calda. Per il desinare, gradirebbe il nostro stufato di carne e il dolce di mele?” Lo studioso assentì, godendosi quel caldo consolante e sistemandosi più comodamente sulla sedia. Era un momento felice della giornata, per lui che gioiva soprattutto quando riusciva a trovare qualche rara pianta erbacea per i suoi medicamenti. L’oste gli servì, poco dopo, un abbondante porzione di stufato, con contorno di varie verdure, una fragrante pagnotta di pane di casa appena sfornata, ancora una caraffa di vino e una fetta di crostata di mele. George lentamente, si gustò la cena, senza lasciare avanzi e rilassato e soddisfatto, mentre l’oste sparecchiava, abbandonò il rituale riserbo, chiedendogli: “Mi scusi, ma devo proprio chiederle un’informazione. Avete fatto studiare lo strano fenomeno botanico a cui sono soggetti gli alberi del bosco?” Il padrone della locanda si bloccò, con il piatto a mezz’aria e inclinando la testa rispose: “Ma di quale fenomeno sta parlando?” Lo studioso pensava fosse il vino ad ottenebrargli momentaneamente il senso spiccato di osservazione, ma avrebbe giurato che l’oste fosse impallidito per la domanda, per poi immediatamente, riprendere la precedente compostezza. “Ma sì- continuò lo studioso- le parole degli alberi che emergono dalla corteccia. Sono un esperto di botanica e sono rimasto sconvolto alla vista di un simile fenomeno. Mai visto niente del genere!” L’oste rimase in silenzio per qualche secondo, quasi stesse valutando il tipo di risposta da dargli. Poi sembrò decidere e George dovette avvicinarsi di più per riuscire a sentire tutto il racconto che il padrone della locanda, sottovoce, gli svelò, con l’enfasi della rivelazione di un grande e oscuro segreto. “Posso sedermi accanto a lei?” Chiese il baffuto albergatore, indicando un posto libero. “Ma certo!” Gli rispose l’ospite sempre più curioso. Era certo che la richiesta di accomodarsi accanto a lui fosse il preludio di un lungo e interessante racconto. “Dunque-iniziò l’oste, sistemandosi più comodamente-ciò che ha osservato nel bosco, ed esattamente le parole sulla corteccia degli alberi, non sono un fenomeno botanico, come lei poc’anzi l’ha definito. Ma un sortilegio…Un incantesimo di una strega malvagia.” Lo studioso non scoppiò a ridere per miracolo e soffocò l’impulso in un altro sorso di vino. “Un sortilegio?” Gli fece eco, sorridendo suo malgrado. Si sarebbe aspettato una spiegazione più realistica ma una simile risposta così, sparata a bruciapelo, lo divertì decisamente. Passarono alcuni minuti prima che il locandiere, quasi rassegnato, replicò: “Lo so, nessuno ci crede. Molti viaggiatori hanno attraversato il bosco, poi giunti qui, esattamente come lei, hanno chiesto del mistero degli alberi e tutti non hanno creduto subito alla spiegazione che io o gli altri abitanti del villaggio abbiamo dato.” George non voleva offendere l’oste che si era dimostrato così gentile e tentò di rimediare:” Mi scusi, ma sa, trovo davvero difficile credere che le parole sulla corteccia degli alberi siano frutto di una magia. Sono un uomo molto razionale e credo solo nei fenomeni che si possono studiare.” Mentre i due uomini parlavano, in maniera quasi impercettibile, il rumore della sala stava diminuendo. Gli avventori continuavano a mangiare e divertirsi ma l’ultimo arrivato era sicuro che molti di loro avevano drizzato le orecchie per non perdersi nemmeno una sillaba della loro conversazione. “Naturalmente-mormorò il padrone della locanda-ma abbia pazienza e vedrà che quando saprà tutta la storia, ciò che ha visto nel bosco avrà per lei un senso.” George non proferì parola ma, poggiando bene le spalle sullo schienale, si apprestò a sentire quello che per lui era un racconto già in partenza piuttosto fantomatico. Il locandiere, quasi sviando lo sguardo dallo studioso e trovando molto interessante la piega della tovaglia che ricopriva il tavola, sospirando, proseguì: Pochi secoli fa, il castello che lei ha visto sicuramente lungo la strada per arrivare al villaggio, era proprietà di un’antica e nobile casata reale. E grandi furono i festeggiamenti per le nozze della principessa, unica erede con un principe di un potente Stato vicino. La giovane sposa era molto innamorata del marito la cui fama di bellezza aveva attraversato monti e valichi. A memoria d’uomo, nessuno aveva mai visto un giovane così incantevole. Il nobile aveva occhi più azzurri e profondi del cielo, capelli neri e lucenti e un corpo di grande potenza e prestanza. Quando il principe percorreva una via a piedi o a cavallo, le persone si fermavano a contemplarlo. Ogni suddito rimaneva incantato e perso nel suo fascino bruciante. Una statua greca dalle sembianze umane. Purtroppo per la giovane principessa, tanta avvenenza rappresentò una fonte di perenne gelosia. Si narra che, subito dopo il matrimonio, iniziarono i litigi e le scenate.” A questo punto, George si sentì quasi il protagonista di quella vicenda. Tante erano le correlazioni fra i suoi problemi coniugali e quelli del novello sposo. Il locandiere continuò: “La giovane principessa era ossessionata dal marito. Tutto il giorno lo seguiva di nascosto. Nel corso delle battute di caccia, camuffandosi da servitore, durante le riunioni con i vari dignitari, nascondendosi dietro le tende e perfino nei viaggi di affari. Lo spiava continuamente e frugava fra le sue cose. Apriva perfino la sua corrispondenza, ma non era mai soddisfatta. Sospettava di tutto e di tutti. Dal canto suo si racconta che il principe amasse molto la giovane consorte… Ma era frustrato da un simile assedio. Si sentiva perseguitato e ossessionato dalla gelosia della moglie che non accennava a diminuire. E così il matrimonio era costellato da scenate, pianti e liti furibonde. Un giorno, la principessa, divorata ancora più del solito, dalla febbre di sapere tutto riguardo al marito, si recò da una strega molto potente. Quel giorno aveva toccato il fondo della propria frustrazione. Chiese alla strega un incantesimo. Una magia che facesse apparire in un libro dalle pagine bianche, sotto forma di frasi scritte, i pensieri del marito. Così lei avrebbe potuto leggerli e conoscere tutto. Anche i pensieri più proibiti e reconditi dello sposo. La strega possedeva un simile sortilegio e chiese alla giovane principessa una grande quantità d’oro. Ma il regno non ne possedeva tanto, così loscamente, per raggiungere la misura richiesta, la giovane fece ricoprire con sottili lamine d’oro, varie coppe e oggetti di ferro e rame. Purtroppo la fattucchiera si accorse dell’inganno e volle punire la principessa. Concesse sì la magia ma i pensieri del principe non comparirono scritti nel libro ma sulla corteccia degli alberi del bosco. E solo la principessa sarebbe stata in grado di vederli e leggerli. Così da quel giorno, la giovane sposa, trafelata, correva di giorno e di notte nel bosco per leggere i pensieri del marito. Nessuno seppe del patto fra la strega e la fanciulla e i sudditi non capirono perché la giovane donna, sotto la neve o la mattina all’alba, o nelle ore più strane, si precipitasse verso il bosco, si arrampicasse sugli alberi, o vi girasse intorno alla ricerca di chissà cosa. Pian piano la salute della principessa andò deteriorandosi e morì pochi anni dopo, seguita dal marito reso infelice e disperato da quell’assurda situazione. Non lasciarono eredi e il regno senza oro, andò in rovina. Solo pochi giorni dopo la morte dell’infelice sposa, i sudditi si accorsero delle frasi che erano apparse sulla corteccia degli alberi. E capirono. Il resto della storia è leggenda.” Il locandiere si accorse che il racconto aveva molto turbato il giovane studioso, così lo accompagnò al piano superiore dove lo fece accomodare nella stanza in cui avrebbe passato la notte. George era rimasto molto colpito da quella storia e dalla sorte della giovane principessa. Provava pietà per tutta quella faccenda e compassione per la nobile ragazza. Forse il marito avrebbe dovuto rassicurarla di più, così da evitare che lei si rivolgesse alla strega, origine di tutte le sventure. Forse il principe, a causa dell’insicurezza e quindi, della gelosia della consorte, si spazientiva e si innervosiva per niente, peggiorando la situazione. Quella notte furono molte le considerazioni che fece lo studioso. Tante similitudini lo portarono ad un attento e scrupoloso esame di sé stesso, del suo matrimonio e del suo operato. Partire e lasciare a casa la moglie gelosa gli era sembrata un’ottima soluzione, ma in realtà, ora si sentiva solo un vile codardo. Aveva scelto la strada più facile. Aveva preferito scappare piuttosto che trovare una soluzione. Risolvere la questione. Così, l’indomani, mosso da un nuovo spirito di responsabilità e saggezza, pagò il conto della locanda e partì per far ritorno a casa. Avrebbe chiarito tutto con la moglie, ripromettendosi di essere con lei, più paziente e di renderla partecipe del suo lavoro e dei suoi affari. L’avrebbe continuamente rassicurata riguardo il suo affetto e la sua devozione così da dissipare ogni gelosia. La felicità del suo focolare domestico dipendeva da come lo studioso, ma anche la moglie, avrebbero affrontato e risolto ogni sciocco dubbio o eventuale problema, poiché il segreto di un matrimonio, e ora ne era certo, stava nella forza e nella volontà dei coniugi di sorreggere, in una strada in salita, l’un l’altro. Immagine e racconto di Lucina Cuccio