domenica 4 dicembre 2016

IL CASTELLO DIMENTICATO

IL CASTELLO DIMENTICATO Avevo sempre detestato i viaggi organizzati, a differenza di mio fratello Giuseppe. Ma anche quest’anno non avevo potuto sottrarmi alla terza tortura che i miei genitori mi avevano inflitto. Sì, perché tre anni prima eravamo andati a visitare i castelli della Loira, poi l’anno scorso siamo andati a vedere i castelli della Baviera e quest’anno la meta erano i castelli della Scozia. Per dieci giorni mi sarei dovuta alzare alle sei del mattino, consumare colazioni veloci, fare e disfare i bagagli ogni due giorni e sorbirmi interminabili spiegazioni delle guide turistiche sull’origine e la storia dei vari castelli…e io odiavo i castelli! Barbosi, vecchi, polverosi inni del passato. Invece i miei genitori, Maria, insegnante di Arte e Fabio, medico curante e anche mio fratello, più grande di me di tre anni, tutti e tre andavano matti per le antiche regge. Davanti ad immensi saloni dell’ottocento, cinte murarie, ponti levatoi, oscure segrete, ascoltavano rapiti fatti e avvenimenti storici avvenuti nei luoghi che visitavamo, mentre io mi annoiavo a morte. Per di più io non sopportavo ciò che era vecchio. Avrei voluto vivere in una casa ultramoderna, mentre mio padre era fissato con i mobili antichi e nel nostro appartamento tutto era vetusto. Ogni mobile era appartenuto ai bisnonni, ed ereditato dai miei genitori quando si erano sposati. Più che una casa, dove vivevo sembrava un antico e polveroso museo. Di nuovo c’era solo la televisione e gli elettrodomestici della cucina. “Elena, impensabile che tu rimanga a casa da sola!- sbraitava sempre mia madre quando osavo proporre, alla vigilia della partenza, di non partecipare al viaggio organizzato- hai solo sedici anni. E ti ho sempre detto che la famiglia si muove tutta insieme. Soprattutto per le vacanze estive!” Brontolavo fra me e me, riponendo calze e pantaloni nel trolley, mentre mio padre rincalzava la dose:” Ha ragione la mamma. Questi viaggi, oltre ad essere interessanti sono una buona occasione per fare qualcosa tutti insieme. E se tu detesti i castelli e le cose antiche, non possiamo farci nulla. Anche io odiavo la cipolla…e sapessi quanta ne ho dovuta mangiare quando tua nonna cucinava!” Esasperata, collegavo le cuffie al cellulare per sentire il mio youtuber preferito e isolarmi da quel coro di proteste parentali che a volte, davvero esageravano. La mia famiglia è sempre stata un po’ all’antica, e delle mie amiche, ero la sola che alla mia età, ancora non aveva il permesso di uscire da sola la sera. Infinite discussioni con i miei genitori per poi ottenere solo due ore di autonomia, il sabato pomeriggio, per prendere un gelato in piazza con le mie amiche. Poi loro(fortunate!) raggiungevano gli altri compagni del liceo per andare a mangiare la pizza e finire la serata in discoteca, mentre io(misera) ritornavo a casa con la coda fra le gambe, ribollendo di rabbia e di ingiustizia. Ciò che mi faceva imbestialire era che mio fratello Giuseppe, al primo anno di università, aveva tutta la libertà che voleva. Esclusi naturalmente, alcolici, fumo e amici strani. Però, dopo aver finito di studiare, poteva uscire, e il sabato andare in discoteca e rincasare quando voleva, mentre io avevo ancora la catena al collo. Un giorno, avevo osato chiedere di uscire con lui, almeno per non passare da sfigata davanti a tutta la mia classe. Tutti i miei compagni sapevano delle restrizioni alla mia libertà, ma il traditore di mio fratello si era categoricamente rifiutato. “Uscire con me- aveva esclamato, inorridito- e se rimorchio una ragazza, tu che fai?” Tentavo di persuaderlo in tutte le maniere, ma le poche volte che avevo osato riparlarne, Giuseppe ringhiava: “ Elena, tu con me non esci! Mi rovineresti la piazza…e magari spiffereresti chissà cosa su di me! Io le conosco le sorelle minori…pronte ad inventarsi assurde scemate per demolirti la serata.” Così non avevo alleati in casa. Per di più, dietro le lenti spesse degli occhiali, mio padre bonariamente cercava di convincermi che le “ faccende domestiche” servivano a forgiare la volontà, oltre ad essere educative, così il sabato potevo aiutare in casa, mentre mia madre meno diplomatica, sbraitava che non poteva fare tutto lei, e che almeno io mi dovevo occupare dei piatti la sera e la mattina, e della pulizia della mia camera, il sabato sera. Risultato: il fine settimana passato sui libri e a pulire sotto il mio letto… e perfino le vacanze estive erano un supplizio. Avrei tanto voluto andare al mare, come tutte le mie amiche, visto che abitavano in un paesino del nord Italia, mentre la mia famiglia stravedeva per le visite culturali. E quell’estate eravamo partiti lo stesso! Tre giorni dopo, non ne potevo più! Quella mattina avremmo dovuto raggiugere con il pullman, l’antico castello della famiglia dei Conti Mackenzie, tetro e isolato fra le montagne scozzesi delle Highlands. La guida, lungo il tragitto, ci aveva informati che l’ultimo discendente aveva aperto da poco, la sua dimora ai visitatori. Così, quel castello sperduto e inaccessibile, era diventato ambita meta turistica e dopo due ore di viaggio, il pullman aveva parcheggiato nel grande piazzale, fuori le cinta murarie della fortezza. La prima impressione che ebbi, fu di una enorme montagna grigia. Ma, dietro l’arco che collegava l’ingresso, svettavano torri e torrette, tetti decorati da merlature ed enormi vetrate di cristallo. Tutto mi appariva grigio e vecchio, mentre il gruppo di turisti con cui facevamo il viaggio, era grande visibilio e non mancavano numerosi gridolini di apprezzamento. Dopo innumerevoli portoni e corridoi, antichi quadri e mobili sfarzosi, entrammo in una grande sala il cui camino era più alto di me. Un lungo tavolo di legno massiccio e pesanti sedie lo circondavano e trofei di caccia lungo le pareti rendevano l’ambiente tetro e sinistro. La mia famiglia invece sembrava impazzita dall’entusiasmo, e tutti continuavano a fotografare ogni particolare che notavano, mentre io, stufa di sentire continui complimenti sulla ricchezza del luogo e la sua magnificenza, decisi di staccarmi dal gruppo e gironzolare per i fatti miei. Lasciai la sala degli orrori, girando a destra, percorsi un corridoio che accedeva ad una scalinata circolare. Salendo i gradini, continuavo ad osservare i ritratti degli antenati di questo famoso conte, che mi sbirciavano dai loro ridicoli abiti medievali, scuri e altezzosi. Quei volti pallidi, mi davano fastidio. Come fantasmi appesi alle pareti, donne incipriate e perfino bambini, seguivano i miei passi. Piccole dame e paggi con vicino cani e giochi infantili, sospesi sulle grigie pareti secolari, accompagnavano la mia perlustrazione. Giunsi ad un altro corridoio, e senza volerlo, aprii la seconda porta, ignorando la prima. La maniglia, cedette facilmente, e mi ritrovai in una grande stanza. A bocca aperta, notai subito un grande letto con una coperta rosa, piena di peluche e accanto ad una moderna toilette, un armadio e moderne librerie e quadri. Alle pareti, poster di sconosciuti cantanti. Mi avvicinai alle foto sul comodino, e rimasi colpita da un’istantanea di una ragazza. Chi aveva scattato quell’istantanea, l’aveva sorpresa a truccarsi allo specchio. Forse si preparava per una festa. Scrutai il profilo, e mi sembrò molto carina. In un’altra foto, la stessa ragazza abbracciava un cane. Sembrava un Collie. Riconobbi le mura esterne del castello. Riposai la foto e mi avvicinai alle tende di pesante velluto rosa delle finestre. Il lontananza, le montagne e i boschi, su un cielo blu da cartolina, turbarono la mia anima . Io, quel paesaggio l’avevo visto…ma quando? Mi guardai di nuovo, intorno. Fissavo, lentamente, come una lente d’ingrandimento i mobili, la lampada sul comodino, il tappeto, i poster…e lentamente, con orrore, mi sembrava di riconoscere quegli oggetti. Immagini sbiadite, micro flash che impazzavano nella mia mente. Poi buio e di nuovo, particolari indefiniti…sfuocati….impalpabili. Come fumo nell’oscurità. Boccheggiavo…io quella stanza la ricordavo bene…quella coperta l’avevo scelta io. I peluche mi erano stati regalati…mi sentii soffocare davanti a ciò che non avendo mai visto, riconoscevo. “Chi è lei?” mi domandò in inglese, una voce profonda alle mie spalle. Mi voltai di scatto, e mi ritrovai un giovane uomo, sulla trentina. Un sguardo astioso, come una lama blu ghiaccio, mi trapassò da parte a parte. Spaventata, e ancora sconvolta, per le sensazioni che quel luogo mi aveva suscitato, farfugliai misere scuse nella sua lingua. Mi diressi verso la porta, quando lo stesso uomo, cambiando tono, mi chiese:” Lei è italiana, vero?” Non so perché mi bloccai. Sulla soglia, mi girai e gli risposi nel mio stentato inglese:” Sì. Sono arrivata con il gruppo di turisti.” Non mi fidavo di quell’estraneo. Chi era? Faceva parte del personale del castello? Stavo proprio per andare via, quando lo riconobbi in un’altra foto, sopra la toilette, abbracciato alla ragazza delle altre istantanee. Un primo piano di entrambi, e lui, molto più giovane di ora. Notai però immediatamente la somiglianza. Lo sconosciuto, captando il mio sguardo, mormorò. “Era mia sorella Anne.” Rimasi male, sentendo che parlava di quella ragazza, al passato. Il suo sguardo mesto mi fece capire che sua sorella non era più viva. Inghiottii amaro. E mi resi conto che quello sconosciuto faceva parte della famiglia dei proprietari del castello. Ricordando le parole della guida, gli chiesi. ”Lei è il conte Mackenzie?” Una fila candida di denti, abbozzò un sorriso:” Sì sono io…ma mi può chiamare Tom. Lei come si chiama?” Mi sentii un’idiota. E chi aveva mai parlato con un conte? I nobili facevano parte di un mondo a me alieno. Gli risposi, a disagio:” Mi chiamo Elena-e fissando le foto, continuai-mi spiace, non volevo curiosare.” Chissà se nel mio terribile inglese, mi ero espressa correttamente. Tom prese in mano la foto della sorella, fissandola con nostalgia:” Avevo sedici anni quando è morta. E da quel momento, la nostra vita non è stata più la stessa. I miei genitori hanno mantenuto la sua camera intatta. Niente è stato cambiato da allora.” Per la prima volta, gli sorrisi, commentando: “E’ una bella stanza…molto diversa dal resto del castello.” Tom, alzando lo sguardo, mi fissò incuriosito. Dal mio commento emergeva chiaramente che del maestoso castello, non mi importava niente, ma quella stanza mi piaceva molto. Stavo per chiedere com’era morta sua sorella, quando, in lontananza, sentii chiamare il mio nome. Non dissi niente, e salutandolo frettolosamente, raggiunsi i miei genitori. Tom rimasto solo, mormorò:” Strana ragazza. Avrei giurato che anche lei, come mia sorella, odiava i castelli.” Lasciai quel posto, con un misto di tristezza e sollievo. Il pullman, veloce, si allontanava da quei luoghi, che ora, mi erano familiari. Non capivo perché mi sentivo così strana, ma per fortuna, qualche ora dopo, arrivata in albergo, il turbamento si era affievolito. La mattina seguente avevo dimenticato tutto, convinta che le strane sensazioni di déjà-vu che la stanza mi aveva ispirato, erano solo mie fantasie, dovute sicuramente al tetro luogo in cui mi trovavo. Impossibile credere nella reincarnazione….per quanto mi riguarda, io non ho mai creduto a queste leggende! Per fortuna però, non seppi mai dove si recò l’ultimo discendente della casata, l’indomani del nostro incontro. Nella cappella di famiglia, a ridosso della piccola chiesa del castello, Tom portò dei fiori sulla tomba di sua sorella Anne. Rimase a lungo a fissare la foto ovale sul bianco della lastra di marmo e la data incisa in caratteri dorati. “Anne Mackenzie, nata il 15 Aprile del 1984- morta il 18 giugno 2000.” 18 giugno 2000…Il giorno in cui Anne morì è lo stesso giorno in cui sono nata io.

domenica 16 ottobre 2016

GLI OCCHI DI DIO

GLI OCCHI DI DIO Tanto tempo fa, in una bella famigliola felice, nacque un bimbo che fin dal primo istante fu amato e adorato sia dai genitori che dai fratelli. Gli fu dato nome John e crebbe pieno di gioia e vita. Alle scuole elementari, le maestre si accorsero però che aveva un difetto agli occhi. Riusciva a vedere tutti i colori tranne il nero. Per John il nero era simile al bianco, così i dettati del bimbo, le operazioni e i disegni erano scritti con gli altri colori…come il blu…il rosso…il verde. Ma al piccolo non importava se vedeva la realtà senza il colore nero. Il mondo gli sembrava bellissimo ugualmente. Il bambino restava rapito dall’azzurro del cielo, dal giallo del sole…dai colori del tramonto. John aveva tanti amici e le persone rimanevano colpite dalla sua vivace intelligenza, dalla profondità d’animo e dalla sua arguzia. Chiunque rimaneva affascinato dalla speciale personalità, ma soprattutto dal suo cuore. E per John, tutte le persone erano fantastiche. Provava affetto e simpatia per tutti. Non faceva nessuna distinzione né sociale né religiosa. Soprattutto per il colore della pelle. Tutti gli uomini erano uguali. Quando la gente discuteva di razzismo e di avversione contro chi era diverso da loro, John non capiva. Le persone di colore non le distingueva dalle altre persone. Certo, a volte si incuriosiva per questo misterioso colore nero che lui non riusciva a vedere e che, a quanto pare, era tanto importante per l’umanità, ma per lui, l’umanità era fatta da uomini identici a lui. Gli anni passarono e terminati gli studi, John divenne maestro di scuola elementare. Amava lavorare con i bambini, ed era bravissimo a spiegare. Tutti gli scolari rimanevano a bocca aperta quando lui raccontava di Giulio Cesare….della scoperta dell’America…o del suo romanzo preferito “Viaggio al centro della Terra”. Ogni ragazzino stravedeva per quel maestro, mite e gentile, che voleva bene a tutti e non conosceva distinzione fra gli alunni. John voleva fare la differenza, rendendo la scuola una grande famiglia dove tutti erano i benvenuti. Così la fama del maestro si sparse e le famiglie della città lo adoravano. Tutti volevano essere suoi amici. Le persone lo consideravano davvero un dono del cielo. Passarono così gli anni e John si sposò, ebbe figli e nipoti, e così come accade a tutti, divenne anziano. Ma un triste giorno, quell’uomo così speciale, si ammalò. E pochi giorni dopo, sentì che la sua fine era vicina. Stava lasciando questa vita felice e soddisfatto di ogni sua azione. Ma nei suoi ultimi minuti di vita, rivolse una preghiera al cielo: “Dio mio- pensò John mentre le forze lentamente lo abbandonavano-sei stato buono con me. Ho avuto una vita lunga e felice…ma ti prego. Esaudisci la mia ultima preghiera. Fammi vedere, per una volta, il colore nero. Per una sola volta, fammi vedere come vedono tutti gli altri uomini.” Il cielo esaudì la sua preghiera, e gli occhi di John videro per la prima volta, la realtà così come la vediamo tutti. Non c’era mica tanta differenza! Ma sua camera da letto era piena di persone che lo guardavano con affetto e pregavano per lui. L’intera casa era piena di gente….fuori il giardino, e lunga la strada, centinaia di amici e conoscenti, invocavano Dio e cantavano per lui…. L’intera città vegliava i suoi ultimi istanti di vita. John rimase a bocca aperta per la presenza di tante persone… l’intera città gli voleva bene! E si accorse, con sua grande meraviglia, che tanti di loro avevano la pelle nera. Realizzò che grande dono aveva ricevuto alla nascita. Lui guardava il mondo esattamente come lo guarda Dio….perché Dio non fa nessuna distinzione fra gli uomini, soprattutto per il colore della pelle. Lucina Cuccio 16/10/2016

mercoledì 12 ottobre 2016

IL PRINCIPE SENZA CUORE

IL PRINCIPE SENZA CUORE C’era una volta, tanto tempo fa, un castello maestoso, circondato da bellissimi monti e verdi boschi. Quiete e rettitudine albergavano fra le imponenti mura, e ogni funzionario svolgeva onestamente il suo lavoro. Era un regno prospero e felice, e anche i sovrani erano buoni e giusti con la popolazione. Ma la loro vita perfetta nascondeva un terribile segreto…il loro unico figlio, erede al trono, era nato senza cuore. Alexandre, bellissimo principe della monarchia reggente, non sapeva amare. Non provava alcun sentimento, per nessun essere vivente. Le persone non lo interessavano. Non aveva mai amato né toccato una persona. Semplicemente non sentiva alcuna emozione né per gli uomini né per gli animali. La sua anima era vuota, arida come un deserto. Non era un uomo cattivo, ma per lui la vita scivolava via senza passione e partecipazione. Per ore rimaneva nel suo studio, un grande sotterraneo del castello, fissando il fuoco, perso nei suoi pensieri. Era interessato alle scienze e alla filosofia, allo sport e alla caccia, ma per Alexandre era la medesima cosa essere in compagnia della corte o da solo. Le persone erano invisibili e perfino i suoi genitori gli erano indifferenti e li tollerava solo per obbligo morale. Un giorno però, convocato dal re e dalla regina, gli fu comunicato che era prossimo a salire al trono. Il re, stanco e provato, non riusciva a svolgere bene i suoi innumerevoli impegni regali. “Tu sai cosa significa, vero figliolo?” gli chiese il padre, preoccupato. I capelli ramati del figlio brillavano sotto le candele del lampadario, ma lo sguardo del principe divenne vitreo. Sibilando Alexandre mormorò: “Devo prendere moglie, vero?” Improvvisamente nella sala del trono cadde un silenzio pesante e fra i sovrani e il principe scese il gelo. “No-rispose il giovane-non desidero nessuno accanto a me.” La madre lo guardò sconsolato: “Mio caro, tuo padre è troppo stanco per governare. Quindi dovrai salire tu al trono ma per farlo, devi sposarti! E anche generare un figlio. Se no perderai la corona!” Il principe era sconvolto. Sapeva che quello che gli era stato comunicato era vero. Il padre era troppo vecchio per governare, quindi toccava a lui occuparsi del regno. Ma come avrebbe fatto a sposarsi? E peggio ancora, ad avere un figlio? Niente lo interessava. Le donne erano per lui, fredde statue di marmo. Lasciò quindi la sala del trono, e uscito dal castello, galoppò via, dirigendosi dall’unica persona che poteva aiutarlo. La strega del bosco, Marelinga, che viveva nel folto della foresta. Fin da bambino conosceva la leggenda dell’anziana fattucchiera che nessuno voleva incontrare. Tutti erano al corrente dei suoi enormi poteri, ma l’intero regno si teneva alla larga dalla sua immane cattiveria e perfidia. Il principe sapeva che Marelinga aveva trasformato un enorme drago, in una lucertola innocua. Aveva bruciato, con il solo sguardo, un intero campo di grano, e ghiacciato con un semplice gesto della mano, un fiume in piena. La maga, esperta nelle arti occulte, preparava filtri e pozioni magiche. Pochi contadini, disperati, avevano chiesto il suo aiuto ma avevano pagato un prezzo molto alto per averlo fatto….alcuni, perfino, perdendo la vita. Ma Alexandre non aveva scelta e quando arrivò alla capanna, la strega lo stava aspettando fuori. “ Sapevo che saresti arrivato. E non ho sbagliato nemmeno l’ora.” Il principe gli porse la mano, gesto democratico, senza però abbassare la guardia. La strega sembrava un’innocua vecchietta, ma sotto la grinzosa pelle, si nascondeva un mostro. “Entra nella mia capanna-lo invitò la fattucchiera-ti ho già preparato un filtro che risolverà il tuo problema.” Alexandre, nascondendo i suoi dubbi e timori, la seguì nella capanna. Marelinga gli mise subito in mano un’ampolla piena di un liquido verde. “Altezza-gli disse- sei nato senza cuore e per averlo, devi rubarlo a qualcuno. Ma la persona a cui devi toglierlo, deve portare il tuo nome ed essere tuo pari. Quindi puoi scegliere se prenderlo ai tuoi genitori o alla tua futura moglie.” Il principe fissò il liquido della pozione, aggrottando la fronte. Non aveva dubbi a chi avrebbe fatto bere il filtro magico…naturalmente alla sua futura moglie. Benché non amasse i suoi genitori, era legato ad essi da vincoli morali che non poteva infrangere. Mentre la moglie, era in fondo, un’estranea. “Cosa vuoi in cambio del tuo aiuto?- le chiese Alexandre-oro, gioielli, terre?” La maga, sorrise enigmatica. ”Nulla. Consideralo un regalo di nozze.” Il principe lasciò la capanna, con una strana sensazione. Poteva fidarsi di quella strega? Però non aveva tempo per indagare. Il padre e la madre pretendevano al più presto la sua risposta definitiva, caso contrario, avrebbero cambiato la legge, e il potere temporale del regno sarebbe passato al parlamento. Così tornato al palazzo, comunicò la decisione che avrebbe accettato di sposarsi e scelto la sua futura moglie al ballo ufficiale. Pochi giorni dopo, furono invitate al ricevimento tutte le principesse dei regni vicini, informate che l’erede al trono, in quell’occasione, avrebbe dovuto scegliere la sua futura sposa. La grande sala del castello brillava per le migliaia di candele accese che illuminavano lo splendido salone. Arazzi e dipinti preziosi decoravano le pareti e il pavimento lucido di marmo, rifletteva la variopinta nobile gioventù accorsa per l’occasione. Fra le tante splendide fanciulle, Alexandre notò subito una bellissima principessa che non aveva mai visto. Elena, figlia dei sovrani d’oltremare, era di un fascino sconvolgente. Un manto d’ebano incorniciava una viso d’angelo. Leggiadra come una farfalla, fu immediatamente scelta da Alexandre come sua futura sposa. E così, dopo un mese, si celebrarono le sfarzose nozze, e Elena e Alexandre si sposarono fra mille festeggiamenti. La notte delle nozze, quando tutti gli invitati furono andati via, nell’intimità della loro stanza, il principe propose un brindisi. Senza farsi vedere, mescolò la pozione magica della strega, al vino, e porse la coppa alla sposa. “Grazie-rispose Elena, felice e ardente. La bellissima fanciulla fin da subito si era completamente innamorata di Alexandre-brinderò a noi e al nostro futuro.” Il principe vide la moglie avvicinare alle rosse labbra, la coppa che le aveva dato, e berne il contenuto. Elena, poco dopo, impallidì e fissò, stravolta, Alexandre. Contemporaneamente il principe avvertì, un calore divampante e un fuoco ardente riempirgli il petto. Per la prima volta, nella sua vita, sentì palpitare l’anima, e desiderio, amore, passione lo travolsero come un oceano, davanti alla sua bellissima sposa. Ma mentre la moglie, pian piano, si raggelava, Alexandre, si infiammava sempre di più e finalmente sentì nel petto, battere freneticamente un cuore. Il suo nuovo cuore. Provò a stringere al petto la moglie, ma ella, gelida come il ghiaccio, lo respinse. “Perché?-gli chiese il principe-perché non posso abbracciarti? Sei mia moglie!” Elena, glaciale, mormorò: “Lo so che sei mio marito. Ma non so cosa mi accade…so solo che non sento nulla per te…mi sei indifferente, come un estraneo.” La moglie lo fissava con il vuoto negli occhi, poi indietreggiò lentamente e si sedette accanto al fuoco. Sembrava molto più interessata ale fiamme del caminetto che a lui. Il principe era stravolto. Cosa mai era successo? Ora aveva un cuore nuovo, caldo e palpitante, e l’unico desiderio che provava era stringere fra le braccia sua moglie. Ma Elena sembrava fredda e distante come il ghiaccio. Il principe, con sgomento, si accorse allora che la sua bellissima moglie, ora aveva il suo stesso sguardo, quello sguardo vuoto e indifferente che aveva lui, fino a qualche minuto prima. Alexandre provò e riprovò a parlare con la moglie, per tutta la notte. Cercò di persuaderla, di convincerla che lui l’amava e desiderava solo starle accanto e poterla amare. Ma lei non volle assolutamente che lui si avvicinasse. L’indomani mattina la sposa pretese di trasferirsi in un’altra camera del castello, con sgomento dei sovrani e di tutta la corte. Così neosposi dormirono in stanze separate, per tutti gli anni avvenire. Ciò che era avvenuto era incredibile. Alexandre aveva rubato il cuore della moglie, ma mentre lui ora ardeva d’amore per Elena, lei aveva perso la sua capacità d’amare, diventando fredda e indifferente come una statua di marmo. Esattamente come era stato il principe da quando era nato. Alexandre non salì mai sul trono, e passò tutta la vita a struggersi e tormentarsi per la moglie, che non ricambiò mai il suo amore. E ogni notte, l’infelice principe aveva l’impressione che qualcuno ridesse di lui.

domenica 9 ottobre 2016

THE HANDS OF TIME

The Hands OF Time-by Lucina Cuccio Time lived in a lost castle steeped on a mountain top. All day time would weave baskets of fruit for those he wanted to seduce. Once their souls were bought he kept them in oblivion made of false parties, forcing them to dance until they almost died. Time had many forms but his soul was evil and inexorable. He had no pity and could buy anyones’ soul. Implacable with people, cruel with animals, he passed eternity laughing about the end of life. Nothing had ever stopped him. Every person he kidnapped and brought into his domain aroused in this monster a certain kind of interest. Many men for their power, women for their beauty and animals because he realized that their numbers were diminishing rapidly. Time enjoyed himself lengthening the minutes of those who suffered and accelerating the days of those who were happy. In this way, much of life ended quickly and time enjoyed watching it fade away rapidly. When he decided that a persons’ life had to end in the dance of death, he made them taste the sweet fruits of the baskets .From that minute every living being lost in the oblivion of unconsciousness fell prey to tiredness, hunger and thirst. Time had no heart and was very vain. One day he took on the form of a delicate young girl and walked among men. He was looking for his prey when he spotted a young hunter who had just killed a deer. The animal had not been quite dead so the young man had finished it off with his bare hands. Time was fascinated with this kind of cruelty and decided to acquaint himself personally with the young man. So under the guise of this delicate young girl, he walked up to the hunter and presented himself as a young country girl. The youth was dazzled by such beauty and a few hours later, captured by the conversation and laughter between them, they started towards his hut. Time had never felt so emotional. He hid the basket of fruit and from that day lived in the hunters home with him. The hunter wanted to marry the young girl and the whole village turned up for the wedding. And so they were husband and wife. After some time, time realized “she” was going to have a child. “She” was flabbergasted at such a miracle. Never would “she” have thought that the body “she” had adopted could actually fall pregnant! So “she” ran to look for the husband in the forest to tell him the good news. But the hunter, taking another path, arrived at the hut before his wife, and starving, looked frantically here and there for something to eat. Opening the chest where he thought he would find the dried meats, under plates and pots and pans, he discovered the basket of fruits. With great gusto he tasted an apple and from that moment fell into a strange oblivion and began dancing around the house. A few minutes later Time returned home and found her husband like an automatum sweating and tired dancing around agitating himself like a madman. Petrified and surprise, she immediately noticed the basket and the bitten apple that had fallen on the floor. All time’s efforts to nullify the very rules he had established were in vain.Time lost ‘her” husband, who after a few days was struck down by thirst and tiredness, as well as the child in “ her” womb. “She” felt disappointment and pain in those days in the hut watching “her” husband dance himself to death. Upset and desperate, Time returned to his mission even more cruel and ruthless than before. But in the following decades, he never again assumed the form of a woman. Humanity realized that in the last decade the days flew by as if the minutes had been shortened. Many people blamed the modern era and the frenetic rhythms of life, but in reality, Time had decided that the existence of humanity had to be ultimately shortened.

domenica 18 settembre 2016

LE MANI DEL TEMPO

LE MANI DEL TEMPO Il tempo abitava in uno sperduto castello, arroccato sopra un monte. Tutto il giorno intrecciava ghirlande di frutta per coloro che voleva sedurre. Una volta comprata la loro anima, li teneva prigionieri in un oblio fatto da finte feste, costringendoli a danzare finché non morivano. Il tempo aveva tanti corpi ma possedeva un’anima cattiva e inesorabile. Non aveva pietà per nessuno e poteva comprare l’anima di chiunque. Implacabile con le persone, crudele con gli animali, passava l’eternità ridendo della fine della vita. Niente era mai riuscito a fermarlo. Ogni persona che rapiva e portava nella sua dimora, aveva suscitato nel mostro, un certo interesse. Molti uomini per il loro potere, donne per la loro bellezza e animali perché si era accorto che il loro numero diminuiva velocemente. Si divertiva a rallentare i minuti di coloro che soffrivano e accelerava i giorni delle vite felici. Così molte esistenze finivano velocemente e il tempo gioiva nel vederle rapidamente spegnersi. Quando decideva che la vita di una persona doveva terminare nella danza mortale, faceva assaporare loro il dolce sapore dei frutti delle sue ghirlande. Da quel minuto, ogni essere vivente, perso nell’oblio e nell’incoscienza, ballava forsennatamente, preda del sonno, della fame e della sete. Il tempo non aveva cuore ma era molto vanitoso. Così un giorno assunse l’aspetto di una dolce e delicata fanciulla e scese fra gli uomini. Cercava la sua preda quando vide un giovane cacciatore che aveva appena ucciso un cervo. L’animale non era morto e il bellissimo ragazzo l’aveva finito con le sue mani. Il tempo rimase affascinato da una simile crudeltà e decise che avrebbe conosciuto il cacciatore di persona. Così, sotto le sembianze di una delicata fanciulla, si avvicinò al ragazzo, presentandosi come una giovane contadina. Il giovane rimase abbagliato da una simile bellezza e poche ore dopo, entrambi rapiti dalle chiacchiere e le risa, si avviarono nella capanna del giovane. Il tempo non si era mai sentito così emozionato. Nascose la ghirlanda di frutta, e da quel giorno, abitò come una sposa, nella casa del cacciatore. Il giovane volle sposarlo e l’intero paese partecipò alle nozze. Così passarono i mesi e il tempo aveva rallentato la sua attività omicida, per dedicarsi alle sue mansioni di moglie e sposa. Mai, nel corso dei millenni, era stato così felice. Un giorno, con sua grande sorpresa, si accorse di aspettare un bimbo. Il tempo era esterrefatto da quel miracolo. Ma avrebbe immaginato che il corpo che stava usando potesse generare un figlio, così corse nel bosco a cercare il marito per comunicargli la notizia. Ma il cacciatore, prendendo un altro sentiero, era arrivato nella capanna prima della moglie e, affamato, aveva cercato qualcosa da mangiare. Cerca qui e cerca lì, aveva aperto la cassapanca, dove pensava fosse la carne secca, e sotto piatti, pentole e coperchi, aveva invece trovato la ghirlanda di frutti. Con gusto aveva assaporato una mela, e da quel momento, cadde in uno strano oblio e cominciò a danzare per tutta la casa. Qualche minuto dopo, il tempo tornò nella capanna e trovò il marito, come un automa, sudato e stanco, ballare agitandosi come un forsennato. Impietrito dalla sorpresa, si accorse subito della ghirlanda prelevata dalla cassapanca e della mela appena morsa e caduta a terra. A nulla valsero tutti gli sforzi che fece per annullare le regole che lui stesso aveva stabilito. Il tempo stesso esisteva di quelle leggi e nessuno, nemmeno lui poteva annullarle. Il tempo perse il marito, qualche giorno dopo, stroncato dalla sete e dalla stanchezza, e anche bimbo che portava in grembo, per il dispiacere e il dolore che provò nei giorni passati nella capanna, a veder ballare come un matto il consorte. Sconvolto e disperato, il tempo tornò alla sua missione, ancora più spietato e crudele, ma nei secoli che seguirono, non assunse mai più sembianze di donna. L’umanità si accorse in seguito, che nell’ultimo secolo, i giorni volavano, come se i minuti si fossero accorciati. Tante persone diedero la colpa alla modernità e ai ritmi frenetici della vita, ma in realtà, il tempo aveva deciso che l’esistenza dell’umanità doveva essere ulteriormente accorciata.