mercoledì 22 luglio 2020

NON SOLO UN TOPO

Non solo un topo
Il notaio Rana Bruna era l’animale più ricco del bosco. Possedeva varie tane in affitto, lo sfruttamento degli alberi di ghiande, dei cespugli di bacche e la concessione del ruscello principale. Tanti abitanti lavoravano per lui, nei magazzini accumulando provviste e curando le sue piante. Inoltre lo scaltro notaio si faceva ben pagare ogni atto che redigeva così che tanta ricchezza e potere lo avevano reso un partito molto appetibile. Rana Bruna viveva in una splendida tana, piena di gallerie e camere secondarie che il suo fido maggiordomo, il topo Muso Bianco, doveva tenere pulite. Caldo e confortevole era il lussuoso salotto con un grande camino sempre acceso e comode poltrone in pelle stile inglese. Il soggiorno con argenterie e arazzi pregiati alle pareti e una lunga tavola sempre imbandita, il sollazzo quotidiano del famoso professionista. Camere da letto e diverse dispense piene di provviste erano distribuite lungo tutta l’area. Inoltre una moderna cucina, attrezzata di tutto punto, sogno di ogni casalinga completava la ricca residenza, comodo regno del “Padrone”. E per le sue fantasie, un confortevole bagno con la vasca con i piedini a zampa di leone. Tutto quel benessere per un animale solo e il suo servitore. Gli abitanti del bosco bramavano tanta opulenza e quotidianamente adulavano la ricca rana. Tutte le mamme con figlie da sposare gli presentavano regolarmente le proprie candidate ad ogni occasione. “Caro notaio” sclamava la signora Raganella di turno- “lei è mia figlia Giada Lucente, appena uscita dal collegio. Desiderava tanto conoscerla! Pensi che si è classificata prima nella gara della “Polenta migliore.” Inoltre balla e canta come un usignolo!” Così ogni giorno decine di genitrici organizzavano sfilate di figlie nubili e desiderose di diventare la signora Rana Bruna mentre scaltri corvi e tortore ambiziose tentavano di far investire le varie ricchezze dell’astuto plutocrate, nelle loro banche. Ma Rana Bruna non si fidava di nessuno. Più gli animali del bosco lo cercavano, più lui si defilava, facendosi negare a casa o cambiando strada se all’orizzonte si delineavano le sagome di qualche gruppetto di future suocere o nuovi soci. Se c’era da riscuotere o fare un atto notarile, Rana Bruna era puntuale all’appuntamento. Ma per il resto, il maggiordomo, con diplomazia, doveva giustificare il suo ricco padrone e proteggerlo dagli attacchi degli assetati di denaro. Da tanti anni, quindi il topo era un prezioso tuttofare e cucinare, pulire, fare la spesa e occuparsi dei vari scocciatori erano le sue preziose mansioni. Muso Bianco si era guadagnato la fiducia e il rispetto, non commettendo mai un errore e brillando sempre per efficienza e puntualità. Il rapporto fra i due animali era particolare. Non so chi dei due fosse più altero e orgoglioso… Nessun cameratismo. Nessun affetto…solo la fredda routine di una relazione di lavoro, ma basata su una profonda stima e devozione. Il notaio confidava solo sul suo topo, piccola e insignificante bestiola. Muso Bianco infatti era stato assunto molto giovane in quella grande casa ma per pura combinazione. Ultimo di una numerosa nidiata, era stato allontanato dalla sua povera famiglia che non riusciva a sfamare tutti i figli. Così appena adolescente, aveva fatto mille umili lavoretti, patito la fame e il freddo, finché un giorno, mentre lavorava sotto un sole cocente e spietato, trasportando un carico di legna più grande di sé stesso, era stato notato da Rana Bruna, fresco vincitore dell’ambito concorso notarile. In quel lontano giorno, il povero topo, esausto e assetato si accaniva contro il caldo e la fatica, volendo però ultimare l’ingrato compito, sbuffando e soffrendo. Proprio quella tenacia e ostinazione, colpirono il giovane notaio che decise in quell’istante di assumerlo. Quel topolino magro, sciupato, piccolo e insignificante conosceva il senso del lavoro. Possedeva una ferrea volontà e non aveva paura della fatica. Questi furono i pensieri suscitati nella mente della giovane rana alla vista dell’accanimento del povero topo sulla pesante catasta di legna che doveva spostare. Così quando Muso Bianco, quel lontano giorno, dal cielo si vide farsi una proposta così vantaggiosa, non ci pensò due volte ad accettare. E fu così che divenne l’unico fidato ma indispensabile collaboratore del notaio. Molte stagioni passarono e i due animali, molto diversi per natura e ceto sociale, avevano stabilito un solido e fortunato sodalizio. Gli altri abitanti del bosco al passaggio di Rana Bruna, lo osannavano, glorificavano e incensavano, mentre il dipendente non si sbilanciava mai con il suo padrone. Ad ogni buon affare concluso, il topo sembrava rimanere indifferente. Rana Bruna però sapeva che godeva dell’ammirazione e della lode del suo servitore. Era sì l’animale più ricco e potente del bosco ma il suo impero economico era stato costruito grazie alla sua intelligenza e ingegno. E quando sentiva gli smielati complimenti dei suoi concittadini, il notaio rimaneva gentilmente impassibile come anche Muso Bianco. Entrambi distanti e lontani da tanta falsità, lavoratori indefessi, convinti del dovere e della moderata esistenza, sapevano che tanto affetto…Tanta adulazione era solo la mira alle ricchezze accumulate. Inoltre ormai Rana Bruna aveva una certa età e non era mai stato né bello né affascinate. Schivo e riservato di carattere, preferiva andare a letto presto per leggere libri gialli. Non gli piacevano le feste e prediligeva fare il pisolino dopo pranzo che riunirsi nelle tane dei vari suoi compaesani per bere vino e giocare a carte. “Padrone-mormorava flemmatico, di quando in quando, il maggiordomo- Madam Ghiro e sua figlia sono alla porta e chiedono di essere ricevute.” Solitamente due verdognoli sfere contrariate, sguardo notoriamente infastidito, emergevano da grossi libri rilegati in cuoio come la poltrona su cui sedeva. O da complicati documenti, o peggio ancora, da intriganti romanzi. Per l’attempata rana la biblioteca era uno dei luoghi preferiti, sia per lavorare che per riposarsi e quando non vi erano atti notarili da concludere o affitti da riscuotere, il suo tempo lo dedicava al prezioso riposo e odiava essere interrotto. Con un sospiro seccato di solito rispondeva: “Riferisci che sono molto occupato con una pratica e ci incontreremo più tardi sulla grossa pietra vicino il cespuglio di more.” E ogni volta che il fedele maggiordomo lasciava la biblioteca per riferire il messaggio, un mormorio compiaciuto si aggiungeva frusciante da dietro il libro: “Tanto per quell’ora pioverà certamente…Avverto qualche doloretto alla zampa sinistra che preannuncia sempre temporali-oppure-ho un appuntamento di lavoro già fissato.” Così si rituffava nelle antiche pagine ingiallite di un arcaico volume che raccontava la storia del bosco e dei primi pionieri che avevano fondato quella particolare comunità, oppure su qualche particolare cavillo di un fruttuoso contratto d’affitto. Nell’ora prima del tramonto, come al solito, Muso Bianco sbucava fuori dalla cucina con un grande grembiule blu notte, chiedendo compito: “Padrone, gradisce zuppa di mirtilli oppure funghi trifolati?” Incrociando le lunghe dita verdi sul panciotto scozzese, la rana mollemente spaparanzata sulla poltrona davanti al fuoco scoppiettante rispondeva compiaciuto: “Che ne dici di spezzatino con le patate?” “Naturalmente padrone.” Era l’immancabile risposta del servitore. E spesso, durante il corso della giornata il fedele sottoposto proponeva: “Signor notaio…le pantofole. Le ho riscaldate vicino al fuoco” Oppure. “Signor notaio, il bagno è pronto. Si affretti perché l’acqua si raffredda.” E ancora. “Padrone, sta nevicando. Vado io a riscuotere gli affitti.” E cortesemente… “Signor Notaio, le ho prenotato io la visita medica per i suoi reumatismi.” Così passavano gli anni e gli abitanti del bosco invidiavano profondamente il topo, unico animale che aveva l’ambito contatto personale con il ricco notaio. Muso Bianco conosceva praticamente tutti gli affari del padrone, le ricchezze e i segreti e i concittadini cominciarono a pensare che l’astuto maggiordomo si era guadagnato la fiducia del suo datore di lavoro solo per diventarne l’erede. “Tanta fiducia e solerzia è solo interessata!” pensavano maligni. Così alcune vecchie matrone organizzarono un piano malvagio contro il povero servitore, per smascherarlo, farlo licenziare e finalmente isolare il notaio. Rimasto solo, Rana Bruna sarebbe stato vulnerabile e influenzabile. Avrebbe avuto bisogno di qualcuno che lo accudisse e certamente avrebbe cercato compagnia. Così le losche cospiratrici sarebbero state pronte a riproporre le loro figlie. Una di loro doveva riuscire a sposare l’agiato notaio! Inoltre c’era da sperare che Rana Bruna vivesse ancora poco…Era un animale di una certa età e alla sua dipartita, la moglie sarebbe rimasta l’unica padrona di tutte quelle immense ricchezze. La futura consorte avrebbe dovuto sopportare, non per molto, la vita matrimoniale. Una matura, noiosa e untuosa rana era un bel sacrificio da patire! Ma sarebbe stato presto ripagato con immobili e denaro. Così la Signora Raganella e Madam Ghiro quando pagarono l’affitto, contarono davanti al topo il denaro, e con uno stratagemma, ne sottrassero una parte. Muso Bianco nel consegnare gli affitti, venne subito chiamato dal notaio piuttosto agitato. “Mi sono accorto che manca una parte dei soldi che hai riscosso.” Il Maggiordomo, per la prima volta, perse l’abituale flemma ed esclamò: “Padrone…È impossibile. Ho contato personalmente l’affitto!” Rana Bruna, pensieroso e contrariato, mormorò:” Allora una parte dei soldi ti sarà caduta per strada. La prossima volta stai più attento! “Il maggiordomo, afflitto e desolato, finite le incombenze domestiche, uscì di notte dalla tana e ripercorse tante volte la strada che aveva fatto, cercando ovunque il denaro che non trovò mai. “Inconcepibile un simile errore. Non era mai successo!” Continuava a pensare il topo, nei giorni seguenti. Non si dava pace e si sentiva terribilmente in colpa. In qualche maniera avvertiva che il suo padrone era rimasto deluso dall’accaduto. Qualche giorno dopo, Muso Bianco aveva appena finito di cucinare la zuppa, spento sotto la pentola e uscito a controllare i cespugli di bacche. Madam Ghiro che lo aveva spiato tutta la mattina, vedendolo uscire, aveva aspettato qualche minuto. Poi era riuscita ad aprire la porta della tana del notaio e, silenziosamente, si era diretta in cucina per riaccendere il fuoco sotto la pentola per lasciarla bollire. Qualche minuto dopo, il padrone, rientrando, fu accolto da un fumo nero, denso e pungente. Spaventato si era precipitato in cucina dove aveva trovato la pentola della zuppa, bruciata e annerita che fumava pericolosamente. Ancora pochi attimi e tutto sarebbe andato a fuoco. La sua amata tana aveva corso un grave pericolo. Così, al rientro, Rana Bruna assalì come un leone, l’ignaro servitore che rimase attonito e pietrificato sentendo ciò che era successo. Il povero topo non si capacitava e continuava inutilmente a giustificarsi. Seguitava a giurare e spergiurare che era uscito solo dopo aver spento il fuoco. Che era impossibile che si fosse riacceso da solo. “Padrone-supplicava disperato- le assicuro che avevo controllato! La zuppa era cotta e la brace estinta!” Ma stavolta il notaio, sconvolto e scioccato dal pericolo corso e fuori di sé dal terrore che la sua amata tana poteva trasformarsi in un ammasso di macerie fumanti, aveva deciso di mandar via in suo fedele servitore. Ottenebrato dalle passioni, Rana Bruna aveva preso una decisione drastica e irremovibile. Non sentì ragioni e pretese che il topo andasse via subito. Muso Bianco al sentire quelle terribili parole si sentì male e solo l’orgoglio gli impedì di svenire. Chinò il capo e con le lacrime agli occhi, il cuore pesante e un rogo ardente nel petto, non proferì parola e con un gesto di assenso del capo, prese atto della decisione. Conosceva bene il notaio e sapeva che non avrebbe cambiato idea. Tanti anni di assoluta dedizione, di lavoro devoto spazzati via. Era stato il pilastro di quella tana, il braccio destro del suo padrone e l’invisibile ma rassicurante presenza di quelle sfarzose mura. E ora, reietto, mogio e disperato si recò nella camera dove dormiva per raccogliere le sue cose e lasciare per sempre, quella ricca abitazione che era stata la sua vera casa per tanti anni. Ma mentre faceva le valigie, rifletté su ciò che era successo. Piano piano la stranezza e l’ambiguità di quei due eventi lo lasciarono inquieto e sospettoso. Prima il denaro degli affitti, che era certo di non aver perso, e che invece mancavano. Poi, subito dopo, il fuoco in cucina che inspiegabilmente si riaccendeva…E più ci pensava, più c’era qualche cosa che non quadrava. Se Muso Bianco possedeva una qualità era quella della diligenza. Nessuno era più preciso e scrupoloso di lui! Si era guadagnato la fiducia del suo padrone perché giorno dopo giorno, in tutti quegli anni, gli aveva dimostrato onestà, diligenza e zelo. Poi due eventi disastrosi separati da pochi giorni. Qui qualcosa non andava! Qualcuno tramava…Qualcuno voleva screditarlo davanti agli occhi del suo padrone. Così prima di lasciare l’amata tana, avvertì il suo ex datore di lavoro dei suoi sospetti:” Padrone- mormorò con la voce rotta dall’emozione- le assicuro che avevo lasciato la cucina in sicurezza e la certezza di quel che dico mi ha convinto che qualcosa di turpe mi è stato fatto. Qualcuno vuole allontanarmi dalla sua dimora e ci è riuscito. Stia attento a chi, nei prossimi giorni, si avvicinerà a lei. Scommetto che è il responsabile di ciò che è successo, e non ha di certo oneste intenzioni!” Detto questo andò via, sotto una pioggia scrosciante, lasciando il notaio interdetto e confuso. Chiudendo la porta, Rana Bruna ebbe la sensazione di aver commesso un grave sbaglio. Un errore che lo avrebbe fatto soffrire. E infatti, nei giorni seguenti, si sentì smarrito e combattuto. Le ultime parole del servitore, lo continuavano a tormentare, mettendogli mille dubbi in testa. Durante la notte si rigirava sotto le coperte, stanco e insonne.” E se Muso Bianco avesse avuto ragione? “Si chiedeva atterrito. “Qualcuno voleva allontanarlo da me?” Si domandava continuamente. E più ci rifletteva, più trovava un senso in tutto ciò che era successo. Conosceva Muso Bianco da tanti anni e in pratica l’aveva cresciuto lui. Il topo era sempre stato scrupoloso, onesto e prudente. E in pochi giorni aveva commesso due gravi errori che mai avrebbe fatto. No, l’intera faccenda puzzava. Ma ormai Muso Bianco era andato via e così il disperato notaio si ritrovò solo. Nessuno più a riscuotere gli affitti, e a curare i suoi interessi. Niente più leccornie e manicaretti. Il fuoco del camino rimaneva spesso spento e la tana, trascurata e fredda, non era più un nido accogliente di una volta. Il servitore gli mancava terribilmente, ma come spesso accade, anche l’intelligenza è accompagnata dallo stupido orgoglio. Mille volte la rana era stata tentata di richiamare a casa Muso Bianco e riassumerlo ma la paura di un rifiuto gli impediva di cercarlo. E intanto le settimane passavano. Il notaio si sentiva solo e abbandonato. La notizia dell’accaduto si sparse velocemente nel bosco e molti concittadini offrirono subito, lascivi e interessati, aiuto e solidarietà. Ma più di tutti, le due traditrici, Madam Ghiro e Signora Raganella che continuarono a far visita a Rana Bruna, portandogli leccornie succulenti, offrendo le loro figlie per pulire la ricca dimora e proponendo serate in compagnia per non lasciare da solo il ricco partito. Il notaio, in un primo tempo, rifiutò i vari aiuti, ma con il passare dei giorni, triste e bisognoso di attenzioni, accettò cibo e cure. Ma le due affittuarie esagerarono, non dandogli praticamente tregua. Erano sempre nella sua tana, mettendo il naso ovunque, costantemente presenti e asfissianti. Tanta sollecitudine e tutte quelle soffocanti premure lo resero sospettoso anche perché continuavano a risuonargli nelle orecchie le parole di avvertimento del servitore. Così lo scaltro notaio volle organizzare un trabocchetto per scoprire eventuali cospirazioni. Voleva sapere se tutto quell’affetto era sincero o nato da secondi fini. Se erano loro le responsabili di quel terribile inganno ai danni di Muso Bianco. Un giorno convocò la Signora Raganella e Madam Ghiro e annunciò loro:” Avete entrambe una figlia meravigliosa e una di loro diventerà mia moglie.” A tali parole le due matrone esultarono. Poi però precipitarono in una rabbia fredda e contenuta quando sentirono la seconda parte della proposta:” Però sappiate che alla mia morte, l’erede dei miei possedimenti sarà Muso Bianco e non mia moglie. Anche se non vive più con me, il mio servitore rimane e rimarrà sempre il mio unico erede.” “Come? - esclamarono le due traditrici, sconvolte, perdendo l’abituale prudenza e rivelando la vera natura del loro animo- preferiresti lasciare tutto il tuo patrimonio ad un misero e disgraziato topo, un servo senza condizione sociale e attrattiva piuttosto che alle nostre bellissime figlie? Noi facciamo parte della classe più abbiente dell’alta società del bosco. Frequentiamo l’élite delle famiglie più ricche e potenti. E ti daremmo in matrimonio una gemma che, dopo anni di sacrificio per esserti vissuta accanto, averti servito e sopportato, rimarrebbe a bocca asciutta?” L’astuto notaio riconobbe una profonda grettezza e avidità nella loro violenta reazione. La maschera era caduta e la Signora Raganella e Madam Ghiro, continuarono ad inveire e ad insultarlo, dandogli la certezza della responsabilità di ciò che era accaduto. Muso Bianco aveva ragione! Le due infide avevano architettato i due astuti incidenti per allontanare dalla sua vita il fedele servitore e renderlo bisognoso di cure e affetto. Rana Bruna aveva capito lo scaltro piano così, senza perdere tempo, aveva buttato fuori dalla tana le due delinquenti e si era precipitato a cercare Muso Bianco che, nel frattempo, era andato a vivere nel tronco di un albero caduto, cercando di sopravvivere al dolore e agli stenti. Il notaio, trafelato ed ansimante dopo una lunga corsa, lo aveva raggiunto e abbracciandolo con affetto, gli chiese perdono. Fra i singhiozzi, gli raccontò tutto, compreso lo stratagemma per smascherare le due farabutte e i loro piani per mettere le mani sulle sue ricchezze. Affranto e pentito, Rana Bruna chiese al topo di tornare a lavorare per lui e giurò che mai più avrebbe dubito della sua onestà e rettitudine. Dolce e arrendevole, Muso Bianco lo perdonò immediatamente, perché il suo cuore era buono e non conosceva astio o rancore. Quel giorno, insieme, ritornarono nella tana del notaio e in breve tempo il servitore mise tutto a posto. Quella sera finalmente, allietato dalla compagnia del ritrovato collaboratore, Rana Bruna godé di una cena appetitosa. Qualche ora dopo, davanti ad uno scoppiante fuoco e mescolando il costoso e ambrato scotch nel tondo bicchiere, l’opulento proprietario rifletteva quanto il fedele servitore fosse stato il vero punto di riferimento della sua esistenza. Discreto, umile e devoto, il topo era sua più grande ricchezza! Così l’indomani furono due le importanti decisioni che il notaio prese. La prima, naturalmente, fu di sfrattare le due megere traditrici, la Signora Raganella e Madam Ghiro. La seconda Muso Bianco la conobbe tanti anni dopo, alla scomparsa terrena di Rana Bruna. Il servitore scoprì di essere stato nominato l’unico erede delle immense ricchezze che in quegli anni, anche grazie anche a lui, il notaio aveva accumulato. Gli abitanti del bosco rimasero sconvolti e sconcertati alla notizia che un misero servitore, l’ultimo fra gli ultimi, fosse diventato così ricco e potente. Bontà, affetto e fedeltà erano stati premiati, invisibili ricchezze che il servitore aveva donato al suo datore di lavoro in tutti quegli anni. E in seguito, chiunque domandasse a Muso Bianco, per quali nascoste ragioni era stato nominato unico erede, visto che era sempre stato solo un misero servitore, perché nel bosco gli animali come lui, non contano niente, lui rispondeva commuovendosi: “Io per il notaio non ero solo un piccolo e misero topo!” Racconto e immagine di Lucina Cuccio Dedicato a mio marito e a mia figlia #lucinacuccio #clescartoons #fiaba #fantasy

martedì 16 giugno 2020

GIORNO DOPO GIORNO

C’era una volta, tanto tempo fa, un regno sperduto fra i monti le cui case, palazzi e monumenti era fatte da grandi torri. Lunghe braccia di pietra si innalzavano verso il cielo e ogni abitante di quello strano paese doveva, ogni giorno, salire mille gradini per arrivare nelle stanze più alte. Alcune torri erano bellissime, fabbricate in pregiati marmi rosa o bianchi, altre erano più modeste, ma quella del re era la più incantevole, realizzata da uno splendente avorio bianco. La legge di costruire tutte le abitazioni a forma di torre era stata promulgata dal nonno re che aveva fatto radere al suolo tutta la città per poi farla ricostruire di nuovo con tante torri al posto delle case. I sudditi non si erano chiesti il motivo di questa stranezza ma visto che il vecchio re aveva pagato tutti i lavori e ognuno di loro si era ritrovato la casa nuova cioè una torre nuova di zecca, avevano accettato l’eccentricità di quell’ordine. Così da quel lontano giorno, le torri della città erano diventate famose. Lunghe, articolate, decorate, come longilinei campanili verso l’alto, sfidavano l’aria e le nuvole. La torre più antica era quella del re e sulla quale aleggiava una strana leggenda: si narra che fosse stata costruita in una sola notte ma nessuna sa da chi, e da quel momento, per volere del re, questa magnifica struttura era stata curata, lucidata, amata e rispettata come una cattedrale. Il vecchio re era morto, e gli era succeduto il figlio, e dopo di questo, anche il nuovo principe era salito al trono, facendo rispettare la legge delle torri, condizione indispensabile per ereditare il trono di quel regno. Al tempo in cui racconto la vicenda, in quello strano paese nacque un bimbo che da grande divenne un famoso architetto e il cui nome era Thomas. Terminata la facoltà di Composizione e Disegno di Londra, aveva lavorato in tutta Europa, guadagnando grandi fortune ed era tornato nel suo paese per costruire la propria casa. Ma presentato il progetto della casa, uno sfarzoso palazzo, le autorità per il controllo delle costruzioni gli aveva negato il consenso. Thomas era proprietario di un grande terreno vicino il centro del paese ma poteva costruire solo torri. Il brillante architetto si infuriò, e ribellandosi a tale divieto, fece iniziare lo stesso i lavori di costruzione del palazzo. Il giovane re, saputa la vicenda, mandò una squadra di operai per distruggere il cantiere appena aperto. Così da quel famoso giorno, Thomas iniziava i lavori di costruzione della propria casa e il re li bloccava e faceva distruggere tutto. Giorno dopo giorno, questa vicenda si protrasse per anni. Il caso di Thomas divenne pubblico e tutto il regno, curioso e interessato, assisteva al teatrino della costruzione e distruzione della casa dell’architetto. Passò molto tempo e il re si era fatto vecchio così anche Thomas ma nessuno voleva cedere sulla sua posizione. Ma una notte il vecchio sovrano si sentì molto male e si accorse di essere arrivato alla fine del suo viaggio, così fece chiamare Thomas al suo capezzale. L’anziano architetto arrivò alla torre d’avorio reale in piena notte, accompagnato dalle guardie reali, percorse lunghi corridoi della cima, le camere sfarzose, i saloni da ballo, quando giunse alla camera da letto del sovrano. Si avvicinò un poco al capezzale del re, per nulla impietosito del suo stato. Erano stati anni di rabbia e frustrazione per entrambi e il rancore era cresciuto a dismisura. Ma il monarca fece cenno a Thomas di avvicinarsi di più e con labile voce mormorò una supplica: “ Per favore- sussurrò debole- costruisci sul tuo terreno una torre, e non una casa. Ti prego! E’ l’ultima preghiera di un vecchio morente.” Thomas strinse le labbra, e furioso replicò:” Perché? Perché vi si siete incaponito così tanto contro di me? Il terreno è mio, e ho diritto di costruire ciò che voglio!” Colpi di tosse roca interruppero la replica. Allora il vecchio re gli domandò:” C’è sulla terra qualcosa che ami più di te stesso?” Thomas rimase disorientato da quella domanda così personale. In quegli anni si era sposato ma purtroppo non aveva avuto figli così la moglie rappresentava la sua ragione di vita. “Più di me stesso amo la mia sposa” rispose l’architetto, sincero. Il moribondo sorrise: “ Ti capisco…e ancor di più ti capirebbe mio nonno. Vedi la legge della torre appartiene a lui.” Thomas esplose:” Appunto! quella sciocca legge è ora di eliminarla! Che senso ha costruire solo torri?” Il re, per la prima volta in cento anni, rivelò il segreto di quella legge. “Vedi caro Thomas-esordì commuovendosi- mio nonno si sposò molto giovane con una bellissima principessa, figlia di un sovrano di un regno vicino. La fanciulla si chiamava Mary ed era molto giovane, buona e gentile. Fin da subito mio nonno uscì pazzo per lei. Stava ore ed ore a sentirla cantare, ammirava come, leggera, ballava sulle punte dei piedi, e come amava coltivare le rose e anche Mary colmava mio nonno di premure. Adorava il marito e non si allontanava mai da lui. Gli dedicava poesie, e gli faceva mille ritratti e ti giuro nessuno era più felice dei miei due nonni. Uscivano insieme a cavallo, pranzavano e cenavano sempre insieme, e leggevano libri per ore, l’uno accanto all’altro, tenendosi per mano. Ma un triste giorno, una strega malvagia, invidiosa del loro amore, gettò un maleficio su mia nonna Mary, trasformando la splendida fanciulla che era in una torre d’avorio…questa.” Thomas rimase pietrificato da questa notizia. “E così da quella notte, mio nonno giurò che la sua adorata moglie non sarebbe mai più rimasta sola. Fece erigere tante torri, per farle compagnia e avrebbe curato questa costruzione come il più prezioso degli edifici. Mia nonna è qui, in qualche modo, e sente e vede tutto. E’ rimasta qui da quella notte e l’amore della mia famiglia l’ha curata e l’ha fatta sopravvivere, nonostante tutto. Ed è per questo motivo che ti chiedo di non costruire una casa ma una nuova amica per mia nonna. E’ il mio ultimo atto d’amore che rivolgo alla mia famiglia, che giorno dopo giorno, ho amato e rispettato.” Thomas, commosso mormorò: “Sarò lieto di poterla servire.” Quella notte il re morì e l’architetto progettò e fece costruire subito la più bella torre del paese. Lucente e splendida come un brillante, rifletteva la luce del sole e il chiarore della luna. Appena terminata la torre, anche Thomas morì e raggiunse in cielo il re. Avversari sulla terra ma amici in paradiso, entrambi ammiravano dall’alto la torre luccicante che era diventata una compagna affezionata della meravigliosa torre d’avorio.