giovedì 7 gennaio 2021

L'ultimo credo

Mi tremavano le mani, mentre sorreggevo quel libro come una preziosa coppa di cristallo. A voce bassa, in un mormorio appena udibile, leggevo quelle oscure frasi… per supplicium, ab igne et a fumo, audivi haec verba. Parole sbiadite…lontane e remote, come isole sperdute nell’oceano. Supra omnem voluntatem... espressioni appena leggibili…imperscrutabili. Ingoiavo a vuoto perché avvertivo, ad un tratto come un gelo, che senza motivo, dal libro, passando per i guanti di lattice, le mani e le braccia, era arrivato nel mio cuore. Voca me… voca me? Cosa significava? In latino non ero mai stato bravo. Quei termini misteriosi e arcani, quelle pagine ingiallite e fragili, come foglie secche, mi stavano portando indietro nel tempo. I secoli avevano lasciato un segno spietato su quelle superfici. E poi la data e la firma. Carcassonne 1703 Thomas Vidal Il liceo scientifico che avevo frequentato e in cui mi ero diplomato, due anni prima, mi aveva dato la possibilità di tentare di capire, bene o male, il senso di quelle vetuste parole. Ci misi qualche minuto ma alla fini compresi. Alla luce del tempo eterno il cambiamento mi chiama Al di sopra di ogni volontà Poi tutto è mutato. Dal fuoco e dal fumo, per supplizio ho sentito queste parole. Sembrava un formula magica, tranne per la frase che si riferiva ad un preciso momento in cui, siffatto sconosciuto Thomas Vidal, aveva udito queste parole. E se mi era chiaro, da qualcuno che stesse morendo. L’unico supplizio che conoscevo con il fuoco era la condanna degli eretici bruciati vivi sul rogo. Certo, trovare nel doppiofondo di quell’antica cassapanca francese, sotto strati di polvere e insetti morti, quel piccolo tomo rilegato in pelle, mi era sembrato un colpo di fortuna. Ora però, non ne ero più tanto sicuro. Nel leggere, a voce sommessa quelle frasi, mi ero subito accorto che qualcosa era cambiato. Qualcosa non andava. Sembrava che l’aria, nel retrobottega del negozio di restauro di mio zio Tommaso, si fosse rarefatta. Fra gli scaffali, dove disordinatamente erano disposti vari barattoli di vernici, colle e stucchi, era sceso il gelo. Improvvisamente mi sembrava di essere entrato dentro un frigorifero. Poi la lampada al neon del soffitto, lentamente variò intensità di luce. Ritmiche ondulazioni di frequenza. Ingoiai varie volte, cercando di mantenere la calma. “Non essere cretino-mi ripetevo per farmi coraggio- anche se è notte, e sono solo in negozio, certe stupidaggini non devono suggestionarmi.” Fissai il pavimento, le mie vecchie Reenbok e poi pezzi di antichi mobili smontati, in attesa del restauro, i trucioli di legno e le limature che coprivano le consumate mattonelle di coccio. Davanti i miei piedi, poi, il falso fondo che avevo rimosso per preparare alla riparazione quella singolare cassapanca e che ora avevo quasi paura di toccare. L’oggetto, arrivato nel pomeriggio tramite corriere e molto particolare, proveniva da un vecchio convento della città di Carcassonne. Era stato donato alla nostra Arcidiocesi ma che prima doveva essere restaurato. Mio zio aveva accettato felice l’incarico. Figuriamoci, un vecchio devoto come lui! Da più di un anno facevo pratica nella sua bottega di restauro e per quel lavoro indossavo guanti di lattice, la felpa nera e i miei intramontabili jeans che mi ero rifiutato di buttare. Ora però sentivo i vestiti strangolarmi. “La magia non esiste-mi ripetevo-cavolo, studio matematica…io credo solo in quello che vedo!” Eppure, preso da strane fantasie, il suono del cellulare mi fece sobbalzare. In un attimo lo recuperai dalla tasca dei pantaloni. “ Luca…dove sei?.” La voce roca di mio zio, vecchio fumatore di pipa, squarciò per un attimo, l’atmosfera irreale che si era appena creata nella stanza. “Zio…sono ancora al negozio.” Farfugliai cercando di darmi un tono normale. In sottofondo, il suono lontano di una sirena. Milano non dormiva mai. “Ancora?-esclamò contrariato- ma sono quasi le dieci! Senti, torna subito a casa. Tua madre se la prenderà con me perché ti sei trattenuto a lavorare fino ad ora in negozio e magari domani arrivi tardi all’università!” Mia madre, sua sorella, era in un perenne stato di agitazione nei miei confronti, figlio unico di un matrimonio felice. Preoccupata sempre per la mia salute, per la mia sicurezza, per i miei studi e per il mio futuro. Invece, fortunatamente, mio padre era tutto il contrario. Simbolo del relax e della tranquillità era in pace con il mondo e senza remore, lo dimostrava. Per lui, tutto sarebbe andata bene! Insomma una coppia perfettamente compensata. “Va bene, vado subito.” Chiusi la telefonata così, con molta delicatezza, come anche il piccolo libro che avevo in mano. Rimasi lì, pensieroso e indeciso sul da farsi. “Che faccio? Richiamo subito lo zio e gli racconto cosa ho trovato?” Mi chiesi, titubante. Eppure, insieme alla paura, ora si insinuava un leggero stato di eccitazione. “E quelle parole…seguite da quegli strani fenomeni- riflettevo velocemente- magari sono tutta suggestione!” Continuavo a rimuginare. “Però, per correttezza, dovresti informarlo del ritrovamento.” Sussurrò la vocina della mia coscienza. Mille pensieri si susseguivano nella mia mente, e continuavo a rimanere lì, immobile e indeciso. Certo portarmi a casa qualcosa che non apparteneva a me, e neanche a mio zio, mi sembrava poco onesto. Però volevo darci un’altra occhiata perché nel chiudere il libro, avevo intravisto altre pagine, dopo quella iniziale, vergate con altre date e frasi. E in fondo al volume, anche qualche disegno. “Domani, quando torno dalla facoltà, informerò subito lo zio del libro- decretai-e magari mi prenderà in giro quando gli racconterò quegli strani fenomeni accaduti mentre lo leggevo.” Decisi quindi di soprassedere e rimandare tutto a domani. Velocemente mi diressi verso l’uscita della stanza, dopo essermi tolto i guanti di lattice e aver indossato il giaccone. Spensi le luci e recuperai il mio zaino. Mi avviai verso l’uscita del negozio, ingombra di oggetti d’arte, pronti per essere consegnati. Chiusi il portone, inserii la combinazione dell’allarme. Nella tasca destra recuperai i guanti di lana e il cappello, nell’altra infilai il prezioso libro. Sentivo l’agitazione crescere mentre salivo al volo sul tram che mi avrebbe portato proprio davanti casa, in Corso Sempione. Intanto, mentre la città sfilava davanti ai miei occhi, osservavo distrattamente le macchine e le persone che, nonostante l’ora tarda, spumeggiavano per le strade. Assorto, ripensavo agli strani fenomeni accaduti, non facendo caso ai passeggeri dentro il tram, e a tutto ciò che mi circondava nell’abitacolo. Rivedevo la luce intermittente della lampada al neon sul soffitto. Sulle braccia, sotto la felpa, avvertivo ancora il gelo e quella strana percezione dell’aria, intorno a me, come una gelida nebbia asfissiante…ma, come sempre, il mio raziocinio mi riportò alla realtà. “Non sono fenomeni paranormali-mi ripetei mentalmente-e tutto può essere spiegato. I numeri e la matematica possono chiarire tutto e mi rifiuto di credere a qualsiasi altra cosa!” Ancora perso nelle mie convinzioni e sostenuto dal mio credo, la logica ragione, sobbalzai nell’accorgermi che ero appena giunto sotto casa. “Sì mamma, va bene mamma!” Ripetei a mia madre per l’ennesima volta, da dietro la porta della mia stanza. Appena arrivato a casa avevo consumato velocemente la cena riposta nel forno per me, mentre i miei genitori si stavano preparando per andare a dormire. Naturalmente mi affrettai a mangiare per rinchiudermi subito in camera mia e dare un’altra occhiata al libro ma mia madre mi aveva raggiunto per le solite raccomandazioni. In vestaglia azzurro cielo e crema da notte, ogni sera, mi propinava consigli e suggerimenti…in pratica sembrava un puffo davanti a Garganella. “Luca...domani a che ora hai lezione?” Chiese l’ansiosa della casa. Sospirai in silenzio perché quel rito si ripeteva tutte le sere. ”Alle otto mamma…come al solito.” Pausa di silenzio. Dietro la porta la sentivo agitarsi. “Mi dici la prima materia?” Alzai gli occhi al cielo. “Analisi...” nemmeno il tempo di concludere la frase che subito, incalzante, mi domandò: “E poi hai Statistica, vero?” Contai fino a cinque… “Sì mamma, domani è venerdì e ho sempre alle prime due ore, Analisi e dopo le altre due, Statistica.” Momento di silenzio. Poi l’ennesima domanda di cui mia madre conosceva già la risposta. “Vai in facoltà con Federico, vero?” Speravo che il supplizio terminasse presto. “Sì mamma, andiamo insieme in facoltà...poi a studiare in biblioteca. Tornerò nel pomeriggio…sul tardi.” Precisai con una punta di esasperazione. Sentii mia madre schiarirsi la voce, forse stava realizzando che erano quasi le undici e mezza di notte e forse ero stanco. Poi finalmente arrendendosi, concluse: “Va bene, mi raccomando però, domattina copriti bene e non dimenticarti i guanti e il cappello. Ah… e metti subito in carica il cellulare. Lo sai che mi agito se ti mando un WhatsApp e non mi rispondi.” Sorrisi clemente: “ Va bene mamma…Buonanotte.” Cercai di essere più gentile possibile. Il problema era che mia madre mi considerava sempre un bambino da proteggere e non ammetteva invece che ero cresciuto. Un ventenne con l’argento vivo addosso. Lei era una chioccia e io fremevo per l’indipendenza. La laurea in matematica mi avrebbe dato finalmente la possibilità di girare un po’ il mondo, fare esperienze e conoscere gente nuova. Il lavoretto nel negozio di restauro mio zio Tommaso mi stava dando la possibilità di mettere un po’ di soldi da parte per eventuali master all’estero. Lo stipendio di professore di mio padre ci consentiva a malapena di sopravvivere e so che i miei genitori stavano facendo i salti mortali per mantenermi all’università. Ma improvvisamente, la scoperta di quel libro mi aveva dato l’impressione che rappresentasse un’occasione… un’opportunità. Così, senza perdere tempo, infilai il pigiama e seduto sul letto lo recuperai dalla tasca del giubbotto. Prima di aprirlo, ispirai profondamente, scostando il ciuffo castano dei capelli dai miei occhi che, per pochi secondi, vagarono inquieti per la stanza. Sfiorai con lo sguardo la scrivania ingombra di libri, i pc, fisso e portatile, la libreria di ferro stracolma e i vari poster sulla parete. Albert Einstein mi fissava perplesso e i gruppi rock sembravano sfidarmi. “Dai…aprilo. Non succederà niente…”Pensai per farmi coraggio. Mi alzai di scatto dal letto. Il piccolo specchio appeso vicino all’armadio mi restituì l’immagine riflessa di uno spilungone alto e robusto ma che in quel momento era paralizzato dalla paura. Poi mi decisi. Delicatamente, con la mano sinistra, girai la prima pagina già letta nel negozio dello zio Tommaso e sfogliai la seconda. Poi la terza. Fortunatamente non accadde niente. Nessun fenomeno. Nessuna strana manifestazione. Mi concentrai allora su quei fogli così antichi che riportavano piccoli paragrafi sempre scritti a mano e sempre in latino. Poi le date e gli schizzi. Più avanti, alcuni disegni molto interessanti. Mi accorsi che si ripeteva spesso il ritratto di un giovane uomo. Certo l’inchiostro di quell’epoca rimandava l’immagine in bianco e nero ma Thomas Vidal, sicuramente autore di quei disegni, lo raffigurava con un occhio sempre più scuro dell’altro. Certamente quel ragazzo, nella vita, doveva avere il colore delle iridi diverse. “No-pensai improvvisamente fiacco -qui mi serve il traduttore online e il vocabolario di latino…e non posso iniziare questa notte a tradurre sti’ papiri!” Ero troppo stanco e serviva concentrazione per capire le misteriose frasi delle pagine che stavo fissando. “Domani-conclusi-domani, quando saremo in biblioteca mi ci metto.” Chiusi il libro, lo rimisi nel giubbotto. Nello zaino riposi invece il computer portatile e il vocabolario di latino, e mi fiondai sotto il piumone. Stranamente, nonostante tutti gli eventi della giornata, piombai in un sonno profondo. Le emozioni della giornata mi avevano stremato e mi parve che la sveglia suonasse solo dopo pochi minuti da quando mi ero coricato. Io e Federico eravamo nella biblioteca del campus già da parecchi minuti. Erano appena scoccate le due del pomeriggio e la mattinata era stata lunga e impegnativa. Quando il professore di Informatica assegnò i soliti dieci esercizi da svolgere a casa, io ero già praticamente fuso. Dopo un panino veloce al bar dell’università, con Federico ci recammo in biblioteca, accaparrandoci una postazione tranquilla. Mentre aspettavo di collegarmi alla rete con il mio computer portatile, Federico esordì con la solita protesta: “ Dieci esercizi di informatica, in più quelli di analisi e il resto. Della formula di Taylor non ricordo niente…” Poi la solita conclusione sconsolata: “Qui se non mi metto a studiare seriamente, col cavolo che supererò gli esami a febbraio. Mi toccherà passare vacanze di Natale sui libri…”. Dopo aver aperto il testo di Analisi, la materia più difficile, mi apostrofò: “Luca…ma mi stai a sentire?” Mi fissò torvo e aveva ragione. Avevo ascoltato distrattamente le sue proteste, ma ero tutto preso nel riporre sul tavolo un quaderno, la penna e il vocabolario. Serviva per tradurre le pagine del libro che avrei tirato fuori dalla tasca del giubbotto solo quando Federico si sarebbe impegnato a risolvere gli esercizi di Analisi. Curioso com’era, non mi avrebbe dato tregua nel sapere tutta la storia se solo si fosse accorto dell’attenzione che avrei riservato verso l’antico volume piuttosto che verso il libro universitario. Così mormorai distrattamente una scusa e mi immersi momentaneamente sulle benedette formule di matematica. Pochi minuti dopo, senza che se ne accorgesse, feci scivolare l’antico libro sulle ginocchia e iniziai a tradurre le varie note. Molte parole erano sbiadite. Alcune coperte da macchie o l’inchiostro era scolorito. Ma sembrava che la storia fosse scritta a ritroso. Come se la prima pagina rappresentasse l’ultimo evento poi Thomas Vidal ricordasse fatti ed eventi e li appuntasse su quelle fragili superfici che seguivano la prima, cercando di dare un certo ordine agli eventi accaduti. I contadini avevano notato la bizzarria del forestiero Era molto difficile decifrare e dare un senso a concetti così astrusi. Il cielo cambiava…luci e ombre all’improvviso mutavano… qui subentravano nel racconto altre persone. Lo straniero appariva bizzarroparlava di erbe…fiori…e non rispondeva alle domande. Così, mentre procedevo nella traduzione, avevo capito il senso di quelle antiche pagine. Thomas Vidal era una specie di giudice…un inquisitore. Improvvisamente realizzai cos’era quel libretto. Il processo di un uomo che veniva da un paese che non era la Francia. Uno straniero, appunto. Alcuni contadini lo avevano visto tante volte nei boschi, intento a raccogliere erbe e fiori. Così, per i suoi strani vestiti, il suo linguaggio e il misterioso modo di fare, lo avevano segnalato al tribunale della santa inquisizione. Poi le pagine si fanno oscure e misteriose. E mi sembra troppo assurdo il significato delle frasi che stavo traducendo… I soldati portarono dei contenitori che lo straniero nascondeva in un vecchio casaleMulti laminarum ardentium, qui dedit off lux sua…Rimasi di sasso…metallo che emanava luce. Sembrava la descrizione di un apparecchio elettronico. Lo straniero è stato arrestato…arnesi che parlano…Così, l’autore riferiva di oggetti che riconoscevo essere elettronici. Ma nel 1700 non esisteva niente di simile! Com’era possibile? Per vari minuti traducevo sempre le stesse frasi. Ma poi avevo dovuto ammettere che la traduzione di quelle parole era corretta. L’autore si soffermava nell’accurata descrizione, grossolana per un uomo del 1700, di apparecchiature, strumenti e meccanismi assolutamente incompatibili con quel secolo. In più, a riprova della mia folle ipotesi, alcuni disegni confermavano, senza dubbio, i miei sospetti. Ma era troppo assurdo ammettere cosa era accaduto! In un barlume di ottusa convinzione, mi attaccavo ancora alle mie convinzioni. In seguito, procedendo con la traduzione, le pagine raccontavano che Thomas Vidal doveva essersi ammalato e il suo incarico assegnato ad un altro inquisitore. Gli ultimi fogli narrano qualcosa di atroce. Di incredibile. Lo straniero era stato messo al rogo, insieme ai suoi misteriosi oggetti che il calore aveva fatto scoppiare. Thomas Vidal, malato e sofferente aveva assistito all’esecuzione. Abbiamo condannato un uomo innocuo…ammetteva, suo malgrado…Nessuno ha capito la patria dello straniero
…e io in quell’istante, mi sono arreso all’evidenza. Dopo più di trecento anni, solo io, rappresentante dell’umanità, ho realizzato cos’era davvero successo. Solo io ne sono testimone. Quell’uomo, probabilmente uno scienziato, era un alieno…un alieno lasciato sulla terra, con le sue attrezzature, per studiare le specie botaniche. E noi, miseri e ignoranti terrestri, preda di paure e superstizioni l’abbiamo ucciso in nome della nostra giustizia…e della nostra religione. Ma soprattutto perché andava contro le nostre convinzioni, contro il nostro credo. Quell’essere sarà certamente stato strano e inconsueto e noi uomini abbiamo paura di tutto ciò che è diverso. “Così- riflettei logicamente- alla luce di ciò che era accaduto ad uno di loro, gli alieni come potevano ritornare sul nostro pianeta?” Domanda più che legittima. Noi uomini avevamo dato prova del nostro animo spietato, della nostra cattiveria e crudeltà. Forse Thomas Vidal aveva preso coscienza del suo imperdonabile sbaglio. Forse aveva realizzato l’insensibilità e la disumanità del sistema. Richiusi il libro e lo nascosi nello zaino. Mi vergognavo profondamente dell’operato dei miei simili. A mio parere, l’umanità aveva fallito e sicuramente, se gli alieni fossero arrivati sulla terra oggi, ci saremmo comportati esattamente come nel 1700. Federico, nel frattempo aveva finito e appariva molto soddisfatto: “ Sono riuscito a terminare gli esercizi di analisi.” Chiuse il quaderno e mi chiese: “Mi sembri sconvolto…stai bene?” Ispirai profondamente. Cosa rispondere? “Certo che sono sconvolto!-pensai- sono a conoscenza di un segreto che non ha precedenti, con tanto di prove e non so cosa fare.” Con una forza che non sapevo di possedere, gli sorrisi: “ Non ho niente Fede…magari un po’ si stanchezza.” Come un bravo scolaretto, ma in uno stato di profonda confusione mentale e marcata tachicardia, presi il libro di statistica: “Allora, quali esercizi dobbiamo fare?” Chiesi, aggrappandomi al dovere e allo studio. Avevo bisogno di tempo per riflettere…e per pensare. Così, mentre procedevamo fra mode, mediane e medie, presi una decisione che, negli anni avvenire, non ho mai rimpianto. Un gesto assurdo, inspiegabile ma, a mio parere, logico. Razionale. Avrei rimesso al suo posto il libro. Nessuno, nemmeno lo zio Tommaso, avrebbe dovuto sapere. Solo io sarei stato a conoscenza di ciò che era successo. Era meglio se l’umanità avesse continuato a credere nella sua verità…nelle sue logiche. Condividere una vergogna simile non era produttivo. A questo punto meglio l’ignoranza. La prova eclatante che la terra non era degna di accogliere una razza superiore, sarebbe stato un fardello che avrei portato solo io. Meglio lasciare agli uomini l’illusione e la consolazione dei propri principi. Per ognuno di noi, come anche per me che avevo fatto della matematica la mia religione e reso cieco verso qualsiasi altra alternativa, le proprie convinzioni e il proprio credo possono rappresentare l’obbiettivo finale della nostra esistenza…o peggio ancora, l’unico motivo per giustificarla.

lunedì 4 gennaio 2021

I PIEDI NELLA PALUDE

Tanto tempo fa esisteva un regno molto povero. I sovrani avevano sperperato ogni bene dello stato e avevano prosciugato anche i risparmi dei cittadini, imponendo tasse di ogni tipo tasse. E tutti gli abitanti erano caduti nella miseria e nella disperazione. Non c’era più cibo e le case, poco alla volta, si stavano distruggendo. Gli animali erano serviti a sfamare la popolazione ma ora non c’era rimasto più nulla. Le pentole erano vuote….i focolari spenti…e tutte le persone non avevano più nemmeno la forza di lavorare. Sembrava anche che il sole e il cielo fossero offuscati dalla desolazione e dalla povertà. Così tutti i cittadini decisero di mandare in esilio i sovrani responsabili della carestia e lo sconforto in quel regno. Appena i sovrani partirono, i capi delle famiglie che un tempo erano state ricche, volevano andare al potere per governare, poiché in loro la fame di potere era uguale alla fame di cibo. Ma la situazione era così grave che per una volta, l’assemblea dei cittadini decise di mettere al comando di quel regno un vecchio saggio, che da anni viveva solo, in una caverna. Era stato l’unico che non si era candidato per il comando. L’unico che non si era presentato per essere eletto…l’unico che non voleva il potere. In un sprazzo di raziocinio, i cittadini capirono che quel vecchio eremita era il solo che poteva salvare il regno dalla distruzione totale. Così il vecchio eremita fu nominato re. La corona che portava era di ottone, poiché il precedente sovrano aveva venduto quella d’oro per comprarsi degli splendidi cavalli bianchi. L’indomani, all’alba, il vecchio eremita uscì dal castello andato in rovina, e con la zappa al collo, si recò nel campo più vicino e iniziò a zappare. I consiglieri e i dignitari appena lo videro, si misero le mani in testa! Il re che zappa la terra! Incredibile! Inaudito! Vergognoso! Il vecchio saggio, interrompendo per un attimo di zappare, disse loro: “ Invece di star lì, con le mani in mano, perché non mi aiutate a dissodare questo campo? L’inverno è vicino, e prima delle piogge, dobbiamo piantare il grano…se non facciamo tutti la nostra parte, moriremo tutti di fame.” Così consiglieri, dignitari, nobili e politici, tutti con le zappe in mano, iniziarono a preparare i campi per la semina. Il re, vecchio e stanco, guidava tutti in quel pesante lavoro, e anche se queste persone non avevano mai zappato in vita loro, seguirono l’esempio del sovrano. Se lui zappava, anche gli altri dovevano farlo. Dopo la semina, il vecchio eremita si recò al fiume e iniziò a pescare…così anche i nobili e i dignitari. I cittadini, a bocca aperta, videro i membri delle ex famiglie ricche del regno, pescare, pulire ed essiccare il pesce. Chiesero allora al re la spiegazione…e l’eremita rispose:” Se non facciamo tutti la nostra parte, moriremo tutti di fame.” Così anche i cittadini aiutarono nella pesca, e furono loro a portare il pesce nel regno vicino per poterlo vendere. Con il denaro ricavato, il re comprò tanto cotone e lo consegnò a tutte le famiglie del regno affinché lo filassero e così tutti i cittadini, nobili e non, iniziarono il lavoro. I figli di ogni famiglia, vedendo il padre e la madre che filavano il cotone, facendone stoffe colorate, chiesero loro il motivo….e ogni genitore disse al figlio:” Se non facciamo tutti la nostra parte, moriremo tutti di fame:” Così ogni ragazzo aiutò a confezionare abiti di tutti i tipi, decorandoli con la magnifica fantasia della gioventù. Gli abiti furono venduti, e poco alla volta, il regno uscì fuori dalla miseria e dalla fame. Tutti lavoravano…tutti contribuivano al benessere di tutti…gli alberghi, rinnovati, ospitarono di nuovo i turisti…i negozi ricominciarono a vendere e il denaro circolava liberamente. Ogni persona di quel regno era devoto al vecchio eremita, e tutti lo amavano e rispettavano. Nella sua vita da re non aveva voluto denaro per sé ma il benessere per la popolazione del regno che aveva dovuto salvare. Qualche anno dopo, per il vecchio eremita si avvicinò la fine, ma il saggio re non aveva paura. La morte non era un demone ma un angelo misericordioso. Tutti i cittadini vegliarono le sue ultime ore, dentro e fuori il castello. Le ultime parole del re furono per la popolazione…raccomandò loro di imparare da ciò che avevano dovuto affrontare. Le sue ultime parole furono: “ La fame e la miseria sono frutto dell’ingordigia dell’uomo. La sete di denaro e di potere è una palude profonda …ed è facile camminarci dentro….uscirne è impossibile.(
Racconto di Lucina Cuccio)

domenica 15 novembre 2020

L'ETERNO INDECISO

Di tutti gli elfi del bosco, Osvaldo era il più strano. Oltre ad essere pigro e svogliato, la strana creatura era eternamente indecisa. Per giorni e giorni si gingillava dubbioso fra portare il vento autunnale fra i rami del querceto o ingiallire le foglie delle viti, l’elfo si perdeva in mille congetture e problemi senza mai concludere niente. “E se il vento che richiamo è troppo forte?- Si chiedeva titubante- o se il giallo delle foglie risultasse troppo spento e opaco?’ Si domandava ancor più angustiato. Così seduto su un sasso si perdeva in mille dubbi e supposizioni, mentre gli altri elfi del bosco protestavano perché la stagione si era fermata. Ogni mattina, Gervasio, il capo-elfo gli chiedeva, torvo e preoccupato: “ Allora Osvaldo…hai già sparso la rugiada sull’erba?” E come spesso accadeva, l’elfo indeciso e pigro, balzava in piedi, sgomento e si precipitava sui prati, dove le perle lucenti di brina, venivano effuse disordinatamente e senza grazia. La comunità dei suoi pari non ne poteva più. I lavori venivano fatti in ritardo, in fretta e con mille difetti. Osvaldo riceveva mille rimproveri, sia dai suoi genitori che dai suoi fratelli ma soprattutto dai responsabili del settore. Tutti si chiedevano la ragione del suo comportamento. Bisognava mettergli accanto una compagna che lo aiutasse e lo esortasse a svolgere bene le sue mansioni. Qualcuno che lo guidasse, con dolcezza ma anche con fermezza. Così i genitori e Gervasio, il capo-elfo, si riunirono in una fredda notte nevosa, all’interno di un tronco di albero per decidere chi proporre alla sua attenzione. Una graziosa e simpatica elfa che gli fosse di aiuto e sostegno. Delle tante candidate che furono chiamate, accettarono la proposta di matrimonio due fanciulle. Primula, la più ricca elfa del bosco, la cui famiglia possedeva centinaia di alberi da frutto, ruscelli e interi cespugli di more, tantissime case e servitori ed era una creatura intelligente e arguta, ma purtroppo non molto attraente… Mirtilla invece, era povera e un po’ stupida, ma possedeva fascino e bellezza. Osvaldo, appena i genitori gli comunicarono la notizia che doveva prendere moglie, cadde in una profonda prostrazione…La decisione di sposarsi lo solleticava parecchio, ma chi scegliere fra le due candidate? Entrambe avevano sia aspetti positivi che negativi. Per un elfo, cosa doveva contare di più…la ricchezza o la bellezza? E cos’era peggio…la bruttezza o la stupidità? Per settimane, indeciso, passava le notti fra mille dubbi e perplessità e la mattina, esitante, Osvaldo chiedeva ai genitori e a Gervasio, più tempo per riflettere. La scelta fra le due future spose doveva essere ponderata e convinta e il tempo passava. Primula e Mirtilla però iniziarono ad agitarsi, a litigare fra loro e nel bosco crebbe la tensione e il malcontento. L’inverno trascorse triste e melanconico. Il lavoro degli elfi ne risentì. La stagione della primavera non era pronta. Il profumo e il colore dei fiori non era pertinente…le foglioline appena nate non erano abbastanza morbide…la neve era ancora ghiacciata. Fra i tronchi e i cespugli del bosco, risuonava l’eco delle discussioni di Primula e Mirtilla, i rimproveri dei genitori di Osvaldo e i rimbrotti di Gervasio per il mancato lavoro dell’elfo indeciso. Alla fine, tutti stufi ed esasperati per questa situazione, decisero di lasciare cuocere Osvaldo nel proprio brodo, disinteressandosi di lui e dei suoi problemi. Primula e Mirtilla convolarono a nozze con altri due elfi, più decisi e intraprendenti e Gervasio affidò al titubante folletto, solo compiti noiosi e monotoni, sicché l’eterno indeciso passò il resto della sua vita, scontento e insoddisfatto.

mercoledì 19 agosto 2020

LE PAROLE DEGLI ALBERI

Tanto tempo fa, in una regione sperduta del Nord Europa, giunse uno studioso di erbe medicinali che nonostante la giovane età, era diventato famoso per i miracolosi medicamenti da lui preparati. Per molti mesi aveva perlustrato varie zone di quello Stato in cerca di piante e arbusti che potessero migliorare i suoi balsami. Ma quel viaggio per lui, rappresentava un momento di pausa, oltre che di lavoro. La fama e il successo lo avevano reso molto popolare e ricercato, così la sua giovane moglie era diventata gelosa e aggressiva. Le provocanti e avvenenti clienti, rappresentavano potenziali pericoli per la loro unione, così la consorte lo controllava, lo spiava perfino quando preparava i vari rimedi medici. La donna era una presenza costante e ossessiva che portava la coppia a continue litigate. E spesso le sere, lo studioso le passava nel laboratorio, esausto per l’ennesima scenata e la moglie a piangere nel letto. Così, qualche mese prima, l’uomo aveva deciso di fare un viaggio alla ricerca di nuove erbe…Ma in realtà desiderava anche allontanarsi dalla moglie e dalle sue scenate di gelosia. Aveva sentito parlare di una regione isolata ma molto ricca di vegetali pregiati e anche molto ricercati così, nonostante le suppliche e le minacce della sposa, era partito lo stesso alla volta di quella zona così singolare. Le settimane erano volate, e lo studioso, nonostante la stanchezza del viaggio, si sentiva già sollevato per non dover più subire altre scenate di gelosia. La consorte gli mancava ma era anche contento della pace ritrovata. Così infine, giunse nella famosa regione e dopo aver girovagato un bel po’ per monti e valli arrivò a destinazione. Quel giorno aveva attraversato vari avvallamenti per giungere in quella zona montuosa, ricca di boschi e foreste. Il pomeriggio stava volgendo al termine e lo studioso cercò le indicazioni per trovare un paese dove certamente avrebbe potuto pernottare. Per arrivare al villaggio, un piccolo borgo medievale, doveva attraversare un fitto bosco di pini e salici. Sul versante orientale si trovava una strada sterrata che si ricongiungeva, attraversando la selva, a quella principale. George Cecil Browne, stanco per aver camminato molto a lungo in quella fredda giornata autunnale, vide l’insegna lignea che indicava la località designata, così si addentrò nel profondo e impenetrabile bosco per raggiungerla. Ogni passo era difficile per i folti cespugli, grovigli di rami e foglie secche, alberi caduti e discese poco visibili. Il cammino lento permise così a George di osservare, con attenzione, la folta vegetazione e gli ultimi fiori che stanchi tentavano di sopravvivere nella macchia intricata. Pallidi e rari raggi di sole penetravano attraverso quel tetto frondoso di rami e foglie prossime a cadere. “ Ma guarda! –esclamò lo studioso-Achillea e Tarassaco!” E subito si fermò a raccogliere i preziosi vegetali, stando attendo a non rovinare le piante da cui aveva preso qualche foglia. Così, valutando l’area interessante, si guardò intorno nella speranza di trovarne altre. Perlustrando con occhi attenti il terreno, sfiorò con lo sguardo la corteccia di un albero e rimase a bocca aperta. Si avvicinò sempre di più, mettendo a fuoco quelle che riconobbe come alcune lettere dell’alfabeto…Ma ciò che di veramente bizzarro sconvolse l’animo dello studioso fu che le lettere, che formavano una frase di senso compiuto, non erano intagliate sulla superficie del tronco, ma bensì sporgevano all’esterno. “Non è possibile-continuava a ripetere l’uomo- come fa una pianta a produrre una simile alterazione della corteccia?” La frase, con un’elegante scrittura in corsivo, recitava: “Non è un buon affare. Devo parlare di nuovo con il ministro degli esteri.” E mentre il pover’uomo trasecolava, spostando lo sguardo verso l’albero accanto, si accorse che anche quello aveva una frase sulla corteccia che recitava : “Questa cena è troppo noiosa!” E così più lo scienziato perlustrava il bosco, migliaia e migliaia di frasi emergevano dal tronco degli alberi, ad altezza d’uomo. Ma anche verso il basso e fra i rami più alti. I messaggi non si potevano contare. George incuriosito, scrutava gli alberi, anche i più lontani, trovando sempre molte frasi e realizzando che chi avesse voluto leggerle tutte, doveva faticare un bel po’! Il ricercatore, dopo varie ore, esausto, lasciò il bosco e raggiunse la via principale che portava al paese. Ma nel percorrerla, in lontananza, su una collina solitaria che si stagliava sul cielo blu cobalto dove le prime stelle brillavano discrete, sorpassò le rovine di un vecchio castello ormai diroccato. Dalla cinta muraria, emergevano le torri e la pietra grigia dei muri merlati era ricoperta da vecchi rampicanti, in parte secchi. Delle antiche finestre bifore non rimanevano che pochi vetri policromi. Un tempo il castello doveva apparire come una splendida pietra di ghiaccio lucente ma ora sembrava solo un ramo scheletrico che si ergeva, prostrato, dal solitario promontorio. Lo studioso, in poco tempo, arrivò presso l’unica locanda del paese. Un edificio basso, dai mattoni rossi, con grandi finestre rettangolari e un grande ingresso ad arco. Un piacevole tepore accolse l’uomo quando entrò nella sala principale dove, vari tavoli, erano disposti non lontani da un grande camino scoppiettante. L’aria fredda della sera e l’umido del bosco stentarono ad andarsene dal mantello che George posò su una delle seggiole del tavolo libero dove si accomodò. Subito lo raggiunse l’oste con una brocca di vino che versò immediatamente nel bicchiere, dando per scontato che lo studioso l’avesse richiesto. “Oltre a cenare, potrei avere una camera per stanotte?” Chiese il viaggiatore, sorseggiando il liquido violaceo e analizzando con sguardo leggero, i vari commensali che, con il loro allegro chiacchiericcio, allietavano l’atmosfera e l’ambiente dove il personale di sala serviva velocemente i vari clienti. Contadini e mercanti formavano un’allegra compagnia in quel luogo che ispirava relax e desiderio di divertirsi. “Naturalmente”- rispose il padrone della locanda, con orgoglio, lisciandosi i folti baffi e aggiunse: “ Le daremo la camera ad ovest che di solito è molto calda. Per il desinare, gradirebbe il nostro stufato di carne e il dolce di mele?” Lo studioso assentì, godendosi quel caldo consolante e sistemandosi più comodamente sulla sedia. Era un momento felice della giornata, per lui che gioiva soprattutto quando riusciva a trovare qualche rara pianta erbacea per i suoi medicamenti. L’oste gli servì, poco dopo, un abbondante porzione di stufato, con contorno di varie verdure, una fragrante pagnotta di pane di casa appena sfornata, ancora una caraffa di vino e una fetta di crostata di mele. George lentamente, si gustò la cena, senza lasciare avanzi e rilassato e soddisfatto, mentre l’oste sparecchiava, abbandonò il rituale riserbo, chiedendogli: “Mi scusi, ma devo proprio chiederle un’informazione. Avete fatto studiare lo strano fenomeno botanico a cui sono soggetti gli alberi del bosco?” Il padrone della locanda si bloccò, con il piatto a mezz’aria e inclinando la testa rispose: “Ma di quale fenomeno sta parlando?” Lo studioso pensava fosse il vino ad ottenebrargli momentaneamente il senso spiccato di osservazione, ma avrebbe giurato che l’oste fosse impallidito per la domanda, per poi immediatamente, riprendere la precedente compostezza. “Ma sì- continuò lo studioso- le parole degli alberi che emergono dalla corteccia. Sono un esperto di botanica e sono rimasto sconvolto alla vista di un simile fenomeno. Mai visto niente del genere!” L’oste rimase in silenzio per qualche secondo, quasi stesse valutando il tipo di risposta da dargli. Poi sembrò decidere e George dovette avvicinarsi di più per riuscire a sentire tutto il racconto che il padrone della locanda, sottovoce, gli svelò, con l’enfasi della rivelazione di un grande e oscuro segreto. “Posso sedermi accanto a lei?” Chiese il baffuto albergatore, indicando un posto libero. “Ma certo!” Gli rispose l’ospite sempre più curioso. Era certo che la richiesta di accomodarsi accanto a lui fosse il preludio di un lungo e interessante racconto. “Dunque-iniziò l’oste, sistemandosi più comodamente-ciò che ha osservato nel bosco, ed esattamente le parole sulla corteccia degli alberi, non sono un fenomeno botanico, come lei poc’anzi l’ha definito. Ma un sortilegio…Un incantesimo di una strega malvagia.” Lo studioso non scoppiò a ridere per miracolo e soffocò l’impulso in un altro sorso di vino. “Un sortilegio?” Gli fece eco, sorridendo suo malgrado. Si sarebbe aspettato una spiegazione più realistica ma una simile risposta così, sparata a bruciapelo, lo divertì decisamente. Passarono alcuni minuti prima che il locandiere, quasi rassegnato, replicò: “Lo so, nessuno ci crede. Molti viaggiatori hanno attraversato il bosco, poi giunti qui, esattamente come lei, hanno chiesto del mistero degli alberi e tutti non hanno creduto subito alla spiegazione che io o gli altri abitanti del villaggio abbiamo dato.” George non voleva offendere l’oste che si era dimostrato così gentile e tentò di rimediare:” Mi scusi, ma sa, trovo davvero difficile credere che le parole sulla corteccia degli alberi siano frutto di una magia. Sono un uomo molto razionale e credo solo nei fenomeni che si possono studiare.” Mentre i due uomini parlavano, in maniera quasi impercettibile, il rumore della sala stava diminuendo. Gli avventori continuavano a mangiare e divertirsi ma l’ultimo arrivato era sicuro che molti di loro avevano drizzato le orecchie per non perdersi nemmeno una sillaba della loro conversazione. “Naturalmente-mormorò il padrone della locanda-ma abbia pazienza e vedrà che quando saprà tutta la storia, ciò che ha visto nel bosco avrà per lei un senso.” George non proferì parola ma, poggiando bene le spalle sullo schienale, si apprestò a sentire quello che per lui era un racconto già in partenza piuttosto fantomatico. Il locandiere, quasi sviando lo sguardo dallo studioso e trovando molto interessante la piega della tovaglia che ricopriva il tavola, sospirando, proseguì: Pochi secoli fa, il castello che lei ha visto sicuramente lungo la strada per arrivare al villaggio, era proprietà di un’antica e nobile casata reale. E grandi furono i festeggiamenti per le nozze della principessa, unica erede con un principe di un potente Stato vicino. La giovane sposa era molto innamorata del marito la cui fama di bellezza aveva attraversato monti e valichi. A memoria d’uomo, nessuno aveva mai visto un giovane così incantevole. Il nobile aveva occhi più azzurri e profondi del cielo, capelli neri e lucenti e un corpo di grande potenza e prestanza. Quando il principe percorreva una via a piedi o a cavallo, le persone si fermavano a contemplarlo. Ogni suddito rimaneva incantato e perso nel suo fascino bruciante. Una statua greca dalle sembianze umane. Purtroppo per la giovane principessa, tanta avvenenza rappresentò una fonte di perenne gelosia. Si narra che, subito dopo il matrimonio, iniziarono i litigi e le scenate.” A questo punto, George si sentì quasi il protagonista di quella vicenda. Tante erano le correlazioni fra i suoi problemi coniugali e quelli del novello sposo. Il locandiere continuò: “La giovane principessa era ossessionata dal marito. Tutto il giorno lo seguiva di nascosto. Nel corso delle battute di caccia, camuffandosi da servitore, durante le riunioni con i vari dignitari, nascondendosi dietro le tende e perfino nei viaggi di affari. Lo spiava continuamente e frugava fra le sue cose. Apriva perfino la sua corrispondenza, ma non era mai soddisfatta. Sospettava di tutto e di tutti. Dal canto suo si racconta che il principe amasse molto la giovane consorte… Ma era frustrato da un simile assedio. Si sentiva perseguitato e ossessionato dalla gelosia della moglie che non accennava a diminuire. E così il matrimonio era costellato da scenate, pianti e liti furibonde. Un giorno, la principessa, divorata ancora più del solito, dalla febbre di sapere tutto riguardo al marito, si recò da una strega molto potente. Quel giorno aveva toccato il fondo della propria frustrazione. Chiese alla strega un incantesimo. Una magia che facesse apparire in un libro dalle pagine bianche, sotto forma di frasi scritte, i pensieri del marito. Così lei avrebbe potuto leggerli e conoscere tutto. Anche i pensieri più proibiti e reconditi dello sposo. La strega possedeva un simile sortilegio e chiese alla giovane principessa una grande quantità d’oro. Ma il regno non ne possedeva tanto, così loscamente, per raggiungere la misura richiesta, la giovane fece ricoprire con sottili lamine d’oro, varie coppe e oggetti di ferro e rame. Purtroppo la fattucchiera si accorse dell’inganno e volle punire la principessa. Concesse sì la magia ma i pensieri del principe non comparirono scritti nel libro ma sulla corteccia degli alberi del bosco. E solo la principessa sarebbe stata in grado di vederli e leggerli. Così da quel giorno, la giovane sposa, trafelata, correva di giorno e di notte nel bosco per leggere i pensieri del marito. Nessuno seppe del patto fra la strega e la fanciulla e i sudditi non capirono perché la giovane donna, sotto la neve o la mattina all’alba, o nelle ore più strane, si precipitasse verso il bosco, si arrampicasse sugli alberi, o vi girasse intorno alla ricerca di chissà cosa. Pian piano la salute della principessa andò deteriorandosi e morì pochi anni dopo, seguita dal marito reso infelice e disperato da quell’assurda situazione. Non lasciarono eredi e il regno senza oro, andò in rovina. Solo pochi giorni dopo la morte dell’infelice sposa, i sudditi si accorsero delle frasi che erano apparse sulla corteccia degli alberi. E capirono. Il resto della storia è leggenda.” Il locandiere si accorse che il racconto aveva molto turbato il giovane studioso, così lo accompagnò al piano superiore dove lo fece accomodare nella stanza in cui avrebbe passato la notte. George era rimasto molto colpito da quella storia e dalla sorte della giovane principessa. Provava pietà per tutta quella faccenda e compassione per la nobile ragazza. Forse il marito avrebbe dovuto rassicurarla di più, così da evitare che lei si rivolgesse alla strega, origine di tutte le sventure. Forse il principe, a causa dell’insicurezza e quindi, della gelosia della consorte, si spazientiva e si innervosiva per niente, peggiorando la situazione. Quella notte furono molte le considerazioni che fece lo studioso. Tante similitudini lo portarono ad un attento e scrupoloso esame di sé stesso, del suo matrimonio e del suo operato. Partire e lasciare a casa la moglie gelosa gli era sembrata un’ottima soluzione, ma in realtà, ora si sentiva solo un vile codardo. Aveva scelto la strada più facile. Aveva preferito scappare piuttosto che trovare una soluzione. Risolvere la questione. Così, l’indomani, mosso da un nuovo spirito di responsabilità e saggezza, pagò il conto della locanda e partì per far ritorno a casa. Avrebbe chiarito tutto con la moglie, ripromettendosi di essere con lei, più paziente e di renderla partecipe del suo lavoro e dei suoi affari. L’avrebbe continuamente rassicurata riguardo il suo affetto e la sua devozione così da dissipare ogni gelosia. La felicità del suo focolare domestico dipendeva da come lo studioso, ma anche la moglie, avrebbero affrontato e risolto ogni sciocco dubbio o eventuale problema, poiché il segreto di un matrimonio, e ora ne era certo, stava nella forza e nella volontà dei coniugi di sorreggere, in una strada in salita, l’un l’altro. Immagine e racconto di Lucina Cuccio

mercoledì 22 luglio 2020

NON SOLO UN TOPO

Non solo un topo
Il notaio Rana Bruna era l’animale più ricco del bosco. Possedeva varie tane in affitto, lo sfruttamento degli alberi di ghiande, dei cespugli di bacche e la concessione del ruscello principale. Tanti abitanti lavoravano per lui, nei magazzini accumulando provviste e curando le sue piante. Inoltre lo scaltro notaio si faceva ben pagare ogni atto che redigeva così che tanta ricchezza e potere lo avevano reso un partito molto appetibile. Rana Bruna viveva in una splendida tana, piena di gallerie e camere secondarie che il suo fido maggiordomo, il topo Muso Bianco, doveva tenere pulite. Caldo e confortevole era il lussuoso salotto con un grande camino sempre acceso e comode poltrone in pelle stile inglese. Il soggiorno con argenterie e arazzi pregiati alle pareti e una lunga tavola sempre imbandita, il sollazzo quotidiano del famoso professionista. Camere da letto e diverse dispense piene di provviste erano distribuite lungo tutta l’area. Inoltre una moderna cucina, attrezzata di tutto punto, sogno di ogni casalinga completava la ricca residenza, comodo regno del “Padrone”. E per le sue fantasie, un confortevole bagno con la vasca con i piedini a zampa di leone. Tutto quel benessere per un animale solo e il suo servitore. Gli abitanti del bosco bramavano tanta opulenza e quotidianamente adulavano la ricca rana. Tutte le mamme con figlie da sposare gli presentavano regolarmente le proprie candidate ad ogni occasione. “Caro notaio” sclamava la signora Raganella di turno- “lei è mia figlia Giada Lucente, appena uscita dal collegio. Desiderava tanto conoscerla! Pensi che si è classificata prima nella gara della “Polenta migliore.” Inoltre balla e canta come un usignolo!” Così ogni giorno decine di genitrici organizzavano sfilate di figlie nubili e desiderose di diventare la signora Rana Bruna mentre scaltri corvi e tortore ambiziose tentavano di far investire le varie ricchezze dell’astuto plutocrate, nelle loro banche. Ma Rana Bruna non si fidava di nessuno. Più gli animali del bosco lo cercavano, più lui si defilava, facendosi negare a casa o cambiando strada se all’orizzonte si delineavano le sagome di qualche gruppetto di future suocere o nuovi soci. Se c’era da riscuotere o fare un atto notarile, Rana Bruna era puntuale all’appuntamento. Ma per il resto, il maggiordomo, con diplomazia, doveva giustificare il suo ricco padrone e proteggerlo dagli attacchi degli assetati di denaro. Da tanti anni, quindi il topo era un prezioso tuttofare e cucinare, pulire, fare la spesa e occuparsi dei vari scocciatori erano le sue preziose mansioni. Muso Bianco si era guadagnato la fiducia e il rispetto, non commettendo mai un errore e brillando sempre per efficienza e puntualità. Il rapporto fra i due animali era particolare. Non so chi dei due fosse più altero e orgoglioso… Nessun cameratismo. Nessun affetto…solo la fredda routine di una relazione di lavoro, ma basata su una profonda stima e devozione. Il notaio confidava solo sul suo topo, piccola e insignificante bestiola. Muso Bianco infatti era stato assunto molto giovane in quella grande casa ma per pura combinazione. Ultimo di una numerosa nidiata, era stato allontanato dalla sua povera famiglia che non riusciva a sfamare tutti i figli. Così appena adolescente, aveva fatto mille umili lavoretti, patito la fame e il freddo, finché un giorno, mentre lavorava sotto un sole cocente e spietato, trasportando un carico di legna più grande di sé stesso, era stato notato da Rana Bruna, fresco vincitore dell’ambito concorso notarile. In quel lontano giorno, il povero topo, esausto e assetato si accaniva contro il caldo e la fatica, volendo però ultimare l’ingrato compito, sbuffando e soffrendo. Proprio quella tenacia e ostinazione, colpirono il giovane notaio che decise in quell’istante di assumerlo. Quel topolino magro, sciupato, piccolo e insignificante conosceva il senso del lavoro. Possedeva una ferrea volontà e non aveva paura della fatica. Questi furono i pensieri suscitati nella mente della giovane rana alla vista dell’accanimento del povero topo sulla pesante catasta di legna che doveva spostare. Così quando Muso Bianco, quel lontano giorno, dal cielo si vide farsi una proposta così vantaggiosa, non ci pensò due volte ad accettare. E fu così che divenne l’unico fidato ma indispensabile collaboratore del notaio. Molte stagioni passarono e i due animali, molto diversi per natura e ceto sociale, avevano stabilito un solido e fortunato sodalizio. Gli altri abitanti del bosco al passaggio di Rana Bruna, lo osannavano, glorificavano e incensavano, mentre il dipendente non si sbilanciava mai con il suo padrone. Ad ogni buon affare concluso, il topo sembrava rimanere indifferente. Rana Bruna però sapeva che godeva dell’ammirazione e della lode del suo servitore. Era sì l’animale più ricco e potente del bosco ma il suo impero economico era stato costruito grazie alla sua intelligenza e ingegno. E quando sentiva gli smielati complimenti dei suoi concittadini, il notaio rimaneva gentilmente impassibile come anche Muso Bianco. Entrambi distanti e lontani da tanta falsità, lavoratori indefessi, convinti del dovere e della moderata esistenza, sapevano che tanto affetto…Tanta adulazione era solo la mira alle ricchezze accumulate. Inoltre ormai Rana Bruna aveva una certa età e non era mai stato né bello né affascinate. Schivo e riservato di carattere, preferiva andare a letto presto per leggere libri gialli. Non gli piacevano le feste e prediligeva fare il pisolino dopo pranzo che riunirsi nelle tane dei vari suoi compaesani per bere vino e giocare a carte. “Padrone-mormorava flemmatico, di quando in quando, il maggiordomo- Madam Ghiro e sua figlia sono alla porta e chiedono di essere ricevute.” Solitamente due verdognoli sfere contrariate, sguardo notoriamente infastidito, emergevano da grossi libri rilegati in cuoio come la poltrona su cui sedeva. O da complicati documenti, o peggio ancora, da intriganti romanzi. Per l’attempata rana la biblioteca era uno dei luoghi preferiti, sia per lavorare che per riposarsi e quando non vi erano atti notarili da concludere o affitti da riscuotere, il suo tempo lo dedicava al prezioso riposo e odiava essere interrotto. Con un sospiro seccato di solito rispondeva: “Riferisci che sono molto occupato con una pratica e ci incontreremo più tardi sulla grossa pietra vicino il cespuglio di more.” E ogni volta che il fedele maggiordomo lasciava la biblioteca per riferire il messaggio, un mormorio compiaciuto si aggiungeva frusciante da dietro il libro: “Tanto per quell’ora pioverà certamente…Avverto qualche doloretto alla zampa sinistra che preannuncia sempre temporali-oppure-ho un appuntamento di lavoro già fissato.” Così si rituffava nelle antiche pagine ingiallite di un arcaico volume che raccontava la storia del bosco e dei primi pionieri che avevano fondato quella particolare comunità, oppure su qualche particolare cavillo di un fruttuoso contratto d’affitto. Nell’ora prima del tramonto, come al solito, Muso Bianco sbucava fuori dalla cucina con un grande grembiule blu notte, chiedendo compito: “Padrone, gradisce zuppa di mirtilli oppure funghi trifolati?” Incrociando le lunghe dita verdi sul panciotto scozzese, la rana mollemente spaparanzata sulla poltrona davanti al fuoco scoppiettante rispondeva compiaciuto: “Che ne dici di spezzatino con le patate?” “Naturalmente padrone.” Era l’immancabile risposta del servitore. E spesso, durante il corso della giornata il fedele sottoposto proponeva: “Signor notaio…le pantofole. Le ho riscaldate vicino al fuoco” Oppure. “Signor notaio, il bagno è pronto. Si affretti perché l’acqua si raffredda.” E ancora. “Padrone, sta nevicando. Vado io a riscuotere gli affitti.” E cortesemente… “Signor Notaio, le ho prenotato io la visita medica per i suoi reumatismi.” Così passavano gli anni e gli abitanti del bosco invidiavano profondamente il topo, unico animale che aveva l’ambito contatto personale con il ricco notaio. Muso Bianco conosceva praticamente tutti gli affari del padrone, le ricchezze e i segreti e i concittadini cominciarono a pensare che l’astuto maggiordomo si era guadagnato la fiducia del suo datore di lavoro solo per diventarne l’erede. “Tanta fiducia e solerzia è solo interessata!” pensavano maligni. Così alcune vecchie matrone organizzarono un piano malvagio contro il povero servitore, per smascherarlo, farlo licenziare e finalmente isolare il notaio. Rimasto solo, Rana Bruna sarebbe stato vulnerabile e influenzabile. Avrebbe avuto bisogno di qualcuno che lo accudisse e certamente avrebbe cercato compagnia. Così le losche cospiratrici sarebbero state pronte a riproporre le loro figlie. Una di loro doveva riuscire a sposare l’agiato notaio! Inoltre c’era da sperare che Rana Bruna vivesse ancora poco…Era un animale di una certa età e alla sua dipartita, la moglie sarebbe rimasta l’unica padrona di tutte quelle immense ricchezze. La futura consorte avrebbe dovuto sopportare, non per molto, la vita matrimoniale. Una matura, noiosa e untuosa rana era un bel sacrificio da patire! Ma sarebbe stato presto ripagato con immobili e denaro. Così la Signora Raganella e Madam Ghiro quando pagarono l’affitto, contarono davanti al topo il denaro, e con uno stratagemma, ne sottrassero una parte. Muso Bianco nel consegnare gli affitti, venne subito chiamato dal notaio piuttosto agitato. “Mi sono accorto che manca una parte dei soldi che hai riscosso.” Il Maggiordomo, per la prima volta, perse l’abituale flemma ed esclamò: “Padrone…È impossibile. Ho contato personalmente l’affitto!” Rana Bruna, pensieroso e contrariato, mormorò:” Allora una parte dei soldi ti sarà caduta per strada. La prossima volta stai più attento! “Il maggiordomo, afflitto e desolato, finite le incombenze domestiche, uscì di notte dalla tana e ripercorse tante volte la strada che aveva fatto, cercando ovunque il denaro che non trovò mai. “Inconcepibile un simile errore. Non era mai successo!” Continuava a pensare il topo, nei giorni seguenti. Non si dava pace e si sentiva terribilmente in colpa. In qualche maniera avvertiva che il suo padrone era rimasto deluso dall’accaduto. Qualche giorno dopo, Muso Bianco aveva appena finito di cucinare la zuppa, spento sotto la pentola e uscito a controllare i cespugli di bacche. Madam Ghiro che lo aveva spiato tutta la mattina, vedendolo uscire, aveva aspettato qualche minuto. Poi era riuscita ad aprire la porta della tana del notaio e, silenziosamente, si era diretta in cucina per riaccendere il fuoco sotto la pentola per lasciarla bollire. Qualche minuto dopo, il padrone, rientrando, fu accolto da un fumo nero, denso e pungente. Spaventato si era precipitato in cucina dove aveva trovato la pentola della zuppa, bruciata e annerita che fumava pericolosamente. Ancora pochi attimi e tutto sarebbe andato a fuoco. La sua amata tana aveva corso un grave pericolo. Così, al rientro, Rana Bruna assalì come un leone, l’ignaro servitore che rimase attonito e pietrificato sentendo ciò che era successo. Il povero topo non si capacitava e continuava inutilmente a giustificarsi. Seguitava a giurare e spergiurare che era uscito solo dopo aver spento il fuoco. Che era impossibile che si fosse riacceso da solo. “Padrone-supplicava disperato- le assicuro che avevo controllato! La zuppa era cotta e la brace estinta!” Ma stavolta il notaio, sconvolto e scioccato dal pericolo corso e fuori di sé dal terrore che la sua amata tana poteva trasformarsi in un ammasso di macerie fumanti, aveva deciso di mandar via in suo fedele servitore. Ottenebrato dalle passioni, Rana Bruna aveva preso una decisione drastica e irremovibile. Non sentì ragioni e pretese che il topo andasse via subito. Muso Bianco al sentire quelle terribili parole si sentì male e solo l’orgoglio gli impedì di svenire. Chinò il capo e con le lacrime agli occhi, il cuore pesante e un rogo ardente nel petto, non proferì parola e con un gesto di assenso del capo, prese atto della decisione. Conosceva bene il notaio e sapeva che non avrebbe cambiato idea. Tanti anni di assoluta dedizione, di lavoro devoto spazzati via. Era stato il pilastro di quella tana, il braccio destro del suo padrone e l’invisibile ma rassicurante presenza di quelle sfarzose mura. E ora, reietto, mogio e disperato si recò nella camera dove dormiva per raccogliere le sue cose e lasciare per sempre, quella ricca abitazione che era stata la sua vera casa per tanti anni. Ma mentre faceva le valigie, rifletté su ciò che era successo. Piano piano la stranezza e l’ambiguità di quei due eventi lo lasciarono inquieto e sospettoso. Prima il denaro degli affitti, che era certo di non aver perso, e che invece mancavano. Poi, subito dopo, il fuoco in cucina che inspiegabilmente si riaccendeva…E più ci pensava, più c’era qualche cosa che non quadrava. Se Muso Bianco possedeva una qualità era quella della diligenza. Nessuno era più preciso e scrupoloso di lui! Si era guadagnato la fiducia del suo padrone perché giorno dopo giorno, in tutti quegli anni, gli aveva dimostrato onestà, diligenza e zelo. Poi due eventi disastrosi separati da pochi giorni. Qui qualcosa non andava! Qualcuno tramava…Qualcuno voleva screditarlo davanti agli occhi del suo padrone. Così prima di lasciare l’amata tana, avvertì il suo ex datore di lavoro dei suoi sospetti:” Padrone- mormorò con la voce rotta dall’emozione- le assicuro che avevo lasciato la cucina in sicurezza e la certezza di quel che dico mi ha convinto che qualcosa di turpe mi è stato fatto. Qualcuno vuole allontanarmi dalla sua dimora e ci è riuscito. Stia attento a chi, nei prossimi giorni, si avvicinerà a lei. Scommetto che è il responsabile di ciò che è successo, e non ha di certo oneste intenzioni!” Detto questo andò via, sotto una pioggia scrosciante, lasciando il notaio interdetto e confuso. Chiudendo la porta, Rana Bruna ebbe la sensazione di aver commesso un grave sbaglio. Un errore che lo avrebbe fatto soffrire. E infatti, nei giorni seguenti, si sentì smarrito e combattuto. Le ultime parole del servitore, lo continuavano a tormentare, mettendogli mille dubbi in testa. Durante la notte si rigirava sotto le coperte, stanco e insonne.” E se Muso Bianco avesse avuto ragione? “Si chiedeva atterrito. “Qualcuno voleva allontanarlo da me?” Si domandava continuamente. E più ci rifletteva, più trovava un senso in tutto ciò che era successo. Conosceva Muso Bianco da tanti anni e in pratica l’aveva cresciuto lui. Il topo era sempre stato scrupoloso, onesto e prudente. E in pochi giorni aveva commesso due gravi errori che mai avrebbe fatto. No, l’intera faccenda puzzava. Ma ormai Muso Bianco era andato via e così il disperato notaio si ritrovò solo. Nessuno più a riscuotere gli affitti, e a curare i suoi interessi. Niente più leccornie e manicaretti. Il fuoco del camino rimaneva spesso spento e la tana, trascurata e fredda, non era più un nido accogliente di una volta. Il servitore gli mancava terribilmente, ma come spesso accade, anche l’intelligenza è accompagnata dallo stupido orgoglio. Mille volte la rana era stata tentata di richiamare a casa Muso Bianco e riassumerlo ma la paura di un rifiuto gli impediva di cercarlo. E intanto le settimane passavano. Il notaio si sentiva solo e abbandonato. La notizia dell’accaduto si sparse velocemente nel bosco e molti concittadini offrirono subito, lascivi e interessati, aiuto e solidarietà. Ma più di tutti, le due traditrici, Madam Ghiro e Signora Raganella che continuarono a far visita a Rana Bruna, portandogli leccornie succulenti, offrendo le loro figlie per pulire la ricca dimora e proponendo serate in compagnia per non lasciare da solo il ricco partito. Il notaio, in un primo tempo, rifiutò i vari aiuti, ma con il passare dei giorni, triste e bisognoso di attenzioni, accettò cibo e cure. Ma le due affittuarie esagerarono, non dandogli praticamente tregua. Erano sempre nella sua tana, mettendo il naso ovunque, costantemente presenti e asfissianti. Tanta sollecitudine e tutte quelle soffocanti premure lo resero sospettoso anche perché continuavano a risuonargli nelle orecchie le parole di avvertimento del servitore. Così lo scaltro notaio volle organizzare un trabocchetto per scoprire eventuali cospirazioni. Voleva sapere se tutto quell’affetto era sincero o nato da secondi fini. Se erano loro le responsabili di quel terribile inganno ai danni di Muso Bianco. Un giorno convocò la Signora Raganella e Madam Ghiro e annunciò loro:” Avete entrambe una figlia meravigliosa e una di loro diventerà mia moglie.” A tali parole le due matrone esultarono. Poi però precipitarono in una rabbia fredda e contenuta quando sentirono la seconda parte della proposta:” Però sappiate che alla mia morte, l’erede dei miei possedimenti sarà Muso Bianco e non mia moglie. Anche se non vive più con me, il mio servitore rimane e rimarrà sempre il mio unico erede.” “Come? - esclamarono le due traditrici, sconvolte, perdendo l’abituale prudenza e rivelando la vera natura del loro animo- preferiresti lasciare tutto il tuo patrimonio ad un misero e disgraziato topo, un servo senza condizione sociale e attrattiva piuttosto che alle nostre bellissime figlie? Noi facciamo parte della classe più abbiente dell’alta società del bosco. Frequentiamo l’élite delle famiglie più ricche e potenti. E ti daremmo in matrimonio una gemma che, dopo anni di sacrificio per esserti vissuta accanto, averti servito e sopportato, rimarrebbe a bocca asciutta?” L’astuto notaio riconobbe una profonda grettezza e avidità nella loro violenta reazione. La maschera era caduta e la Signora Raganella e Madam Ghiro, continuarono ad inveire e ad insultarlo, dandogli la certezza della responsabilità di ciò che era accaduto. Muso Bianco aveva ragione! Le due infide avevano architettato i due astuti incidenti per allontanare dalla sua vita il fedele servitore e renderlo bisognoso di cure e affetto. Rana Bruna aveva capito lo scaltro piano così, senza perdere tempo, aveva buttato fuori dalla tana le due delinquenti e si era precipitato a cercare Muso Bianco che, nel frattempo, era andato a vivere nel tronco di un albero caduto, cercando di sopravvivere al dolore e agli stenti. Il notaio, trafelato ed ansimante dopo una lunga corsa, lo aveva raggiunto e abbracciandolo con affetto, gli chiese perdono. Fra i singhiozzi, gli raccontò tutto, compreso lo stratagemma per smascherare le due farabutte e i loro piani per mettere le mani sulle sue ricchezze. Affranto e pentito, Rana Bruna chiese al topo di tornare a lavorare per lui e giurò che mai più avrebbe dubito della sua onestà e rettitudine. Dolce e arrendevole, Muso Bianco lo perdonò immediatamente, perché il suo cuore era buono e non conosceva astio o rancore. Quel giorno, insieme, ritornarono nella tana del notaio e in breve tempo il servitore mise tutto a posto. Quella sera finalmente, allietato dalla compagnia del ritrovato collaboratore, Rana Bruna godé di una cena appetitosa. Qualche ora dopo, davanti ad uno scoppiante fuoco e mescolando il costoso e ambrato scotch nel tondo bicchiere, l’opulento proprietario rifletteva quanto il fedele servitore fosse stato il vero punto di riferimento della sua esistenza. Discreto, umile e devoto, il topo era sua più grande ricchezza! Così l’indomani furono due le importanti decisioni che il notaio prese. La prima, naturalmente, fu di sfrattare le due megere traditrici, la Signora Raganella e Madam Ghiro. La seconda Muso Bianco la conobbe tanti anni dopo, alla scomparsa terrena di Rana Bruna. Il servitore scoprì di essere stato nominato l’unico erede delle immense ricchezze che in quegli anni, anche grazie anche a lui, il notaio aveva accumulato. Gli abitanti del bosco rimasero sconvolti e sconcertati alla notizia che un misero servitore, l’ultimo fra gli ultimi, fosse diventato così ricco e potente. Bontà, affetto e fedeltà erano stati premiati, invisibili ricchezze che il servitore aveva donato al suo datore di lavoro in tutti quegli anni. E in seguito, chiunque domandasse a Muso Bianco, per quali nascoste ragioni era stato nominato unico erede, visto che era sempre stato solo un misero servitore, perché nel bosco gli animali come lui, non contano niente, lui rispondeva commuovendosi: “Io per il notaio non ero solo un piccolo e misero topo!” Racconto e immagine di Lucina Cuccio Dedicato a mio marito e a mia figlia #lucinacuccio #clescartoons #fiaba #fantasy