sabato 26 dicembre 2015

LA PASTASCIUTTA DI BABBO NATALE

LA PASTASCIUTTA DI BABBO NATALE Era la notte del ventiquattro dicembre e Babbo Natale stava facendo gli straordinari. Aveva visitato milioni di case, sceso innumerevoli camini e lasciato migliaia di doni. Ma era notte fonda e si sentiva stanco. Ogni bambino gli aveva lasciato sul tavolo, in ricompensa del regalo ricevuto, latte e biscotti e Babbo Natale non ne poteva proprio più! Di latte e biscotti ne aveva fin sopra la cima dei capelli e moriva dalla voglia di mangiare qualcos’altro. Così, con il desiderio di cibi salati, scese l’ennesimo camino di una bella villetta di città. Pensava:” Appena torno al Polo Nord voglio organizzare un pranzo di natale con i fiocchi! Dirò ai folletti di procurarmi subito tacchini e fagiani, patatine fritte e la pasta al forno non deve mancare!” Con questi pensieri famelici arrivò in salotto e trovò un bellissimo albero con numerose palline di vetro colorate, luci intermittenti , un presepe realistico e il resto della stanza decorata con vischio e ghirlande. Era contento di trovare una simile atmosfera natalizia così, soddisfatto, lasciò qualche regalo in più. “Sono convinto-pensava fra sé e sé-che i genitori di questi bambini siano delle gran brave persone. Hanno fatto un ottimo lavoro con gli addobbi e il presepio è fantastico!” Tutto compiaciuto, e ignorando i soliti latte e biscotti lasciati in bella mostra sul tavolo, accanto al presepe, stava per entrare nel camino e risalire la canna fumaria, quando un meraviglioso profumo di aglio e peperoncino colpì le sue narici. Ingolosito, si diresse verso la cucina. Sul tavolo apparecchiato, troneggiava una bella zuppiera di pastasciutta fumante. Babbo Natale, che era molto ghiotto di spaghetti e fettuccine, si avvicinò al piatto e non resistette. Lasciato cadere il sacco con i regali a terra, si sedette sulla sedia e attaccò a trangugiare famelico, la pastasciutta, mugolando di piacere. Dopo diverse forchettate provò una strana sensazione…e cioè, di non essere più solo. Quindi si voltò e dietro di lui, seria e risentita, una signora in camicia da notte, con le mani sui fianchi, lo stava osservando. “Signor Babbo Natale-mormorò la donna con disapprovazione- i miei figli le avevano lasciato latte e biscotti in salotto. Lei invece ha mangiato la pasta di mio marito che, fra pochi minuti, torna dal lavoro. “ Il vecchietto, rosso in viso, come la giubba di velluto che indossava, balbettava scuse su scuse:” Ehm- disse schiarendosi la voce- sono mortificato! Ma vede, mia cara signora, ho la nausea di latte e biscotti mentre vado matto per gli spaghetti aglio, olio e peperoncino!” “Anche mio marito ne va matto!-replicò la signora risentita- ora per colpa sua, quando lui tornerà dal lavoro, non troverà nulla di pronto. Quegli spaghetti li ho cucinati con l’ultimo pacco di pasta che avevo in casa. Comunque riferirò il suo scorretto comportamento a chi di dovere!” Poche ore dopo, davanti al comitato per il controllo dell’operato di fate, streghe e creature fantastiche, Babbo Natale affrontò la giuria. Il presidente, scocciatissimo lo rimproverò aspramente:” Bella figuraccia che abbiamo fatto-abbaiava l’illustre amministratore- se la voce si sparge, tutte le persone penseranno che noi, esseri magici, non sappiamo comportarci come si deve! “ Babbo Natale, spostando il peso da uno stivale all’altro, mormorava scuse. “Così-sentenziò il giudice-ci vuole una punizione esemplare! Passerai l’intero giorno di festa ad aiutare il marito di quella signora nel suo lavoro!” “Cosa?- esclamò Babbo Natale sconvolto-e dovrei rinunciare ai festeggiamenti? Ai regali? E soprattutto al pranzo luculliano che i miei aiutanti stanno preparando?” “Esatto” ribadì, severo, il giudice. Babbo Natale piagnucolava addolorato “No…non è possibile!-poi soffiandosi il naso, chiese- e di cosa si occupa il marito? Che lavoro dovrei fare?” Il presidente, duro, sentenziò: “ Il marito di quella donna fa il cuoco. E tu dovrai aiutarlo in cucina!” Così il povero Babbo Natale, il giorno di festa, lavorò nella cucina del cuoco, non aiutandolo a preparare manicaretti ma lavando centinaia e centinaia di piatti, tormentato dai mille profumi di arrosti e lasagne che aleggiavano intorno a lui.

giovedì 17 dicembre 2015

LA GROTTA DELL'ACQUA

LA GROTTA DELL’ACQUA C’era una volta, tanto tempo fa, un piccolo paese montuoso. Gli abitanti erano abituati solo a lavorare, erano poco istruiti, superstiziosi e non avvezzi ad accettare le persone diverse. Dalla famiglia più povera del paese nacque un bimbo che, ahimè, aveva qualche problema fisico. Povero bambino, aveva un braccio e una gamba più corte dell’altra e inoltre il faccino era deformato. La levatrice quando diede il neonato alla madre, quasi svenne dal disgusto e il padre scappò a piangere in un’altra stanza, davanti agli occhi degli altri cinque fratelli. Non fu un giorno di festa per quella povera famiglia ma la madre amò quello sventurato figlio fin dal primo istante e lo tenne sempre vicino a sé, per proteggerlo e vegliarlo dalla cattiveria del mondo. I fratelli non lo avevano accolto bene e nemmeno il padre che non lo guardava mai né lo prendeva in braccio. Fu battezzato Styrka che in svedese significa forza. Ed in effetti, crescendo il bimbo mostrava una vivace intelligenza e grande forza di volontà. Le menomazioni fisiche non gli impedirono di imparare a camminare e già a quattro anni sapeva leggere e scrivere. Ma le sue notevoli doti intellettive non gli furono di nessun aiuto con le persone del paese. Additato come mostro, nessuno lo guardava, e quando usciva con la mamma, la gente cambiava strada pur di non incrociarlo. Per l’intero villaggio era una creatura orribile, uno scherzo della natura che andava evitato perché chissà cosa poteva succedere. I guai cominciarono quando Styrka fu mandato a scuola. Fin dal primo giorno, i compagni, superata l’iniziale paura, lo schernivano, lo insultavano, lo isolavano e durante la ricreazione, gli tiravano anche le pietre se il povero bimbo cercava di avvicinarsi. Ogni giorno tornava a casa piangendo, ferito dai sassi e dai calci che i bambini gli tiravano. La mamma si recava spesso a scuola per lamentarsi con le maestre di ciò che accadeva al figlio ma nessuno poteva proteggerlo per tutto l’orario scolastico perché appena rimaneva solo, per pochi minuti, subito qualche bambino lo aggrediva selvaggiamente. Così Styrka crebbe solo, continuamente deriso e attaccato, ma nonostante tanta cattiveria, divenne un giovane mite e buono. Terminata la scuola, il padre lo mandava a fare la guardia al piccolo gregge di pecore della famiglia. Gli altri fratelli andavano a zappare per qualche contadino, sperando di portare a casa qualche soldo che serviva per la famiglia. Così gli anni passarono, il padre e la madre divennero anziani e alcuni dei fratelli di Styrka si fidanzarono. Crescendo, le deformità fisiche si fecero più evidenti, e il viso divenne una maschera grottesca. Alto come tutti i maschi della famiglia, ora il poveretto incuteva anche paura. Ma era un uomo buono, e dolce. Styrka infatti amava gli animali, adorava la musica e la lettura e dipingeva dei meravigliosi paesaggi. Ma tutto ciò era inutile poiché tutte le fanciulla del paese erano interessate solo ai giovani belli e piacenti e il povero deforme lo guardavano solo con repulsione e nausea. L’unica donna che gli parlava era la madre, il resto della popolazione femminile o lo evitava o lo ignorava e il poveretto si rendeva conto che avrebbe passato la sua vita da solo e senza una compagna. Un giorno, più triste del solito, Styrka portò le pecore su un’altura, più alta del prato dove di solito si recava, e nascosto da vari cespugli di nocciole, si accorse che c’era una piccola voragine fra l’erba. Incuriosito, si addentrò nel cunicolo, facendosi largo fra la paglia secca e i rami. Era così stretto che per procedere, doveva avanzare carponi. Era buio e angusto. Così Styrka tornò indietro a prendere una torcia che accese all’esterno e rientrò subito, illuminando il suo stretto cammino. Dopo qualche minuto, il cunicolo si allargò tanto che Styrka poté alzarsi in piedi e camminare invece di strisciare. La galleria divenne una grotta, le cui pareti erano lisce e luccicanti come vetro bianco, mentre il soffitto era coperto da stalattiti che scendevano giù, coperte di condensa gocciolante. Un forte odore di menta aleggiava nell’aria e lì dentro faceva caldo. Styrka giunse infine ad uno slargo che terminava in una piccola piscina verde. Un laghetto dalle calme acque che invogliavano a fare un tuffo. Ed infatti, tentato dalle acque pulite e dal caldo, l’informe giovane si spogliò, si sedette sul bordo ed entrò nel laghetto con la gamba più corta. Stava per mettere anche l’altra in acqua quando un dolore feroce alla gamba malata lo bloccò come una statua, facendogli trattenere il respiro. Strabuzzando gli occhi, preda convinto di follia e allucinazioni, vide la gamba deforme allungarsi e diventare in pochissimo tempo come l’altra. Allora scattò in piedi, guardando giù e vide le sue due gambe, uguali. Forti e muscolose, degne di un corridore professionista. “Non posso crederci!-esclamò balbettando sotto shock- o sto sognando o è un miracolo!” Styrka tremava, toccandosi la gamba, un tempo inferma e ora perfetta. Poi cadde in ginocchio, con le mani sulla pietra della grotta, singhiozzando accoratamente. “Perché ora piangi?” chiese una flebile voce. Styrka sussultò, spaventato. Si accorse che non era solo, e goffamente si coprì con i suoi vestiti quando si accorse che dall’altra parte del laghetto, una strana ragazza lo guardava incuriosito. Aguzzò la vista e si accorse che sembrava una fanciulla, anche se in realtà ricordava una grossa rana; molto goffa, sgraziata e scialba. Era coperta da un lungo straccio sfilacciato, aveva la pancia gonfia e le braccia e le gambe secche e ossute. L’orrenda ragazza era senza collo e con due occhi brutti e sporgenti. Styrka quasi gridò per la paura ma si trattenne per dignità. “Allora? Non sei contento di essere guarito?” Chiese la donna terrificante che, sdentata, sorrideva timida, seduta anche lei vicino il bordo del laghetto. “E se vuoi vuoi-continuò seriamente-puoi guarire anche l’altro braccio e il viso. Basta che tu ti immerga completamente nell’acqua.” Styrka ingoiava a vuoto. Aveva un nodo alla lingua e si sentiva ancora sottosopra ma ritrovò la voce: “ Davvero?-chiese stralunato-posso guarire del tutto?” “Prova” lo incitò la ragazza-rana. Styrka lasciò cadere i vestiti a terra ed entrò in acqua. Dolori simili ai primi lo colpirono sul braccio malato e in piena faccia e sentì le ossa e la pelle tirare, quasi spaccarsi e fondersi, quando ad un tratto, sul pelo della superficie, il braccio infermo riemerse, ma uguale all’altro. Uscì prontamente dal laghetto, gocciolante e inginocchiato sul bordo si specchiò sull’acqua e un giovane sconosciuto ricambiò il suo sguardo. Solo che quell’uomo, bellissimo e abbagliante era lui. Due profondi occhi blu come il mare erano incorniciati da lingue scure di capelli ebano. Il profondo sguardo di Styrka lasciò l’acqua per fissare la ragazza. “Non so più se sono io-le disse sincero- e non conosco il motivo di questo miracolo. Mi puoi dire tu cosa è successo?” E si alzò in piedi, rivestendosi. L’imponente giovane, ora bello come il sole, tremava per l’emozione e il turbamento. “ E’ semplice-rispose la ragazza-il lago ha poteri di guarigione. Ma possono guarire solo coloro che lo meritano. Per i malvagi la fonte è semplice acqua comune. Tu hai un cuore buono e la sorgente ti ha voluto donare la salute e la bellezza.” Styrka, incuriosito allora domandò. “ Ma tu chi sei?” La ragazza, nel frattempo aveva raggiunto il giovane. E più si avvicinava, più diventava brutta. “Io sono la guardiana della fonte-rispose intristendosi e fermandosi vicino a lui. Le ossuta braccia si strinsero allo scarno petto, tenendo con le scheletriche mani, lo straccio che la copriva. Styrka le sorrise, malgrado la bruttezza. “Non so davvero come ringraziarti. Per tutta la vita sono stato umiliato e maltrattato per le mie deformità. Ora quasi non mi riconosco e sento nel cuore un’immensa gioia, come un fuoco che brucia. E non capisco nemmeno cosa mi succede, sono confuso, e non so e se questa è la realtà e ho paura che mi sveglierò e mi ritroverò ancora un mostro…ma tu….” E si interruppe imbarazzato. “Io cosa?-chiese la padrona della fonte-vuoi sapere perché l’acqua non funziona con me? Vuoi sapere perché sono ancora un mostro?” Il bellissimo giovane annuì. L’orrenda donna era molto perspicace. “Sono io che ho scoperto questa fonte- gli confessò la ragazza- tanti anni fa, e io non avevo questo aspetto. Ero una bellissima ragazza. Quando una mia pecora trovò l’accesso alla caverna, la inseguii fino a questa laghetto. Cadde in acqua e quando la tirai fuori era diventata bellissima. Mai visto una lana così soffice e bianca e anche gli occhi erano cambiati. La mia pecora ora aveva gli occhi celesti! Così capii che la fonte donava la bellezza e io superba e orgogliosa com’ero, volevo diventare ancora più bella. Ma la fonte non ama i duri di cuore, gli altezzosi e i cattivi e così mi ha punita. Mi ha reso la più brutta delle donne. E ora sono qui, a nutrirmi dei muschi che crescono nella grotta, dei piccoli pesci che nuotano nel laghetto, aspettando che qualcuno venga a liberarmi. Vedi la fonte non mi permette di andar via…ogni volta che ho tentato, non solo sono diventata più orribile, ma sono stata anche molto male.” Styrka che aveva un cuore buono le chiese immediatamente:” Posso farlo io! Come posso liberarti? C’è un modo?” La risposta che diede la ragazza cadde come un sasso nel laghetto. “Devi entrare nell’acqua con me e darmi la tua bellezza…io ridiventerò bella e tu deforme. E dovrai inoltre prendere il mio posto e rimanere qui per sempre. La fonte non vuole rimanere da sola.” Un silenzio agghiacciante scese fra i due. “Sai-continuò la ragazza- le poche persone che hanno scoperto questo luogo, sono guarite ma non mi hanno aiutato, e lo capisco. Chi potrebbe rinunciare alla propria bellezza e libertà per qualcun altro?” Styrka chinò il capo, smarrito. Quella donna aveva ragione, e lui che per tutta la vita aveva subito cattiverie e umiliazioni, non se la sentiva di rinunciare al suo bellissimo corpo e rimanere lì, solo, per sempre. “Mi spiace-mormorò affranto-io non so che dire….se ci fosse un altro modo, ti aiuterei, ma rimanere qui…tornare ad essere brutto e deforme. E’ un prezzo molto alto. Non ci riesco!” La donna lo salutò disperata: “ Allora vai…e ricorda, non svelare a nessuno il segreto della fonte, perché se racconterai quello che ti è successo e dove si trova, tornerai ad essere brutto come prima.” Styrka lasciò quella grotta con l’amaro in bocca. Sapeva che non era giusto prendere per sé senza dare… quella poveretta stava passando il resto della sua vita rinchiusa nella grotta, brutta, sola, abbandonata e lui non aveva fatto niente per aiutarla. Ora Styrka era diventato un bellissimo giovane e avrebbe avuto tutto il mondo ai suoi piedi, e si sarebbe rifatto dei dispiaceri, delle ingiustizie e delle umiliazioni subite, ma era cosciente di non essere abbastanza forte per rinunciare a tutto. Di grandi uomini, purtroppo ne nascono pochi e il fuoco fa distinguere sempre il ferro dall’oro.

venerdì 11 dicembre 2015

SUSSULTI DI VITA Era arrivata la fine del mondo. L’indomani sarebbe stato l’ultimo giorno del pianeta e quindi ci sarebbe stato il Giudizio Universale. Sulla terra era scoppiato il panico. Migliaia e migliaia di persone si battevano il petto, in ginocchio, per le strade, imploravano pietà. Tanti si fustigavano pubblicamente per far vedere che erano pentiti. Gli angeli avevano già aperto i cancelli del cielo e il regno delle tenebre era pronto per accogliere i malvagi. I cieli si erano spalancati e le mille verità nascoste all’uomo erano state svelate. Paura, orrore e raccapriccio scuotevano i cuori di milioni di uomini, gente persa che chiedeva pietà. Ma nel marasma totale, un bambino di nome Luca, tranquillamente, continuava a vedere un cartone animato alla televisione. Appariva sereno e pacifico mentre i genitori e i fratelli più grandi, terrorizzati, erano scesi in strada a pregare per la loro salvezza. Luca, spenta la tv era andato in cucina a prepararsi un panino poiché la madre non aveva preparato né la colazione né il pranzo. Era scesa la notte, per le strade, canti, preghiere, fuochi e violenza. Ma il bambino continuava a rimanere a casa. Durante il pomeriggio aveva fatto i compiti, poi si era seduto sul divano aspettando che almeno la sua mamma tornasse a casa. Ma le ore erano passate e nessuno dei suoi familiari si era fatto vedere, così stanco si era addormentato sul divano. Nei suoi otto anni non era mai rimasto solo un minuto a casa ma quel giorno nessuno aveva badato a lui. Dai vetri della sua casa aveva visto tanta confusione, le persone piangere, gridare, gesticolare, e quello spettacolo lo aveva turbato; eppure non provava quel terrore che ogni persona sentiva nel cuore. Sapeva che l’indomani sarebbe stato l’ultimo giorno della sua vita, che seppur breve, era stata serena. Fra le lacrime il papà aveva annunciato che sarebbe morti tutti, ma Luca, non aveva né pianto né gridato. Per lui morire era un concetto molto strano, quasi sconosciuto. Sapeva del paradiso, sapeva degli angeli, ma realmente non sapeva immaginare la sua morte. L’alba stava nascendo sui visi di miliardi di persone che, con gli occhi al cielo, guardavano in alto, pronti per il loro destino finale. Le folle cantavano inni alla misericordia, alla pietà e alla carità. Luca allora si era svegliato, infreddolito poiché aveva dormito senza coperte e aveva chiamato la sua mamma. Ma la casa era fredda e vuota, e allora si era sentito solo e abbandonato. Perché i suoi genitori non erano tornati? Si erano forse dimenticati di lui? E così un tremito aveva scosso il suo piccolo cuore. Preso il suo orsetto di peluche, era sceso in strada a cercare la sua mamma, e non avendola trovata, si era seduto davanti il portone di casa sua e si era messo a piangere. Non aveva paura di morire, come tutti gli altri. Aveva solo il terrore di non rivedere la sua mamma, così abbracciato al suo peluche, singhiozzava chiamandola accoratamente. Ad un tratto il cielo, rosso come il sangue, pian piano si scolorì, ritornando azzurro. Le tenebre, lentamente chiusero gli ingressi, i demoni scomparvero, le creature celesti, sulle maestose ali bianche, si allontanarono dall’umanità. Miliardi di persone videro con i propri occhi tornare alla normalità il nuovo giorno e capirono, fra le lacrime, che il Giorno del Giudizio era stato fermato. Era un miracolo, e tutti erano convinti che le preghiere dette, i loro canti e le promesse del loro pentimento avevano fatto avverare il prodigio. Ma nessuno aveva fatto caso al piccolo Luca che, disperato, aveva pregato il cielo affinché la sua mamma tornasse poiché l’amore che legava figlio e madre era grande più dell’universo. Nelle macerie di un mondo in rovina, quei sussulti di vita, briciole del grande amore, avevano fermato la morte per dare alla vita, un’altra possibilità.

GIORNO DOPO GIORNO

GIORNO DOPO GIORNO C’era una volta, tanto tempo fa, un regno sperduto fra i monti le cui case, palazzi e monumenti era fatte da grandi torri. Lunghe braccia di pietra si innalzavano verso il cielo e ogni abitante di quello strano paese doveva, ogni giorno, salire mille gradini per arrivare nelle stanze più alte. Alcune torri erano bellissime, fabbricate in pregiati marmi rosa o bianchi, altre erano più modeste, ma quella del re era la più incantevole, realizzata da uno splendente avorio bianco. La legge di costruire tutte le abitazioni a forma di torre era stata promulgata dal nonno re che aveva fatto radere al suolo tutta la città per poi farla ricostruire di nuovo con tante torri al posto delle case. I sudditi non si erano chiesti il motivo di questa stranezza ma visto che il vecchio re aveva pagato tutti i lavori e ognuno di loro si era ritrovato la casa nuova cioè una torre nuova di zecca, avevano accettato l’eccentricità di quell’ordine. Così da quel lontano giorno, le torri della città erano diventate famose. Lunghe, articolate, decorate, come longilinei campanili verso l’alto, sfidavano l’aria e le nuvole. La torre più antica era quella del re e sulla quale aleggiava una strana leggenda: si narra che fosse stata costruita in una sola notte ma nessuna sa da chi, e da quel momento, per volere del re, questa magnifica struttura era stata curata, lucidata, amata e rispettata come una cattedrale. Il vecchio re era morto, e gli era succeduto il figlio, e dopo di questo, anche il nuovo principe era salito al trono, facendo rispettare la legge delle torri, condizione indispensabile per ereditare il trono di quel regno. Al tempo in cui racconto la vicenda, in quello strano paese nacque un bimbo che da grande divenne un famoso architetto e il cui nome era Thomas. Terminata la facoltà di Composizione e Disegno di Londra, aveva lavorato in tutta Europa, guadagnando grandi fortune ed era tornato nel suo paese per costruire la propria casa. Ma presentato il progetto della casa, uno sfarzoso palazzo, il Comune gli aveva negato il consenso. Thomas era proprietario di un grande terreno vicino il centro del paese ma poteva costruire solo torri. Il brillante architetto si infuriò, e ribellandosi al volere del Comune, fece iniziare lo stesso i lavori di costruzione del palazzo. Il giovane re, saputa la vicenda, mandò una squadra di operai per distruggere il cantiere appena aperto. Così da quel famoso giorno, Thomas iniziava i lavori di costruzione della propria casa e il re li bloccava e faceva distruggere tutto. Giorno dopo giorno, questa vicenda si protrasse per anni. Il caso di Thomas divenne pubblico e tutto il regno, curioso e interessato, assisteva al teatrino della costruzione e distruzione della casa dell’architetto. Passò molto tempo e il re si era fatto vecchio così anche Thomas ma nessuno voleva cedere sulla sua posizione. Ma una notte il vecchio sovrano si sentì molto male e si accorse di essere arrivato alla fine del suo viaggio, così fece chiamare Thomas al suo capezzale. L’anziano architetto arrivò alla torre d’avorio reale in piena notte, accompagnato dalle guardie reali, percorse lunghi corridoi della cima, le camere sfarzose, i saloni da ballo, quando giunse alla camera da letto del sovrano. Si avvicinò un poco al capezzale del re, per nulla impietosito del suo stato. Erano stati anni di rabbia e frustrazione per entrambi e il rancore era cresciuto a dismisura. Ma il monarca fece cenno a Thomas di avvicinarsi di più e con labile voce mormorò una supplica: “ Per favore- sussurrò debole- costruisci sul tuo terreno una torre, e non una casa. Ti prego! E’ l’ultima preghiera di un vecchio morente.” Thomas strinse le labbra, e furioso replicò:” Perché? Perché vi si siete incaponito così tanto contro di me? Il terreno è mio, e ho diritto di costruire ciò che voglio!” Colpi di tosse roca interruppero la replica. Allora il vecchio re gli domandò:” C’è sulla terra qualcosa che ami più di te stesso?” Thomas rimase disorientato da quella domanda così personale. In quegli anni si era sposato ma purtroppo non aveva avuto figli così la moglie rappresentava la sua ragione di vita. “Più di me stesso amo la mia sposa” rispose l’architetto, sincero. Il moribondo sorrise: “ Ti capisco…e ancor di più ti capirebbe mio nonno. Vedi la legge della torre appartiene a lui.” Thomas esplose:” Appunto! quella sciocca legge è ora di eliminarla! Che senso ha costruire solo torri?” Il re, per la prima volta in cento anni, rivelò il segreto di quella legge. “Vedi caro Thomas-esordì commuovendosi- mio nonno si sposò molto giovane con una bellissima principessa, figlia di un sovrano di un regno vicino. La fanciulla si chiamava Mary ed era molto giovane, buona e gentile. Fin da subito mio nonno uscì pazzo per lei. Stava ore ed ore a sentirla cantare, ammirava come, leggera, ballava sulle punte dei piedi, e come amava coltivare le rose e anche Mary colmava mio nonno di premure. Adorava il marito e non si allontanava mai da lui. Gli dedicava poesie, e gli faceva mille ritratti e ti giuro nessuno era più felice dei miei due nonni. Uscivano insieme a cavallo, pranzavano e cenavano sempre insieme, e leggevano libri per ore, l’uno accanto all’altro, tenendosi per mano. Ma un triste giorno, una strega malvagia, invidiosa del loro amore, gettò un maleficio su mia nonna Mary, trasformando la splendida fanciulla che era in una torre d’avorio…questa.” Thomas rimase pietrificato da questa notizia. “E così da quella notte, mio nonno giurò che la sua adorata moglie non sarebbe mai più rimasta sola. Fece erigere tante torri, per farle compagnia e avrebbe curato questa costruzione come il più prezioso degli edifici. Mia nonna è qui, in qualche modo, e sente e vede tutto. E’ rimasta qui da quella notte e l’amore della mia famiglia l’ha curata e l’ha fatta sopravvivere, nonostante tutto. Ed è per questo motivo che ti chiedo di non costruire una casa ma una nuova amica per mia nonna. E’ il mio ultimo atto d’amore che rivolgo alla mia famiglia, che giorno dopo giorno, ho amato e rispettato.” Thomas, commosso mormorò: “Sarò lieto di poterla servire.” Quella notte il re morì e l’architetto progettò e fece costruire subito la più bella torre del paese. Lucente e splendida come un brillante, rifletteva la luce del sole e il chiarore della luna. Appena terminata la torre, anche Thomas morì e raggiunse in cielo il re. Avversari sulla terra ma amici in paradiso, entrambi ammiravano dall’alto la torre luccicante che era diventata una compagna affezionata della meravigliosa torre d’avorio.

giovedì 10 dicembre 2015

SUSSULTI DI VITA

SUSSULTI DI VITA Era arrivata la fine del mondo. L’indomani sarebbe stato l’ultimo giorno del pianeta e quindi ci sarebbe stato il Giudizio Universale. Sulla terra era scoppiato il panico. Migliaia e migliaia di persone si battevano il petto, in ginocchio, per le strade, imploravano pietà. Tanti si fustigavano pubblicamente per far vedere che erano pentiti. Gli angeli avevano già aperto i cancelli del cielo e il regno delle tenebre era pronto per accogliere i malvagi. I cieli si erano spalancati e le mille verità nascoste all’uomo erano state svelate. Paura, orrore e raccapriccio scuotevano i cuori di milioni di uomini, gente persa che chiedeva pietà. Ma nel marasma totale, un bambino di nome Luca, tranquillamente, continuava a vedere un cartone animato alla televisione. Appariva sereno e pacifico mentre i genitori e i fratelli più grandi, terrorizzati, erano scesi in strada a pregare per la loro salvezza. Luca, spenta la tv era andato in cucina a prepararsi un panino poiché la madre non aveva preparato né la colazione né il pranzo. Era scesa la notte, per le strade, canti, preghiere, fuochi e violenza. Ma il bambino continuava a rimanere a casa. Durante il pomeriggio aveva fatto i compiti, poi si era seduto sul divano aspettando che almeno la sua mamma tornasse a casa. Ma le ore erano passate e nessuno dei suoi familiari si era fatto vedere, così stanco si era addormentato sul divano. Nei suoi otto anni non era mai rimasto solo un minuto a casa ma quel giorno nessuno aveva badato a lui. Dai vetri della sua casa aveva visto tanta confusione, le persone piangere, gridare, gesticolare, e quello spettacolo lo aveva turbato; eppure non provava quel terrore che ogni persona sentiva nel cuore. Sapeva che l’indomani sarebbe stato l’ultimo giorno della sua vita, che seppur breve, era stata serena. Fra le lacrime il papà aveva annunciato che sarebbe morti tutti, ma Luca, non aveva né pianto né gridato. Per lui morire era un concetto molto strano, quasi sconosciuto. Sapeva del paradiso, sapeva degli angeli, ma realmente non sapeva immaginare la sua morte. L’alba stava nascendo sui visi di miliardi di persone che, con gli occhi al cielo, guardavano in alto, pronti per il loro destino finale. Le folle cantavano inni alla misericordia, alla pietà e alla carità. Luca allora si era svegliato, infreddolito poiché aveva dormito senza coperte e aveva chiamato la sua mamma. Ma la casa era fredda e vuota, e allora si era sentito solo e abbandonato. Perché i suoi genitori non erano tornati? Si erano forse dimenticati di lui? E così un tremito aveva scosso il suo piccolo cuore. Preso il suo orsetto di peluche, era sceso in strada a cercare la sua mamma, e non avendola trovata, si era seduto davanti il portone di casa sua e si era messo a piangere. Non aveva paura di morire, come tutti gli altri. Aveva solo il terrore di non rivedere la sua mamma, così abbracciato al suo peluche, singhiozzava chiamandola accoratamente. Ad un tratto il cielo, rosso come il sangue, pian piano si scolorì, ritornando azzurro. Le tenebre, lentamente chiusero gli ingressi, i demoni scomparvero, le creature celesti, sulle maestose ali bianche, si allontanarono dall’umanità. Miliardi di persone videro con i propri occhi tornare alla normalità il nuovo giorno e capirono, fra le lacrime, che il Giorno del Giudizio era stato fermato. Era un miracolo, e tutti erano convinti che le preghiere dette, i loro canti e le promesse del loro pentimento avevano fatto avverare il prodigio. Ma nessuno aveva fatto caso al piccolo Luca che, disperato, aveva pregato il cielo affinché la sua mamma tornasse poiché l’amore che legava figlio e madre era grande più dell’universo. Nelle macerie di un mondo in rovina, quei sussulti di vita, briciole del grande amore, avevano fermato la morte per dare alla vita, un’altra possibilità.

mercoledì 9 dicembre 2015

GIORNO DOPO GIORNO

GIORNO DOPO GIORNO C’era una volta, tanto tempo fa, un regno sperduto fra i monti le cui case, palazzi e monumenti era fatte da grandi torri. Lunghe braccia di pietra si innalzavano verso il cielo e ogni abitante di quello strano paese doveva, ogni giorno, salire mille gradini per arrivare nelle stanze più alte. Alcune torri erano bellissime, fabbricate in pregiati marmi rosa o bianchi, altre erano più modeste, ma quella del re era la più incantevole, realizzata da uno splendente avorio bianco. La legge di costruire tutte le abitazioni a forma di torre era stata promulgata dal nonno re che aveva fatto radere al suolo tutta la città per poi farla ricostruire di nuovo con tante torri al posto delle case. I sudditi non si erano chiesti il motivo di questa stranezza ma visto che il vecchio re aveva pagato tutti i lavori e ognuno di loro si era ritrovato la casa nuova cioè una torre nuova di zecca, avevano accettato l’eccentricità di quell’ordine. Così da quel lontano giorno, le torri della città erano diventate famose. Lunghe, articolate, decorate, come longilinei campanili verso l’alto, sfidavano l’aria e le nuvole. La torre più antica era quella del re e sulla quale aleggiava una strana leggenda: si narra che fosse stata costruita in una sola notte ma nessuna sa da chi, e da quel momento, per volere del re, questa magnifica struttura era stata curata, lucidata, amata e rispettata come una cattedrale. Il vecchio re era morto, e gli era succeduto il figlio, e dopo di questo, anche il nuovo principe era salito al trono, facendo rispettare la legge delle torri, condizione indispensabile per ereditare il trono di quel regno. Al tempo in cui racconto la vicenda, in quello strano paese nacque un bimbo che da grande divenne un famoso architetto e il cui nome era Thomas. Terminata la facoltà di Composizione e Disegno di Londra, aveva lavorato in tutta Europa, guadagnando grandi fortune ed era tornato nel suo paese per costruire la propria casa. Ma presentato il progetto della casa, uno sfarzoso palazzo, il Comune gli aveva negato il consenso. Thomas era proprietario di un grande terreno vicino il centro del paese ma poteva costruire solo torri. Il brillante architetto si infuriò, e ribellandosi al volere del Comune, fece iniziare lo stesso i lavori di costruzione del palazzo. Il giovane re, saputa la vicenda, mandò una squadra di operai per distruggere il cantiere appena aperto. Così da quel famoso giorno, Thomas iniziava i lavori di costruzione della propria casa e il re li bloccava e faceva distruggere tutto. Giorno dopo giorno, questa vicenda si protrasse per anni. Il caso di Thomas divenne pubblico e tutto il regno, curioso e interessato, assisteva al teatrino della costruzione e distruzione della casa dell’architetto. Passò molto tempo e il re si era fatto vecchio così anche Thomas ma nessuno voleva cedere sulla sua posizione. Ma una notte il vecchio sovrano si sentì molto male e si accorse di essere arrivato alla fine del suo viaggio, così fece chiamare Thomas al suo capezzale. L’anziano architetto arrivò alla torre d’avorio reale in piena notte, accompagnato dalle guardie reali, percorse lunghi corridoi della cima, le camere sfarzose, i saloni da ballo, quando giunse alla camera da letto del sovrano. Si avvicinò un poco al capezzale del re, per nulla impietosito del suo stato. Erano stati anni di rabbia e frustrazione per entrambi e il rancore era cresciuto a dismisura. Ma il monarca fece cenno a Thomas di avvicinarsi di più e con labile voce mormorò una supplica: “ Per favore- sussurrò debole- costruisci sul tuo terreno una torre, e non una casa. Ti prego! E’ l’ultima preghiera di un vecchio morente.” Thomas strinse le labbra, e furioso replicò:” Perché? Perché vi si siete incaponito così tanto contro di me? Il terreno è mio, e ho diritto di costruire ciò che voglio!” Colpi di tosse roca interruppero la replica. Allora il vecchio re gli domandò:” C’è sulla terra qualcosa che ami più di te stesso?” Thomas rimase disorientato da quella domanda così personale. In quegli anni si era sposato ma purtroppo non aveva avuto figli così la moglie rappresentava la sua ragione di vita. “Più di me stesso amo la mia sposa” rispose l’architetto, sincero. Il moribondo sorrise: “ Ti capisco…e ancor di più ti capirebbe mio nonno. Vedi la legge della torre appartiene a lui.” Thomas esplose:” Appunto! quella sciocca legge è ora di eliminarla! Che senso ha costruire solo torri?” Il re, per la prima volta in cento anni, rivelò il segreto di quella legge. “Vedi caro Thomas-esordì commuovendosi- mio nonno si sposò molto giovane con una bellissima principessa, figlia di un sovrano di un regno vicino. La fanciulla si chiamava Mary ed era molto giovane, buona e gentile. Fin da subito mio nonno uscì pazzo per lei. Stava ore ed ore a sentirla cantare, ammirava come, leggera, ballava sulle punte dei piedi, e come amava coltivare le rose e anche Mary colmava mio nonno di premure. Adorava il marito e non si allontanava mai da lui. Gli dedicava poesie, e gli faceva mille ritratti e ti giuro nessuno era più felice dei miei due nonni. Uscivano insieme a cavallo, pranzavano e cenavano sempre insieme, e leggevano libri per ore, l’uno accanto all’altro, tenendosi per mano. Ma un triste giorno, una strega malvagia, invidiosa del loro amore, gettò un maleficio su mia nonna Mary, trasformando la splendida fanciulla che era in una torre d’avorio…questa.” Thomas rimase pietrificato da questa notizia. “E così da quella notte, mio nonno giurò che la sua adorata moglie non sarebbe mai più rimasta sola. Fece erigere tante torri, per farle compagnia e avrebbe curato questa costruzione come il più prezioso degli edifici. Mia nonna è qui, in qualche modo, e sente e vede tutto. E’ rimasta qui da quella notte e l’amore della mia famiglia l’ha curata e l’ha fatta sopravvivere, nonostante tutto. Ed è per questo motivo che ti chiedo di non costruire una casa ma una nuova amica per mia nonna. E’ il mio ultimo atto d’amore che rivolgo alla mia famiglia, che giorno dopo giorno, ho amato e rispettato.” Thomas, commosso mormorò: “Sarò lieto di poterla servire.” Quella notte il re morì e l’architetto progettò e fece costruire subito la più bella torre del paese. Lucente e splendida come un brillante, rifletteva la luce del sole e il chiarore della luna. Appena terminata la torre, anche Thomas morì e raggiunse in cielo il re. Avversari sulla terra ma amici in paradiso, entrambi ammiravano dall’alto la torre luccicante che era diventata una compagna affezionata della meravigliosa torre d’avorio.

IL REGNO DELLE PIETRE

IL REGNO DELLE PIETRE L’imperatore Diamante e la regina Ametista governavano il regno delle pietre dell’universo con saggezza e bontà. I sudditi, pietre preziose e comuni sassi obbedivano ai loro voleri senza ribellarsi e sulla terra avevano imparato a convivere con l’uomo. Ogni tanto qualche straniero arrivava sul pianeta tramite meteoriti, per omaggiare i sovrani che vivevano in un castello costruito con acquemarine e smeraldi. Le torri era fatte da rubini e le finestre e le porte realizzate da enormi e luccicanti zaffiri. Sulla terra i massi rotolavano solo se avevano il permesso di muoversi, ciottoli e ghiaie contemplavano la fredda luna e il cocente sole senza iniziative personali. Il fondo degli oceani raccoglieva nelle sue mani l’acqua preziosa che carezzava le rocce, levigandole e la polvere viaggiava insieme ad altri pulviscoli, leggera e aggraziata. Ma dalla notte dei tempi, questo regno così ben governato aveva un bel problema…Diamante doveva placare la rabbia di un tipo di pietra che aveva sempre da ridire. Infatti la lava si ribellava sempre ai suoi ordini e non voleva diventare dura come le altre pietre. Solo l’intervento dell’imperatore la costringeva ad assumere forma solida. Gli scoppi d’ira di queste pietre liquide tormentavano la terra, e fuoriuscivano dai budelli del pianeta, gridando e fumando, rosse di rabbia e nervosismo. I vulcani esplodevano spesso e l’imperatore Diamante doveva intervenire subito per fermare i fiumi bollenti che rotolavano giù, implacabili e spietati. Gli uomini non ne potevano più di questi problemi con la lava, così tentarono perfino di sigillare un vulcano, il Vesuvio, per impedire che la lava fuoriuscisse. Risultato: il vulcano esplose distruggendo le città vicine. La lava era comandata da un principe prepotente e dispettoso, lontano cugino di Diamante e da sempre innamorato della regina Ametista. Millenni prima, aveva offerto alla sovrana la sua proposta di matrimonio, ma Ametista voleva sposare Diamante e rifiutò l’intenzione della lava. Così il principe sfogava la sua rabbia, ribollendo ed eruttando la tristezza e la disperazione attraverso i vulcani, suoi fidati amici. Ametista sapeva che, in qualche maniera, il principe della lava soffriva per amore e così gli propose un accordo. Per non lasciarlo solo, alcuni nobili e dignitari di corte, pietre preziosissime, avrebbero abitato nei coni dei vulcani per fargli compagnia e rallegrarlo. E così da quel giorno la lava, quando fuoriusciva, salutava i rubini e gli zaffiri incastonati fra le pietre delle pareti dei vulcani, e in cambio il principe della lava avrebbe dato spettacolo della sua forza e potenza con meravigliosi schizzi e spruzzi di fuoco e fiamme che avrebbero illuminato il blu della notte.