sabato 26 dicembre 2015

LA PASTASCIUTTA DI BABBO NATALE

LA PASTASCIUTTA DI BABBO NATALE Era la notte del ventiquattro dicembre e Babbo Natale stava facendo gli straordinari. Aveva visitato milioni di case, sceso innumerevoli camini e lasciato migliaia di doni. Ma era notte fonda e si sentiva stanco. Ogni bambino gli aveva lasciato sul tavolo, in ricompensa del regalo ricevuto, latte e biscotti e Babbo Natale non ne poteva proprio più! Di latte e biscotti ne aveva fin sopra la cima dei capelli e moriva dalla voglia di mangiare qualcos’altro. Così, con il desiderio di cibi salati, scese l’ennesimo camino di una bella villetta di città. Pensava:” Appena torno al Polo Nord voglio organizzare un pranzo di natale con i fiocchi! Dirò ai folletti di procurarmi subito tacchini e fagiani, patatine fritte e la pasta al forno non deve mancare!” Con questi pensieri famelici arrivò in salotto e trovò un bellissimo albero con numerose palline di vetro colorate, luci intermittenti , un presepe realistico e il resto della stanza decorata con vischio e ghirlande. Era contento di trovare una simile atmosfera natalizia così, soddisfatto, lasciò qualche regalo in più. “Sono convinto-pensava fra sé e sé-che i genitori di questi bambini siano delle gran brave persone. Hanno fatto un ottimo lavoro con gli addobbi e il presepio è fantastico!” Tutto compiaciuto, e ignorando i soliti latte e biscotti lasciati in bella mostra sul tavolo, accanto al presepe, stava per entrare nel camino e risalire la canna fumaria, quando un meraviglioso profumo di aglio e peperoncino colpì le sue narici. Ingolosito, si diresse verso la cucina. Sul tavolo apparecchiato, troneggiava una bella zuppiera di pastasciutta fumante. Babbo Natale, che era molto ghiotto di spaghetti e fettuccine, si avvicinò al piatto e non resistette. Lasciato cadere il sacco con i regali a terra, si sedette sulla sedia e attaccò a trangugiare famelico, la pastasciutta, mugolando di piacere. Dopo diverse forchettate provò una strana sensazione…e cioè, di non essere più solo. Quindi si voltò e dietro di lui, seria e risentita, una signora in camicia da notte, con le mani sui fianchi, lo stava osservando. “Signor Babbo Natale-mormorò la donna con disapprovazione- i miei figli le avevano lasciato latte e biscotti in salotto. Lei invece ha mangiato la pasta di mio marito che, fra pochi minuti, torna dal lavoro. “ Il vecchietto, rosso in viso, come la giubba di velluto che indossava, balbettava scuse su scuse:” Ehm- disse schiarendosi la voce- sono mortificato! Ma vede, mia cara signora, ho la nausea di latte e biscotti mentre vado matto per gli spaghetti aglio, olio e peperoncino!” “Anche mio marito ne va matto!-replicò la signora risentita- ora per colpa sua, quando lui tornerà dal lavoro, non troverà nulla di pronto. Quegli spaghetti li ho cucinati con l’ultimo pacco di pasta che avevo in casa. Comunque riferirò il suo scorretto comportamento a chi di dovere!” Poche ore dopo, davanti al comitato per il controllo dell’operato di fate, streghe e creature fantastiche, Babbo Natale affrontò la giuria. Il presidente, scocciatissimo lo rimproverò aspramente:” Bella figuraccia che abbiamo fatto-abbaiava l’illustre amministratore- se la voce si sparge, tutte le persone penseranno che noi, esseri magici, non sappiamo comportarci come si deve! “ Babbo Natale, spostando il peso da uno stivale all’altro, mormorava scuse. “Così-sentenziò il giudice-ci vuole una punizione esemplare! Passerai l’intero giorno di festa ad aiutare il marito di quella signora nel suo lavoro!” “Cosa?- esclamò Babbo Natale sconvolto-e dovrei rinunciare ai festeggiamenti? Ai regali? E soprattutto al pranzo luculliano che i miei aiutanti stanno preparando?” “Esatto” ribadì, severo, il giudice. Babbo Natale piagnucolava addolorato “No…non è possibile!-poi soffiandosi il naso, chiese- e di cosa si occupa il marito? Che lavoro dovrei fare?” Il presidente, duro, sentenziò: “ Il marito di quella donna fa il cuoco. E tu dovrai aiutarlo in cucina!” Così il povero Babbo Natale, il giorno di festa, lavorò nella cucina del cuoco, non aiutandolo a preparare manicaretti ma lavando centinaia e centinaia di piatti, tormentato dai mille profumi di arrosti e lasagne che aleggiavano intorno a lui.

giovedì 17 dicembre 2015

LA GROTTA DELL'ACQUA

LA GROTTA DELL’ACQUA C’era una volta, tanto tempo fa, un piccolo paese montuoso. Gli abitanti erano abituati solo a lavorare, erano poco istruiti, superstiziosi e non avvezzi ad accettare le persone diverse. Dalla famiglia più povera del paese nacque un bimbo che, ahimè, aveva qualche problema fisico. Povero bambino, aveva un braccio e una gamba più corte dell’altra e inoltre il faccino era deformato. La levatrice quando diede il neonato alla madre, quasi svenne dal disgusto e il padre scappò a piangere in un’altra stanza, davanti agli occhi degli altri cinque fratelli. Non fu un giorno di festa per quella povera famiglia ma la madre amò quello sventurato figlio fin dal primo istante e lo tenne sempre vicino a sé, per proteggerlo e vegliarlo dalla cattiveria del mondo. I fratelli non lo avevano accolto bene e nemmeno il padre che non lo guardava mai né lo prendeva in braccio. Fu battezzato Styrka che in svedese significa forza. Ed in effetti, crescendo il bimbo mostrava una vivace intelligenza e grande forza di volontà. Le menomazioni fisiche non gli impedirono di imparare a camminare e già a quattro anni sapeva leggere e scrivere. Ma le sue notevoli doti intellettive non gli furono di nessun aiuto con le persone del paese. Additato come mostro, nessuno lo guardava, e quando usciva con la mamma, la gente cambiava strada pur di non incrociarlo. Per l’intero villaggio era una creatura orribile, uno scherzo della natura che andava evitato perché chissà cosa poteva succedere. I guai cominciarono quando Styrka fu mandato a scuola. Fin dal primo giorno, i compagni, superata l’iniziale paura, lo schernivano, lo insultavano, lo isolavano e durante la ricreazione, gli tiravano anche le pietre se il povero bimbo cercava di avvicinarsi. Ogni giorno tornava a casa piangendo, ferito dai sassi e dai calci che i bambini gli tiravano. La mamma si recava spesso a scuola per lamentarsi con le maestre di ciò che accadeva al figlio ma nessuno poteva proteggerlo per tutto l’orario scolastico perché appena rimaneva solo, per pochi minuti, subito qualche bambino lo aggrediva selvaggiamente. Così Styrka crebbe solo, continuamente deriso e attaccato, ma nonostante tanta cattiveria, divenne un giovane mite e buono. Terminata la scuola, il padre lo mandava a fare la guardia al piccolo gregge di pecore della famiglia. Gli altri fratelli andavano a zappare per qualche contadino, sperando di portare a casa qualche soldo che serviva per la famiglia. Così gli anni passarono, il padre e la madre divennero anziani e alcuni dei fratelli di Styrka si fidanzarono. Crescendo, le deformità fisiche si fecero più evidenti, e il viso divenne una maschera grottesca. Alto come tutti i maschi della famiglia, ora il poveretto incuteva anche paura. Ma era un uomo buono, e dolce. Styrka infatti amava gli animali, adorava la musica e la lettura e dipingeva dei meravigliosi paesaggi. Ma tutto ciò era inutile poiché tutte le fanciulla del paese erano interessate solo ai giovani belli e piacenti e il povero deforme lo guardavano solo con repulsione e nausea. L’unica donna che gli parlava era la madre, il resto della popolazione femminile o lo evitava o lo ignorava e il poveretto si rendeva conto che avrebbe passato la sua vita da solo e senza una compagna. Un giorno, più triste del solito, Styrka portò le pecore su un’altura, più alta del prato dove di solito si recava, e nascosto da vari cespugli di nocciole, si accorse che c’era una piccola voragine fra l’erba. Incuriosito, si addentrò nel cunicolo, facendosi largo fra la paglia secca e i rami. Era così stretto che per procedere, doveva avanzare carponi. Era buio e angusto. Così Styrka tornò indietro a prendere una torcia che accese all’esterno e rientrò subito, illuminando il suo stretto cammino. Dopo qualche minuto, il cunicolo si allargò tanto che Styrka poté alzarsi in piedi e camminare invece di strisciare. La galleria divenne una grotta, le cui pareti erano lisce e luccicanti come vetro bianco, mentre il soffitto era coperto da stalattiti che scendevano giù, coperte di condensa gocciolante. Un forte odore di menta aleggiava nell’aria e lì dentro faceva caldo. Styrka giunse infine ad uno slargo che terminava in una piccola piscina verde. Un laghetto dalle calme acque che invogliavano a fare un tuffo. Ed infatti, tentato dalle acque pulite e dal caldo, l’informe giovane si spogliò, si sedette sul bordo ed entrò nel laghetto con la gamba più corta. Stava per mettere anche l’altra in acqua quando un dolore feroce alla gamba malata lo bloccò come una statua, facendogli trattenere il respiro. Strabuzzando gli occhi, preda convinto di follia e allucinazioni, vide la gamba deforme allungarsi e diventare in pochissimo tempo come l’altra. Allora scattò in piedi, guardando giù e vide le sue due gambe, uguali. Forti e muscolose, degne di un corridore professionista. “Non posso crederci!-esclamò balbettando sotto shock- o sto sognando o è un miracolo!” Styrka tremava, toccandosi la gamba, un tempo inferma e ora perfetta. Poi cadde in ginocchio, con le mani sulla pietra della grotta, singhiozzando accoratamente. “Perché ora piangi?” chiese una flebile voce. Styrka sussultò, spaventato. Si accorse che non era solo, e goffamente si coprì con i suoi vestiti quando si accorse che dall’altra parte del laghetto, una strana ragazza lo guardava incuriosito. Aguzzò la vista e si accorse che sembrava una fanciulla, anche se in realtà ricordava una grossa rana; molto goffa, sgraziata e scialba. Era coperta da un lungo straccio sfilacciato, aveva la pancia gonfia e le braccia e le gambe secche e ossute. L’orrenda ragazza era senza collo e con due occhi brutti e sporgenti. Styrka quasi gridò per la paura ma si trattenne per dignità. “Allora? Non sei contento di essere guarito?” Chiese la donna terrificante che, sdentata, sorrideva timida, seduta anche lei vicino il bordo del laghetto. “E se vuoi vuoi-continuò seriamente-puoi guarire anche l’altro braccio e il viso. Basta che tu ti immerga completamente nell’acqua.” Styrka ingoiava a vuoto. Aveva un nodo alla lingua e si sentiva ancora sottosopra ma ritrovò la voce: “ Davvero?-chiese stralunato-posso guarire del tutto?” “Prova” lo incitò la ragazza-rana. Styrka lasciò cadere i vestiti a terra ed entrò in acqua. Dolori simili ai primi lo colpirono sul braccio malato e in piena faccia e sentì le ossa e la pelle tirare, quasi spaccarsi e fondersi, quando ad un tratto, sul pelo della superficie, il braccio infermo riemerse, ma uguale all’altro. Uscì prontamente dal laghetto, gocciolante e inginocchiato sul bordo si specchiò sull’acqua e un giovane sconosciuto ricambiò il suo sguardo. Solo che quell’uomo, bellissimo e abbagliante era lui. Due profondi occhi blu come il mare erano incorniciati da lingue scure di capelli ebano. Il profondo sguardo di Styrka lasciò l’acqua per fissare la ragazza. “Non so più se sono io-le disse sincero- e non conosco il motivo di questo miracolo. Mi puoi dire tu cosa è successo?” E si alzò in piedi, rivestendosi. L’imponente giovane, ora bello come il sole, tremava per l’emozione e il turbamento. “ E’ semplice-rispose la ragazza-il lago ha poteri di guarigione. Ma possono guarire solo coloro che lo meritano. Per i malvagi la fonte è semplice acqua comune. Tu hai un cuore buono e la sorgente ti ha voluto donare la salute e la bellezza.” Styrka, incuriosito allora domandò. “ Ma tu chi sei?” La ragazza, nel frattempo aveva raggiunto il giovane. E più si avvicinava, più diventava brutta. “Io sono la guardiana della fonte-rispose intristendosi e fermandosi vicino a lui. Le ossuta braccia si strinsero allo scarno petto, tenendo con le scheletriche mani, lo straccio che la copriva. Styrka le sorrise, malgrado la bruttezza. “Non so davvero come ringraziarti. Per tutta la vita sono stato umiliato e maltrattato per le mie deformità. Ora quasi non mi riconosco e sento nel cuore un’immensa gioia, come un fuoco che brucia. E non capisco nemmeno cosa mi succede, sono confuso, e non so e se questa è la realtà e ho paura che mi sveglierò e mi ritroverò ancora un mostro…ma tu….” E si interruppe imbarazzato. “Io cosa?-chiese la padrona della fonte-vuoi sapere perché l’acqua non funziona con me? Vuoi sapere perché sono ancora un mostro?” Il bellissimo giovane annuì. L’orrenda donna era molto perspicace. “Sono io che ho scoperto questa fonte- gli confessò la ragazza- tanti anni fa, e io non avevo questo aspetto. Ero una bellissima ragazza. Quando una mia pecora trovò l’accesso alla caverna, la inseguii fino a questa laghetto. Cadde in acqua e quando la tirai fuori era diventata bellissima. Mai visto una lana così soffice e bianca e anche gli occhi erano cambiati. La mia pecora ora aveva gli occhi celesti! Così capii che la fonte donava la bellezza e io superba e orgogliosa com’ero, volevo diventare ancora più bella. Ma la fonte non ama i duri di cuore, gli altezzosi e i cattivi e così mi ha punita. Mi ha reso la più brutta delle donne. E ora sono qui, a nutrirmi dei muschi che crescono nella grotta, dei piccoli pesci che nuotano nel laghetto, aspettando che qualcuno venga a liberarmi. Vedi la fonte non mi permette di andar via…ogni volta che ho tentato, non solo sono diventata più orribile, ma sono stata anche molto male.” Styrka che aveva un cuore buono le chiese immediatamente:” Posso farlo io! Come posso liberarti? C’è un modo?” La risposta che diede la ragazza cadde come un sasso nel laghetto. “Devi entrare nell’acqua con me e darmi la tua bellezza…io ridiventerò bella e tu deforme. E dovrai inoltre prendere il mio posto e rimanere qui per sempre. La fonte non vuole rimanere da sola.” Un silenzio agghiacciante scese fra i due. “Sai-continuò la ragazza- le poche persone che hanno scoperto questo luogo, sono guarite ma non mi hanno aiutato, e lo capisco. Chi potrebbe rinunciare alla propria bellezza e libertà per qualcun altro?” Styrka chinò il capo, smarrito. Quella donna aveva ragione, e lui che per tutta la vita aveva subito cattiverie e umiliazioni, non se la sentiva di rinunciare al suo bellissimo corpo e rimanere lì, solo, per sempre. “Mi spiace-mormorò affranto-io non so che dire….se ci fosse un altro modo, ti aiuterei, ma rimanere qui…tornare ad essere brutto e deforme. E’ un prezzo molto alto. Non ci riesco!” La donna lo salutò disperata: “ Allora vai…e ricorda, non svelare a nessuno il segreto della fonte, perché se racconterai quello che ti è successo e dove si trova, tornerai ad essere brutto come prima.” Styrka lasciò quella grotta con l’amaro in bocca. Sapeva che non era giusto prendere per sé senza dare… quella poveretta stava passando il resto della sua vita rinchiusa nella grotta, brutta, sola, abbandonata e lui non aveva fatto niente per aiutarla. Ora Styrka era diventato un bellissimo giovane e avrebbe avuto tutto il mondo ai suoi piedi, e si sarebbe rifatto dei dispiaceri, delle ingiustizie e delle umiliazioni subite, ma era cosciente di non essere abbastanza forte per rinunciare a tutto. Di grandi uomini, purtroppo ne nascono pochi e il fuoco fa distinguere sempre il ferro dall’oro.

venerdì 11 dicembre 2015

SUSSULTI DI VITA Era arrivata la fine del mondo. L’indomani sarebbe stato l’ultimo giorno del pianeta e quindi ci sarebbe stato il Giudizio Universale. Sulla terra era scoppiato il panico. Migliaia e migliaia di persone si battevano il petto, in ginocchio, per le strade, imploravano pietà. Tanti si fustigavano pubblicamente per far vedere che erano pentiti. Gli angeli avevano già aperto i cancelli del cielo e il regno delle tenebre era pronto per accogliere i malvagi. I cieli si erano spalancati e le mille verità nascoste all’uomo erano state svelate. Paura, orrore e raccapriccio scuotevano i cuori di milioni di uomini, gente persa che chiedeva pietà. Ma nel marasma totale, un bambino di nome Luca, tranquillamente, continuava a vedere un cartone animato alla televisione. Appariva sereno e pacifico mentre i genitori e i fratelli più grandi, terrorizzati, erano scesi in strada a pregare per la loro salvezza. Luca, spenta la tv era andato in cucina a prepararsi un panino poiché la madre non aveva preparato né la colazione né il pranzo. Era scesa la notte, per le strade, canti, preghiere, fuochi e violenza. Ma il bambino continuava a rimanere a casa. Durante il pomeriggio aveva fatto i compiti, poi si era seduto sul divano aspettando che almeno la sua mamma tornasse a casa. Ma le ore erano passate e nessuno dei suoi familiari si era fatto vedere, così stanco si era addormentato sul divano. Nei suoi otto anni non era mai rimasto solo un minuto a casa ma quel giorno nessuno aveva badato a lui. Dai vetri della sua casa aveva visto tanta confusione, le persone piangere, gridare, gesticolare, e quello spettacolo lo aveva turbato; eppure non provava quel terrore che ogni persona sentiva nel cuore. Sapeva che l’indomani sarebbe stato l’ultimo giorno della sua vita, che seppur breve, era stata serena. Fra le lacrime il papà aveva annunciato che sarebbe morti tutti, ma Luca, non aveva né pianto né gridato. Per lui morire era un concetto molto strano, quasi sconosciuto. Sapeva del paradiso, sapeva degli angeli, ma realmente non sapeva immaginare la sua morte. L’alba stava nascendo sui visi di miliardi di persone che, con gli occhi al cielo, guardavano in alto, pronti per il loro destino finale. Le folle cantavano inni alla misericordia, alla pietà e alla carità. Luca allora si era svegliato, infreddolito poiché aveva dormito senza coperte e aveva chiamato la sua mamma. Ma la casa era fredda e vuota, e allora si era sentito solo e abbandonato. Perché i suoi genitori non erano tornati? Si erano forse dimenticati di lui? E così un tremito aveva scosso il suo piccolo cuore. Preso il suo orsetto di peluche, era sceso in strada a cercare la sua mamma, e non avendola trovata, si era seduto davanti il portone di casa sua e si era messo a piangere. Non aveva paura di morire, come tutti gli altri. Aveva solo il terrore di non rivedere la sua mamma, così abbracciato al suo peluche, singhiozzava chiamandola accoratamente. Ad un tratto il cielo, rosso come il sangue, pian piano si scolorì, ritornando azzurro. Le tenebre, lentamente chiusero gli ingressi, i demoni scomparvero, le creature celesti, sulle maestose ali bianche, si allontanarono dall’umanità. Miliardi di persone videro con i propri occhi tornare alla normalità il nuovo giorno e capirono, fra le lacrime, che il Giorno del Giudizio era stato fermato. Era un miracolo, e tutti erano convinti che le preghiere dette, i loro canti e le promesse del loro pentimento avevano fatto avverare il prodigio. Ma nessuno aveva fatto caso al piccolo Luca che, disperato, aveva pregato il cielo affinché la sua mamma tornasse poiché l’amore che legava figlio e madre era grande più dell’universo. Nelle macerie di un mondo in rovina, quei sussulti di vita, briciole del grande amore, avevano fermato la morte per dare alla vita, un’altra possibilità.

GIORNO DOPO GIORNO

GIORNO DOPO GIORNO C’era una volta, tanto tempo fa, un regno sperduto fra i monti le cui case, palazzi e monumenti era fatte da grandi torri. Lunghe braccia di pietra si innalzavano verso il cielo e ogni abitante di quello strano paese doveva, ogni giorno, salire mille gradini per arrivare nelle stanze più alte. Alcune torri erano bellissime, fabbricate in pregiati marmi rosa o bianchi, altre erano più modeste, ma quella del re era la più incantevole, realizzata da uno splendente avorio bianco. La legge di costruire tutte le abitazioni a forma di torre era stata promulgata dal nonno re che aveva fatto radere al suolo tutta la città per poi farla ricostruire di nuovo con tante torri al posto delle case. I sudditi non si erano chiesti il motivo di questa stranezza ma visto che il vecchio re aveva pagato tutti i lavori e ognuno di loro si era ritrovato la casa nuova cioè una torre nuova di zecca, avevano accettato l’eccentricità di quell’ordine. Così da quel lontano giorno, le torri della città erano diventate famose. Lunghe, articolate, decorate, come longilinei campanili verso l’alto, sfidavano l’aria e le nuvole. La torre più antica era quella del re e sulla quale aleggiava una strana leggenda: si narra che fosse stata costruita in una sola notte ma nessuna sa da chi, e da quel momento, per volere del re, questa magnifica struttura era stata curata, lucidata, amata e rispettata come una cattedrale. Il vecchio re era morto, e gli era succeduto il figlio, e dopo di questo, anche il nuovo principe era salito al trono, facendo rispettare la legge delle torri, condizione indispensabile per ereditare il trono di quel regno. Al tempo in cui racconto la vicenda, in quello strano paese nacque un bimbo che da grande divenne un famoso architetto e il cui nome era Thomas. Terminata la facoltà di Composizione e Disegno di Londra, aveva lavorato in tutta Europa, guadagnando grandi fortune ed era tornato nel suo paese per costruire la propria casa. Ma presentato il progetto della casa, uno sfarzoso palazzo, il Comune gli aveva negato il consenso. Thomas era proprietario di un grande terreno vicino il centro del paese ma poteva costruire solo torri. Il brillante architetto si infuriò, e ribellandosi al volere del Comune, fece iniziare lo stesso i lavori di costruzione del palazzo. Il giovane re, saputa la vicenda, mandò una squadra di operai per distruggere il cantiere appena aperto. Così da quel famoso giorno, Thomas iniziava i lavori di costruzione della propria casa e il re li bloccava e faceva distruggere tutto. Giorno dopo giorno, questa vicenda si protrasse per anni. Il caso di Thomas divenne pubblico e tutto il regno, curioso e interessato, assisteva al teatrino della costruzione e distruzione della casa dell’architetto. Passò molto tempo e il re si era fatto vecchio così anche Thomas ma nessuno voleva cedere sulla sua posizione. Ma una notte il vecchio sovrano si sentì molto male e si accorse di essere arrivato alla fine del suo viaggio, così fece chiamare Thomas al suo capezzale. L’anziano architetto arrivò alla torre d’avorio reale in piena notte, accompagnato dalle guardie reali, percorse lunghi corridoi della cima, le camere sfarzose, i saloni da ballo, quando giunse alla camera da letto del sovrano. Si avvicinò un poco al capezzale del re, per nulla impietosito del suo stato. Erano stati anni di rabbia e frustrazione per entrambi e il rancore era cresciuto a dismisura. Ma il monarca fece cenno a Thomas di avvicinarsi di più e con labile voce mormorò una supplica: “ Per favore- sussurrò debole- costruisci sul tuo terreno una torre, e non una casa. Ti prego! E’ l’ultima preghiera di un vecchio morente.” Thomas strinse le labbra, e furioso replicò:” Perché? Perché vi si siete incaponito così tanto contro di me? Il terreno è mio, e ho diritto di costruire ciò che voglio!” Colpi di tosse roca interruppero la replica. Allora il vecchio re gli domandò:” C’è sulla terra qualcosa che ami più di te stesso?” Thomas rimase disorientato da quella domanda così personale. In quegli anni si era sposato ma purtroppo non aveva avuto figli così la moglie rappresentava la sua ragione di vita. “Più di me stesso amo la mia sposa” rispose l’architetto, sincero. Il moribondo sorrise: “ Ti capisco…e ancor di più ti capirebbe mio nonno. Vedi la legge della torre appartiene a lui.” Thomas esplose:” Appunto! quella sciocca legge è ora di eliminarla! Che senso ha costruire solo torri?” Il re, per la prima volta in cento anni, rivelò il segreto di quella legge. “Vedi caro Thomas-esordì commuovendosi- mio nonno si sposò molto giovane con una bellissima principessa, figlia di un sovrano di un regno vicino. La fanciulla si chiamava Mary ed era molto giovane, buona e gentile. Fin da subito mio nonno uscì pazzo per lei. Stava ore ed ore a sentirla cantare, ammirava come, leggera, ballava sulle punte dei piedi, e come amava coltivare le rose e anche Mary colmava mio nonno di premure. Adorava il marito e non si allontanava mai da lui. Gli dedicava poesie, e gli faceva mille ritratti e ti giuro nessuno era più felice dei miei due nonni. Uscivano insieme a cavallo, pranzavano e cenavano sempre insieme, e leggevano libri per ore, l’uno accanto all’altro, tenendosi per mano. Ma un triste giorno, una strega malvagia, invidiosa del loro amore, gettò un maleficio su mia nonna Mary, trasformando la splendida fanciulla che era in una torre d’avorio…questa.” Thomas rimase pietrificato da questa notizia. “E così da quella notte, mio nonno giurò che la sua adorata moglie non sarebbe mai più rimasta sola. Fece erigere tante torri, per farle compagnia e avrebbe curato questa costruzione come il più prezioso degli edifici. Mia nonna è qui, in qualche modo, e sente e vede tutto. E’ rimasta qui da quella notte e l’amore della mia famiglia l’ha curata e l’ha fatta sopravvivere, nonostante tutto. Ed è per questo motivo che ti chiedo di non costruire una casa ma una nuova amica per mia nonna. E’ il mio ultimo atto d’amore che rivolgo alla mia famiglia, che giorno dopo giorno, ho amato e rispettato.” Thomas, commosso mormorò: “Sarò lieto di poterla servire.” Quella notte il re morì e l’architetto progettò e fece costruire subito la più bella torre del paese. Lucente e splendida come un brillante, rifletteva la luce del sole e il chiarore della luna. Appena terminata la torre, anche Thomas morì e raggiunse in cielo il re. Avversari sulla terra ma amici in paradiso, entrambi ammiravano dall’alto la torre luccicante che era diventata una compagna affezionata della meravigliosa torre d’avorio.

giovedì 10 dicembre 2015

SUSSULTI DI VITA

SUSSULTI DI VITA Era arrivata la fine del mondo. L’indomani sarebbe stato l’ultimo giorno del pianeta e quindi ci sarebbe stato il Giudizio Universale. Sulla terra era scoppiato il panico. Migliaia e migliaia di persone si battevano il petto, in ginocchio, per le strade, imploravano pietà. Tanti si fustigavano pubblicamente per far vedere che erano pentiti. Gli angeli avevano già aperto i cancelli del cielo e il regno delle tenebre era pronto per accogliere i malvagi. I cieli si erano spalancati e le mille verità nascoste all’uomo erano state svelate. Paura, orrore e raccapriccio scuotevano i cuori di milioni di uomini, gente persa che chiedeva pietà. Ma nel marasma totale, un bambino di nome Luca, tranquillamente, continuava a vedere un cartone animato alla televisione. Appariva sereno e pacifico mentre i genitori e i fratelli più grandi, terrorizzati, erano scesi in strada a pregare per la loro salvezza. Luca, spenta la tv era andato in cucina a prepararsi un panino poiché la madre non aveva preparato né la colazione né il pranzo. Era scesa la notte, per le strade, canti, preghiere, fuochi e violenza. Ma il bambino continuava a rimanere a casa. Durante il pomeriggio aveva fatto i compiti, poi si era seduto sul divano aspettando che almeno la sua mamma tornasse a casa. Ma le ore erano passate e nessuno dei suoi familiari si era fatto vedere, così stanco si era addormentato sul divano. Nei suoi otto anni non era mai rimasto solo un minuto a casa ma quel giorno nessuno aveva badato a lui. Dai vetri della sua casa aveva visto tanta confusione, le persone piangere, gridare, gesticolare, e quello spettacolo lo aveva turbato; eppure non provava quel terrore che ogni persona sentiva nel cuore. Sapeva che l’indomani sarebbe stato l’ultimo giorno della sua vita, che seppur breve, era stata serena. Fra le lacrime il papà aveva annunciato che sarebbe morti tutti, ma Luca, non aveva né pianto né gridato. Per lui morire era un concetto molto strano, quasi sconosciuto. Sapeva del paradiso, sapeva degli angeli, ma realmente non sapeva immaginare la sua morte. L’alba stava nascendo sui visi di miliardi di persone che, con gli occhi al cielo, guardavano in alto, pronti per il loro destino finale. Le folle cantavano inni alla misericordia, alla pietà e alla carità. Luca allora si era svegliato, infreddolito poiché aveva dormito senza coperte e aveva chiamato la sua mamma. Ma la casa era fredda e vuota, e allora si era sentito solo e abbandonato. Perché i suoi genitori non erano tornati? Si erano forse dimenticati di lui? E così un tremito aveva scosso il suo piccolo cuore. Preso il suo orsetto di peluche, era sceso in strada a cercare la sua mamma, e non avendola trovata, si era seduto davanti il portone di casa sua e si era messo a piangere. Non aveva paura di morire, come tutti gli altri. Aveva solo il terrore di non rivedere la sua mamma, così abbracciato al suo peluche, singhiozzava chiamandola accoratamente. Ad un tratto il cielo, rosso come il sangue, pian piano si scolorì, ritornando azzurro. Le tenebre, lentamente chiusero gli ingressi, i demoni scomparvero, le creature celesti, sulle maestose ali bianche, si allontanarono dall’umanità. Miliardi di persone videro con i propri occhi tornare alla normalità il nuovo giorno e capirono, fra le lacrime, che il Giorno del Giudizio era stato fermato. Era un miracolo, e tutti erano convinti che le preghiere dette, i loro canti e le promesse del loro pentimento avevano fatto avverare il prodigio. Ma nessuno aveva fatto caso al piccolo Luca che, disperato, aveva pregato il cielo affinché la sua mamma tornasse poiché l’amore che legava figlio e madre era grande più dell’universo. Nelle macerie di un mondo in rovina, quei sussulti di vita, briciole del grande amore, avevano fermato la morte per dare alla vita, un’altra possibilità.

mercoledì 9 dicembre 2015

GIORNO DOPO GIORNO

GIORNO DOPO GIORNO C’era una volta, tanto tempo fa, un regno sperduto fra i monti le cui case, palazzi e monumenti era fatte da grandi torri. Lunghe braccia di pietra si innalzavano verso il cielo e ogni abitante di quello strano paese doveva, ogni giorno, salire mille gradini per arrivare nelle stanze più alte. Alcune torri erano bellissime, fabbricate in pregiati marmi rosa o bianchi, altre erano più modeste, ma quella del re era la più incantevole, realizzata da uno splendente avorio bianco. La legge di costruire tutte le abitazioni a forma di torre era stata promulgata dal nonno re che aveva fatto radere al suolo tutta la città per poi farla ricostruire di nuovo con tante torri al posto delle case. I sudditi non si erano chiesti il motivo di questa stranezza ma visto che il vecchio re aveva pagato tutti i lavori e ognuno di loro si era ritrovato la casa nuova cioè una torre nuova di zecca, avevano accettato l’eccentricità di quell’ordine. Così da quel lontano giorno, le torri della città erano diventate famose. Lunghe, articolate, decorate, come longilinei campanili verso l’alto, sfidavano l’aria e le nuvole. La torre più antica era quella del re e sulla quale aleggiava una strana leggenda: si narra che fosse stata costruita in una sola notte ma nessuna sa da chi, e da quel momento, per volere del re, questa magnifica struttura era stata curata, lucidata, amata e rispettata come una cattedrale. Il vecchio re era morto, e gli era succeduto il figlio, e dopo di questo, anche il nuovo principe era salito al trono, facendo rispettare la legge delle torri, condizione indispensabile per ereditare il trono di quel regno. Al tempo in cui racconto la vicenda, in quello strano paese nacque un bimbo che da grande divenne un famoso architetto e il cui nome era Thomas. Terminata la facoltà di Composizione e Disegno di Londra, aveva lavorato in tutta Europa, guadagnando grandi fortune ed era tornato nel suo paese per costruire la propria casa. Ma presentato il progetto della casa, uno sfarzoso palazzo, il Comune gli aveva negato il consenso. Thomas era proprietario di un grande terreno vicino il centro del paese ma poteva costruire solo torri. Il brillante architetto si infuriò, e ribellandosi al volere del Comune, fece iniziare lo stesso i lavori di costruzione del palazzo. Il giovane re, saputa la vicenda, mandò una squadra di operai per distruggere il cantiere appena aperto. Così da quel famoso giorno, Thomas iniziava i lavori di costruzione della propria casa e il re li bloccava e faceva distruggere tutto. Giorno dopo giorno, questa vicenda si protrasse per anni. Il caso di Thomas divenne pubblico e tutto il regno, curioso e interessato, assisteva al teatrino della costruzione e distruzione della casa dell’architetto. Passò molto tempo e il re si era fatto vecchio così anche Thomas ma nessuno voleva cedere sulla sua posizione. Ma una notte il vecchio sovrano si sentì molto male e si accorse di essere arrivato alla fine del suo viaggio, così fece chiamare Thomas al suo capezzale. L’anziano architetto arrivò alla torre d’avorio reale in piena notte, accompagnato dalle guardie reali, percorse lunghi corridoi della cima, le camere sfarzose, i saloni da ballo, quando giunse alla camera da letto del sovrano. Si avvicinò un poco al capezzale del re, per nulla impietosito del suo stato. Erano stati anni di rabbia e frustrazione per entrambi e il rancore era cresciuto a dismisura. Ma il monarca fece cenno a Thomas di avvicinarsi di più e con labile voce mormorò una supplica: “ Per favore- sussurrò debole- costruisci sul tuo terreno una torre, e non una casa. Ti prego! E’ l’ultima preghiera di un vecchio morente.” Thomas strinse le labbra, e furioso replicò:” Perché? Perché vi si siete incaponito così tanto contro di me? Il terreno è mio, e ho diritto di costruire ciò che voglio!” Colpi di tosse roca interruppero la replica. Allora il vecchio re gli domandò:” C’è sulla terra qualcosa che ami più di te stesso?” Thomas rimase disorientato da quella domanda così personale. In quegli anni si era sposato ma purtroppo non aveva avuto figli così la moglie rappresentava la sua ragione di vita. “Più di me stesso amo la mia sposa” rispose l’architetto, sincero. Il moribondo sorrise: “ Ti capisco…e ancor di più ti capirebbe mio nonno. Vedi la legge della torre appartiene a lui.” Thomas esplose:” Appunto! quella sciocca legge è ora di eliminarla! Che senso ha costruire solo torri?” Il re, per la prima volta in cento anni, rivelò il segreto di quella legge. “Vedi caro Thomas-esordì commuovendosi- mio nonno si sposò molto giovane con una bellissima principessa, figlia di un sovrano di un regno vicino. La fanciulla si chiamava Mary ed era molto giovane, buona e gentile. Fin da subito mio nonno uscì pazzo per lei. Stava ore ed ore a sentirla cantare, ammirava come, leggera, ballava sulle punte dei piedi, e come amava coltivare le rose e anche Mary colmava mio nonno di premure. Adorava il marito e non si allontanava mai da lui. Gli dedicava poesie, e gli faceva mille ritratti e ti giuro nessuno era più felice dei miei due nonni. Uscivano insieme a cavallo, pranzavano e cenavano sempre insieme, e leggevano libri per ore, l’uno accanto all’altro, tenendosi per mano. Ma un triste giorno, una strega malvagia, invidiosa del loro amore, gettò un maleficio su mia nonna Mary, trasformando la splendida fanciulla che era in una torre d’avorio…questa.” Thomas rimase pietrificato da questa notizia. “E così da quella notte, mio nonno giurò che la sua adorata moglie non sarebbe mai più rimasta sola. Fece erigere tante torri, per farle compagnia e avrebbe curato questa costruzione come il più prezioso degli edifici. Mia nonna è qui, in qualche modo, e sente e vede tutto. E’ rimasta qui da quella notte e l’amore della mia famiglia l’ha curata e l’ha fatta sopravvivere, nonostante tutto. Ed è per questo motivo che ti chiedo di non costruire una casa ma una nuova amica per mia nonna. E’ il mio ultimo atto d’amore che rivolgo alla mia famiglia, che giorno dopo giorno, ho amato e rispettato.” Thomas, commosso mormorò: “Sarò lieto di poterla servire.” Quella notte il re morì e l’architetto progettò e fece costruire subito la più bella torre del paese. Lucente e splendida come un brillante, rifletteva la luce del sole e il chiarore della luna. Appena terminata la torre, anche Thomas morì e raggiunse in cielo il re. Avversari sulla terra ma amici in paradiso, entrambi ammiravano dall’alto la torre luccicante che era diventata una compagna affezionata della meravigliosa torre d’avorio.

IL REGNO DELLE PIETRE

IL REGNO DELLE PIETRE L’imperatore Diamante e la regina Ametista governavano il regno delle pietre dell’universo con saggezza e bontà. I sudditi, pietre preziose e comuni sassi obbedivano ai loro voleri senza ribellarsi e sulla terra avevano imparato a convivere con l’uomo. Ogni tanto qualche straniero arrivava sul pianeta tramite meteoriti, per omaggiare i sovrani che vivevano in un castello costruito con acquemarine e smeraldi. Le torri era fatte da rubini e le finestre e le porte realizzate da enormi e luccicanti zaffiri. Sulla terra i massi rotolavano solo se avevano il permesso di muoversi, ciottoli e ghiaie contemplavano la fredda luna e il cocente sole senza iniziative personali. Il fondo degli oceani raccoglieva nelle sue mani l’acqua preziosa che carezzava le rocce, levigandole e la polvere viaggiava insieme ad altri pulviscoli, leggera e aggraziata. Ma dalla notte dei tempi, questo regno così ben governato aveva un bel problema…Diamante doveva placare la rabbia di un tipo di pietra che aveva sempre da ridire. Infatti la lava si ribellava sempre ai suoi ordini e non voleva diventare dura come le altre pietre. Solo l’intervento dell’imperatore la costringeva ad assumere forma solida. Gli scoppi d’ira di queste pietre liquide tormentavano la terra, e fuoriuscivano dai budelli del pianeta, gridando e fumando, rosse di rabbia e nervosismo. I vulcani esplodevano spesso e l’imperatore Diamante doveva intervenire subito per fermare i fiumi bollenti che rotolavano giù, implacabili e spietati. Gli uomini non ne potevano più di questi problemi con la lava, così tentarono perfino di sigillare un vulcano, il Vesuvio, per impedire che la lava fuoriuscisse. Risultato: il vulcano esplose distruggendo le città vicine. La lava era comandata da un principe prepotente e dispettoso, lontano cugino di Diamante e da sempre innamorato della regina Ametista. Millenni prima, aveva offerto alla sovrana la sua proposta di matrimonio, ma Ametista voleva sposare Diamante e rifiutò l’intenzione della lava. Così il principe sfogava la sua rabbia, ribollendo ed eruttando la tristezza e la disperazione attraverso i vulcani, suoi fidati amici. Ametista sapeva che, in qualche maniera, il principe della lava soffriva per amore e così gli propose un accordo. Per non lasciarlo solo, alcuni nobili e dignitari di corte, pietre preziosissime, avrebbero abitato nei coni dei vulcani per fargli compagnia e rallegrarlo. E così da quel giorno la lava, quando fuoriusciva, salutava i rubini e gli zaffiri incastonati fra le pietre delle pareti dei vulcani, e in cambio il principe della lava avrebbe dato spettacolo della sua forza e potenza con meravigliosi schizzi e spruzzi di fuoco e fiamme che avrebbero illuminato il blu della notte.

domenica 22 novembre 2015

IL PARADISO NEL CUORE

IL PARADISO NEL CUORE Nel mondo dei desideri, il dio denaro era il più potente. Milioni e milioni di pensieri assetati gli arrivavano ogni giorno e lui naturalmente era orgoglioso e tronfio di tale successo. Fin dall’inizio del tempo gli uomini avevano per questo dio almeno un desiderio al giorno. Notte e giorno, ogni persona del pianeta di qualunque età, religione, sesso, classe sociale e culturale, dedicava al denaro la fantasia di possederlo. Ma nel mondo dei desideri, anche la salute, l’orgoglio, l’amore erano molto potenti ma nessuno lo era come il dio denaro e così questo dio, egoista e crudele si sentiva il padrone di questo universo. “Tutti mi desiderano-affermava ogni giorno a tutte le divinità di questo cosmo- e nessuno è immune al desiderio di possedermi.” E lì a vantarsi, a pavoneggiarsi, a compiacersi. La dea della pace cercava di controbattere:” Ma tante persone del pianeta terra desiderano anche me e sono milioni! Sento le loro voci e ascolto i loro pensieri! Tantissimi desiderano la pace!” “Ma fammi il piacere!- replicava Denaro, cattivo e arrogante-qualsiasi desiderio di pace, davanti al desiderio del soldi viene spazzato via in un attimo! L’umanità ama più me della propria anima!” Ma la pace esasperata lo provocò:” Vuoi scommettere che troverò qualcuno che non ti ha mai desiderato?” Il dio denaro si zittì, turbato e sospettoso:” Tu mi assicuri che esiste un uomo, sulla faccia della terra che nel suo cuore non ha mai desiderato l’oro, i gioielli e quindi il denaro?” La dea sorrise e replicò: “ Quest’uomo è già nato e se vuoi, ti mostro dove vive e lavora.” Il dio denaro, fuori di sé dalla curiosità e dallo smarrimento, esclamò:” E allora dimmi qualcosa di lui! Cavolo, deve essere diverso come un extraterrestre se nella sua vita non ha mai rivolto a me, almeno un desiderio! Dimmi…cosa vedi nel suo cuore?” La dea della pace rispose: “ Nel suo cuore vedo il paradiso! Vedo saggezza…vedo mansuetudine…Tolleranza. E ogni giorno mi rivolge sempre un pensiero!” Il dio denaro allora esclamò: “Non è possibile!! Non esiste un uomo simile! Fammelo vedere subito!” La dea della pace aprì il sipario del tempo e dello spazio e mostrò all’orgoglioso dio denaro, dove viveva quest’uomo così speciale. “Ma è povero!!!!” esclamò il dio denaro. “Appunto” rispose la dea della pace. “E’ figlio di un falegname!” Gridò inorridito il dio. “Già.” “ Veste di stracci….sento-il dio denaro ascoltava i pensieri di quell’uomo così speciale- sento che è stanco. Ha anche fame!” La dea della pace, contenta e soddisfatta, allora lo zittì: “ Come vedi, nel suo cuore non ha mai desiderato il denaro! Ed è incredibile, quest’uomo tanto diverso dal resto dell’umanità, non ha mai desiderato né il potere, nessuna ricchezza e nessun regno. Il dio denaro era esterrefatto e guardava il giovane lavorare nella bottega del padre. Docile, sottomesso, eppure la sua potenza straripava dal suo cuore. Aveva in sé il paradiso e voleva donarlo anche agli altri. “E sai una cosa?-aggiunse la dea della pace- non è un miserabile come pensi. Anche se è povero…anche se vive in una misera casa e veste di tracci, non immaginerai mai chi è …” Il dio denaro, esasperato e umiliato, esclamò:” E allora chi è? Un dio?” “Appunto” Rispose la dea della pace, con un luccichio nel cuore.

venerdì 13 novembre 2015

L'IDAGO E I LAGHI DI PIETRA

L’IDAGO E I LAGHI DI PIETRA Il re Torraiolo era stremato. Per molte notti aveva dato ordini agli eserciti dei suoi elfi di difendere il castello, antica dimora di famiglia che si trovava vicino i laghi di pietra. Aveva saputo che il terribile Idago stava arrivando per conquistare il suo territorio. Gli altri sovrani elfi erano già stati sconfitti e si erano rifugiati al nord, fra i monti del ghiacciaio eterno e i loro eserciti erano stati dispersi dalla potente creatura. Molti soldati elfi erano stati uccisi, altri avevano perso il senno o la memoria poiché il loro sguardo aveva incrociato troppo a lungo quello dell’Idago che, in quell’attimo, aveva deciso di controllare le loro menti. Le armi del terribile animale non solo erano rappresentate dalla sua forza smisurata e dalla incredibile velocità che possedeva, ma soprattutto dal potere della mente che faceva vacillare chiunque lo guardasse in viso. Torraiolo però sperava che L’Idago giungesse prima ai laghi di pietra per poterlo fermare. Il castello dell’elfo era protetto da quelli che, per secoli, il popolo aveva definito “gli occhi della terra.” Enormi buchi rocciosi che contenevano sassi liquidi, azzurri come l’acqua. Ogni pozza era molto profonda e terminava con un immenso fondo nero come la pece. La chiara superficie ogni tanto si increspava a causa degli uccelli che, incauti, volavano sulle strane acque e cadevano paralizzati. Questo era il loro grande potere. I laghi di pietra bloccavano tutti coloro che non erano elfi e per tal motivo re Torraiolo aveva fatto edificare accanto a loro la sua dimora fatta da marmi neri e lucenti che rispecchiavano la sua buffa immagine, il verde della pelle e le orecchie a punto. Il sovrano amava il suo castello, enorme e maestoso e le cui torri quasi sfioravano le cime dei monti. L’Idago, volando basso, aveva appena superato gli alberi bitorzoluti del bosco di cristallo. Ogni pianta era fatta da tronchi sottili e foglie a forma di cuore. Qualsiasi albero che cresceva vicino il reame di Torraiolo stranamente mutava. Perfino gli arbusti, i cespugli e i fiori assumevano una strana rigidità…come se fossero delle pietre, dure e rigide e finanche il vento, in quella parte del bosco, cadeva. Un silenzio profondo avvolgeva quegli strani luoghi. E infatti l’Idago, avvicinandosi a quei luoghi immediatamente interruppe la sua corsa, percependo nel cuore, ansia e inquietudine. L’odore del pericolo lo fece fermare e acquattare. Subito le ali si chiusero, avvolgendolo come un manto rosso. In lontananza osservò il castello di Torraiolo, circondato da monti e laghi azzurri. La volontà incitava l’animale a puntare dritto verso la dimora reale per conquistarne il territorio, però l’istinto gli impedì di muoversi. C’era qualcosa di spaventosamente strano in quei posti e l’Idago percepì una terrificante minaccia. Un pericolo che aspettava solo che lui si avvicinasse di più al castello. Nel frattempo Torraiolo ordinò ai soldati di catturare la creatura appena si fosse paralizzata nei pressi dei laghi di pietra. Le ore erano passate, e della magica creatura, si erano perse le tracce. Il re aveva perso la pazienza e ora sbraitava contro il generale delle guardie di prima linea: “ Siete dei buoni a nulla! Dei lavativi-Torraiolo si agitava come un ossesso- mi dici dove diavolo è finito l’Idago?” Il generale balbettava: “ Sire, lo abbiamo atteso sul confine sud, certi che avrebbe puntato al castello, ed invece non è arrivato. Non sappiamo ora dove si trova…il mio luogotenente suggerisce che forse si è ritirato. Probabilmente intimorito dallo spiegamento di tutti gli eserciti ha preferito tornare indietro e lasciare il regno. Però il mio aiutante non ne è certo.” “Idioti-il reale elfo si avvicinò al generale al punto che le antenne che entrambi avevano sulla testa, si sfiorarono-L’Idago è l’essere più potente dei regni…è l’animale più forte che mai sia stato generato. Il mio regno è l’ultimo che gli rimane da conquistare e tu credi che si ritiri senza combattere?” Il generale bofonchiava: ”Allora può darsi che abbia percepito il pericolo dei laghi di pietra e ci aspetti ai margini del bosco di cristallo per farci un’imboscata. Lì il flusso paralizzante dei laghi non arriva.” Torraiolo tacque, riflettendo sull’ipotesi del militare: “ Non credo-rispose però turbato- nessuno conosce il potere dei laghi poiché solo gli elfi ne sono immuni e ogni essere vivente, pianta o animale, vicino ai laghi si paralizza. Questo segreto non è mai uscito dal mio regno. Come può l’Idago esserne venuto a conoscenza?” Il Generale tacque e così anche il re che poi aggiunse:” Fai perlustrare tutto il territorio e assicurati che l’animale sia andato via. Solo in questo modo mi posso tranquillizzare.” Il militare fece eseguire l’ordine senza sapere che l’Idago invece si era nascosto nel folto del bosco, mimetizzandosi fra l’erba, proprio come aveva ipotizzato lui. Le guardie però non lo videro e così la sera, giunse la falsa notizia che la potente creatura aveva lasciato il regno. Torraiolo esultava felice, convinto che l’animale, preda della paura, avesse avuto timore di battersi e fosse fuggito. Non sapeva però che l’astuto essere lo stava aspettando ai confini del bosco di cristallo per poter influenzare la sua mente, e strappargli tutti i poteri regali degli elfi, compresa l’immunità dei laghi di pietra. Così Torraiolo, l’indomani, volle percorrere personalmente, insieme alle sue guardie, i confini del suo territorio per accertarsi che tutto fosse tornato alla normalità, quando improvvisamente l’Idago sbucò dal folto del bosco. Le guardie, terrorizzate, lo fissarono per pochi secondi e fuggirono via, pazzi di orrore e sgomento. Le loro menti, confuse e stordite, persero il senno e la memoria. Il re elfo, nel panico, tentò di fuggire ma la magica creatura lo raggiunse immediatamente. Resosi conto che era stato sconfitto, il re Torraiolo si inginocchiò davanti l’Idago e gli consegnò lo scettro, cedendo all’animale ogni potere e forza della sua condizione di elfo reale. La potente creatura conquistò l’ultimo territorio su cui non comandava e divenne così il sovrano assoluto di tutti i regni magici della terra.

sabato 24 ottobre 2015

L'IDAGO RICONQUISTA IL PALAZZO

L’IDAGO RICONQUISTA IL PALAZZO La regina delle streghe era inferocita. Aveva saputo che l’Idago, re dei mondi magici della terra, era riuscito a scappare dalla caverna dove lei e i sovrani degli elfi l’avevano imprigionato. Ora stava arrivando per riprendersi il suo palazzo, splendido edificio di marmo rosa e oro bianco che brillava nel mezzo della foresta dei pini d’argento. “Quella vipera della moglie è riuscita a far cadere le sbarre di odio e rancore che bloccavano l’uscita della caverna-urlò la regina delle streghe, Fresabonda- e ora l’Idago sta arrivando qui. Cosa facciamo?” Con lo sguardo avido, la sovrana rimirò lo splendido salone da ballo. Una grande sala cinta da specchi e azzurre finestre che si affacciavano sui giardini del palazzo. Il pavimento dorato brillava bianco e fulgido, in contrasto con il soffitto affrescato da splendide figure di animali e fiori. La strega amava quella ricchezza e andava matta per l’oro e i brillanti che decoravano i fregi di ogni ambiente del palazzo. “Questa è la sua casa-obbiettò Torraiolo, uno dei sovrani degli elfi- è normale che la voglia riconquistare e tu sai benissimo che noi l’abbiamo imprigionato con l’inganno, per rubargli i regni e la sua dimora. Quindi l’unica cosa da fare è fuggire e rifugiarci al nord, sperando che non ci raggiunga.” “Mai-esclamò Fresabonda furiosa- non lascerò mai questo palazzo! Io dico invece di restare e combattere!” “Combattere?- chiese balbettando Torraiolo esterrefatto- Tu sei pazza! Nessuno dei nostri eserciti, uniti insieme, è in grado di sconfiggere l’Idago. Per non parlare dei suoi magici poteri. Sai bene che la morte lo protegge ed è in grado, con il solo sguardo, di far impazzire chiunque. La sua mente è troppo potente e la sua forza infinita!” La strega lo guardò con odio. Disprezzava la codardia dell’elfo. Gli altri re non avevano tanta paura, e Fresabonda avrebbe voluto litigare e convincere Torraiolo a combattere, ma il tempo era poco e bisognava decidere in fretta poiché la bestia stava arrivando. Così la maga si alzò dal trono dove un tempo sedeva l’Idago, e si diresse fuori dalla sala dove la stavano aspettando i comandanti in capo degli eserciti degli elfi e delle fattucchiere. In migliaia attendevano la loro decisione. Ad un certo punto si bloccò a pochi metri dalla porta. “Io dico invece di combattere! Esclamò decisa la regina delle streghe- e se tu hai paura, puoi anche ritirarti…! Però se vinciamo, il bottino lo dividiamo senza di te!” Torraiolo strinse le buffe labbra. Gli elfi erano strane creature, con le orecchie lunghe come asini, naso a punta e capelli verdi. Sembravano tanti bambini cresciuti, con quegli abiti di pelle e i mantelli color delle foglie. Entrambi erano avidi e assetati di potere e comandare i regni dell’Idago era il sogno di tutti i sovrani della terra. Torraiolo non voleva perdere ciò che aveva guadagnato con l’inganno e benché temesse l’animale e i suoi poteri, si sentì con le spalle al muro. Per niente al mondo avrebbe rinunciato alla sua parte di bottino. “E va bene-bofonchiò-riuniamo gli eserciti e lo attacchiamo. Ma ricordati quello che ti dico…L’Idago ci sconfiggerà! E sarà un miracolo che non ci ucciderà tutti!” Fresabonda raggiunse allora la porta dorata porta che accedeva alla sala attigua dove i vicecomandanti degli eserciti stavano aspettando gli ordini. Urlò loro di attaccare e combattere la bestia. Così in pochi secondi, grida di rabbia e incitamento percorsero le sale fino a fuori l’edificio e le armate, eccitate e rabbiose, guidarono contro l’Idago per sconfiggerlo. Gli eserciti delle streghe e degli elfi intercettarono la bestia vicino le foreste dei pini d’argento che circondavano il palazzo, ma l’impatto fra l’animale e i combattenti fu terribile. Veloce come la luce e forte come le montagne, l’Idago disperdette via, in pochi minuti, migliaia di elfi e streghe. Tentarono di trafiggergli la schiena e il petto con lance e frecce, ma abile e scattante, la magica creatura si sollevava in aria con le robuste ali rosse, per poi fiondarsi a picco contro i guerreggianti, spazzandoli via. Furono sconfitti in poco tempo e i superstiti delle armate si diedero alla fuga. L’Idago li lasciò scappare ma inseguì la regina Fresabonda poiché sapeva che lei era la vera artefice di quella battaglia. Il cuore della strega era assetato di ricchezza e smanioso di potere, e pur di non perdere ciò che aveva rubato, aveva convinto Torraiolo a scendere sul campo di battaglia. La regina si precipitò fuori dal palazzo, affannata e sudata, ma sentiva la bestia guadagnare terreno. Durante la battaglia si era nascosta nelle armerie dell’edificio, ma sapendo che tutti gli eserciti erano stati sconfitti, aveva deciso di darsi anche lei alla fuga. Ma l’Idago non voleva lasciarla andare e la raggiunse in pochi secondi, piombando su di lei. Il suo sangue colorò di rosso il verde del prato.

L'IDAGO RICONQUISTA IL PALAZZO

L’IDAGO RICONQUISTA IL PALAZZO La regina delle streghe era inferocita. Aveva saputo che l’Idago, re dei mondi magici della terra, era riuscito a scappare dalla caverna dove lei e i sovrani degli elfi l’avevano imprigionato. Ora stava arrivando per riprendersi il suo palazzo, splendido edificio di marmo rosa e oro bianco che brillava nel mezzo della foresta dei pini d’argento. “Quella vipera della moglie è riuscita a far cadere le sbarre di odio e rancore che bloccavano l’uscita della caverna-urlò la regina delle streghe, Fresabonda- e ora l’Idago sta arrivando qui. Cosa facciamo?” Con lo sguardo avido, la sovrana rimirò lo splendido salone da ballo. Una grande sala cinta da specchi e azzurre finestre che si affacciavano sui giardini del palazzo. Il pavimento dorato brillava bianco e fulgido, in contrasto con il soffitto affrescato da splendide figure di animali e fiori. La strega amava quella ricchezza e andava matta per l’oro e i brillanti che decoravano i fregi di ogni ambiente del palazzo. “Questa è la sua casa-obbiettò Torraiolo, uno dei sovrani degli elfi- è normale che la voglia riconquistare e tu sai benissimo che noi l’abbiamo imprigionato con l’inganno, per rubargli i regni e la sua dimora. Quindi l’unica cosa da fare è fuggire e rifugiarci al nord, sperando che non ci raggiunga.” “Mai-esclamò Fresabonda furiosa- non lascerò mai questo palazzo! Io dico invece di restare e combattere!” “Combattere?- chiese balbettando Torraiolo esterrefatto- Tu sei pazza! Nessuno dei nostri eserciti, uniti insieme, è in grado di sconfiggere l’Idago. Per non parlare dei suoi magici poteri. Sai bene che la morte lo protegge ed è in grado, con il solo sguardo, di far impazzire chiunque. La sua mente è troppo potente e la sua forza infinita!” La strega lo guardò con odio. Disprezzava la codardia dell’elfo. Gli altri re non avevano tanta paura, e Fresabonda avrebbe voluto litigare e convincere Torraiolo a combattere, ma il tempo era poco e bisognava decidere in fretta poiché la bestia stava arrivando. Così la maga si alzò dal trono dove un tempo sedeva l’Idago, e si diresse fuori dalla sala dove la stavano aspettando i comandanti in capo degli eserciti degli elfi e delle fattucchiere. In migliaia attendevano la loro decisione. Ad un certo punto si bloccò a pochi metri dalla porta. “Io dico invece di combattere! Esclamò decisa la regina delle streghe- e se tu hai paura, puoi anche ritirarti…! Però se vinciamo, il bottino lo dividiamo senza di te!” Torraiolo strinse le buffe labbra. Gli elfi erano strane creature, con le orecchie lunghe come asini, naso a punta e capelli verdi. Sembravano tanti bambini cresciuti, con quegli abiti di pelle e i mantelli color delle foglie. Entrambi erano avidi e assetati di potere e comandare i regni dell’Idago era il sogno di tutti i sovrani della terra. Torraiolo non voleva perdere ciò che aveva guadagnato con l’inganno e benché temesse l’animale e i suoi poteri, si sentì con le spalle al muro. Per niente al mondo avrebbe rinunciato alla sua parte di bottino. “E va bene-bofonchiò-riuniamo gli eserciti e lo attacchiamo. Ma ricordati quello che ti dico…L’Idago ci sconfiggerà! E sarà un miracolo che non ci ucciderà tutti!” Fresabonda raggiunse allora la porta dorata porta che accedeva alla sala attigua dove i vicecomandanti degli eserciti stavano aspettando gli ordini. Urlò loro di attaccare e combattere la bestia. Così in pochi secondi, grida di rabbia e incitamento percorsero le sale fino a fuori l’edificio e le armate, eccitate e rabbiose, guidarono contro l’Idago per sconfiggerlo. Gli eserciti delle streghe e degli elfi intercettarono la bestia vicino le foreste dei pini d’argento che circondavano il palazzo, ma l’impatto fra l’animale e i combattenti fu terribile. Veloce come la luce e forte come le montagne, l’Idago disperdette via, in pochi minuti, migliaia di elfi e streghe. Tentarono di trafiggergli la schiena e il petto con lance e frecce, ma abile e scattante, la magica creatura si sollevava in aria con le robuste ali rosse, per poi fiondarsi a picco contro i guerreggianti, spazzandoli via. Furono sconfitti in poco tempo e i superstiti delle armate si diedero alla fuga. L’Idago li lasciò scappare ma inseguì la regina Fresabonda poiché sapeva che lei era la vera artefice di quella battaglia. Il cuore della strega era assetato di ricchezza e smanioso di potere, e pur di non perdere ciò che aveva rubato, aveva convinto Torraiolo a scendere sul campo di battaglia. La regina si precipitò fuori dal palazzo, affannata e sudata, ma sentiva la bestia guadagnare terreno. Durante la battaglia si era nascosta nelle armerie dell’edificio, ma sapendo che tutti gli eserciti erano stati sconfitti, aveva deciso di darsi anche lei alla fuga. Ma l’Idago non voleva lasciarla andare e la raggiunse in pochi secondi, piombando su di lei. Il suo sangue colorò di rosso il verde del prato.

L'IDAGO RICONQUISTA IL PALAZZO (Racconto di Lucina Cuccio)

giovedì 22 ottobre 2015

NELLE MANI DELL'IDAGO

NELLE MANI DELL’IDAGO Fra le creature della foresta, l’Idago era una delle più terribili. Feroce e crudele come la morte, era riuscito ad arrivare al comando di tutti gli elfi, le streghe e i fantasmi della terra. Solo a nominare il suo nome, le foglie degli alberi cadevano e i laghi si prosciugavano. I fiumi si gelavano come investiti da una glaciale tormenta di neve. Ogni animale che incontrasse l’Idago rimaneva immobile, paralizzato dalla paura dei suoi occhi di ghiaccio, mentre coloro che si fermavano a guardarlo un solo istante di più, impazzivano e perdevano la memoria poiché lo sguardo del terribile essere stregava i sensi e comandava la volontà. Era un re senza castello ma con milioni di sudditi, vivi e morti. Nessun uomo era mai riuscito a vederlo da vivo. Solo i fantasmi potevano vederlo e ne erano terrificati. L’Idago era figlio di un imperatore puma e di un’aquila reale, allevato dal ghiaccio e dalla morte. Gli era stato insegnato ad non aver paura di niente, ad essere crudele e spietato. Dopo tre secoli dalla sua nascita, aveva sottomesso i sovrani degli elfi e la regina delle streghe, così lui stesso aveva assoggettato tutti i regni magici della terra. La morte gli aveva regalato il potere di comandare ogni spirito dell’aldilà che non avesse raggiunto la sua destinazione finale mentre il padre e la madre gli avevano trasmesso la crudele bellezza degli animali. L’Idago non aveva nome, e d'altronde non gli serviva poiché nessuno osava rivolgergli la parola. Imponente e muscoloso, volava basso e veloce, silenzioso come la neve. Aveva artigli più affilati di lame, denti aguzzi come coltelli ma piume morbide e setose, rosse come sangue. Su ogni parte del corpo, verde come le foreste, piccoli smeraldi splendenti. Le ali era grandi e forti e camminava leggero, ma era vigoroso come mille leoni e resistente come il ferro. Nessun essere vivente era in grado di ucciderlo, poiché il suo cuore era protetto dal ghiaccio e dalla morte. Così gli elfi erano piombati nella paura e le streghe si nascondevano nelle valli solitarie pur di non incontrarlo. La feroce creatura si nutriva di spine, uccelli e serpenti. Non conosceva la pietà e non aveva mai provato tenerezza o amore. Era solo come un monarca, ombroso e duro. Padrone per metà del mondo, sentiva però che qualcosa mancava al suo impero. Tutto il potere accumulato doveva tramandarlo ad un suo simile, ma lui era unico al mondo. Non esisteva altra creatura come lui. Così decise di catturare un essere vivente per farne la sua sposa e avere un figlio. Elfi e streghe non lo attiravano così cominciò a cercare una donna che fosse bella, di sangue nobile ma crudele come lui. Trovò tante fanciulle che incontravano i suoi gusti, di nobile lignaggio, figlie di re e imperatori, quando un giorno vide una bellissima ragazza che zappava la terra. Non era né nobile né crudele ma bella come un raggio di sole e sentendola parlare con le altre persone, buona come l’amore. Per la prima volta la terribile creatura si innamorò di un altro essere vivente. L’Idago era terrorizzato…perché mai si sentiva così strano? Nel petto, il suo cuore andava a fuoco, il respiro era affannoso e brividi di piacere percorrevano il suo corpo piumato. Dimenticò l’umile origine della fanciulla, figlia di un contadino, così la sera la rapì portandola nella sua caverna, fra le foreste della Russia. Da secoli viveva in quella caverna sconosciuta, ricoperta da pelli di animali e decorata da pietre preziose. La ragazza, poverina si ritrovò sola, nelle mani dell’Idago, senza sapere chi fosse e cosa volesse da lei. Il posto dove l’aveva portata era caldo per via dei fuochi accesi all’interno e reso luminoso dalle migliaia di rubini e diamanti che brillavano. Tremante chiese, stringendosi le braccia al petto: “Chi sei e perché mi hai portato qui?” L’Idago fiutò la sua paura ma decise di essere sincero. Cercava di non usare i suoi poteri per influenzarne la mente e la volontà. Desiderava che la fanciulla rimanesse lucida e cosciente di sé stessa, ma era totalmente soggiogato dalla bellezza della ragazza. Ciò che lui stava provando aveva zittito la crudeltà del suo cuore. Così con voce profonda le disse: “ Sono il padrone di tutti i regni sconosciuti della terra e comando gli elfi, le streghe e gli spiriti. Ho diritto di decidere la vita e la morte di chiunque e sono di nobile stirpe, ma ho bisogno di tramandare il mio potere e la mia ricchezza e poiché non ho un erede ho deciso di sposarti e avere un figlio da te. La tua bellezza mi ha fatto dimenticare che non sei di sangue blu e crudele come me. Ma appena ti ho vista ho stabilito che saresti stata la mia sposa.” La fanciulla sgranò gli occhi inorridita. Pensò: “ Sposare un animale, che benché molto bello, rimaneva una bestia? Terribile!” Non le importava se aveva poteri soprannaturali, ricchezze infinite, ed era un re. Non le importava neanche se era un bellissimo animale. Lei era un essere umano nelle mani di un pazzo. L’Idago quasi leggendole nella mente aggiunse: “Non devi aver paura di me, non ti farò del male e come mia moglie, avrai tutto ciò che desideri. Sarai rispettata, ma ciò che pretendo da te è la tua fedeltà. I miei sudditi non mi amano e non sono miei amici. Quindi non avrai contatti né con gli elfi né con le streghe poiché essi non aspettano altro che ribellarsi e spodestarmi dal potere. Vogliono le mie ricchezze e la mia reggenza.” La fanciulla si guardò allora intorno. Preziose pelli di animali fissate alle pareti e pietre preziose, ma quel posto rimaneva sempre una caverna. L’Idago sorrise ed aggiunse: “ E non preoccuparti per questa caverna. Non vivrai qui… farò al più presto costruire un palazzo dove potrai abitare ed esserne la regina. Non ti mancherà nulla, te lo prometto. Ciò che solo desidero è che tu rimanga accanto a me per il resto della tua vita…Ti chiedo troppo?” La fanciulla non rispose ma chinò la testa in segno di assenso. Aveva accettato le condizioni dell’animale. D'altronde non aveva alternative ma un profondo senso di rabbia e ingiustizia le invasero l’anima. Era un ultimatum e lei, in fondo, non aveva scelta. Così dopo pochi giorni L’Idago sposò la fanciulla, e pochi mesi dopo, la portò a vivere in un immenso palazzo di marmo rosa e oro bianco, costruito dagli elfi e dalle streghe e nascosto dai boschi. Era inaccessibile a qualsiasi essere umano. Oramai sposa del mostro, la fanciulla però era circondata da agi e ricchezze infinite. Il suo sposo la colmava di premure, le faceva mille regali, era gentile e affettuoso. Abiti sfarzosi, cibi sopraffini. Nulla le era negato e l’Idago stesso le raccontava storie bellissime ed avventure. Ma, nonostante tutto, essa continuava a covare nel cuore rancore e rabbia. Non gli aveva perdonato di essere stata strappata con la forza dalla sua famiglia, dalla sua terra e soprattutto essere stata costretta a sposarlo. Così si rivolse di nascosto ai sovrani degli elfi e alla regina delle streghe per far imprigionare l’Idago, e in cambio, farla fuggire. Lei avrebbe ceduto tutte le ricchezze, il palazzo e i regni del marito. Così la sera del tradimento, la fanciulla fece bere all’Idago, mescolato nel vino, una pozione che le streghe le avevano dato per farlo dormire profondamente. Appena addormentato, decine di elfi e streghe lo portarono nella sua vecchia caverna e bloccarono l’ingresso con sbarre magiche fatte di odio e ira. L’animale era schiavo di sé stesso ed infatti quando si svegliò dal sonno profondo, impazzì di rabbia, e nel veder allontanare la sposa che tornava alla sua casa, le gridò come un forsennato: “ Io ti amavo e non ti ho mai fatto niente di male! Ti ho dato tutto ciò che avevo e mi hai tradito. Mi hai fatto imprigionare dai miei nemici! Ti avevo donato il mio cuore e mi hai pugnalato alle spalle.” La ragazza si tappò le orecchie alle urla del marito. Le era costato averlo consegnato nelle mani dei suoi nemici, lo aveva fatto soprattutto per orgoglio e per vendicarsi di essere stata costretta a sposarlo contro la sua volontà, ma ora vederlo prigioniero, e il suo palazzo invaso da elfi e streghe che festeggiavano la vittoria, iniziò a dolerle il cuore. Ad ogni passo, punte di pentimento e pena le pungevano il cuore. Si sentiva in colpa e giorni dopo, appena arrivata a casa, si era già pentita di ciò che aveva fatto. Ma ormai non c’era più nulla da fare, e la famiglia la riaccolse con gioia. La fanciulla riprese la sua solita vita, fatta di lavoro, fatica e miseria. Ma qualche settimana dopo si accorse di essere incinta. Erano tanti giorni che aveva nausea e le girava la testa. Un tempo sarebbe impazzita di orrore e paura nel dare alla luce chissà quale mostro, ora invece ne era contenta poiché in tutti quei mesi non aveva fatto altro che pensare all’Idago, alla sua gentilezza, alle sue premure e ai mesi che insieme avevano trascorso nel loro palazzo. Incredibile a dirsi, la ragazza si era innamorata del marito. Pochi mesi dopo, di nascosto a tutti i suoi familiari che non si erano accorti della gravidanza, in una vecchia capanna del bosco, la fanciulla diede alla luce da sola il figlio dell’Idago. Non era un animale, non aveva ali, né artigli, ma era un bambino come gli altri. Aveva solo gli occhi uguali al padre, chiari come il ghiaccio. Ma era un bambino bellissimo, più bello di qualsiasi neonato mai visto ed era l’erede legittimo dei regni del marito. Fu in quel minuto, nell’attimo esatto in cui lo prese fra le braccia che la ragazza decise di tornare dall’Idago, liberarlo e fargli vedere il figlio che aveva sempre desiderato. Tornò nella casa dei suoi genitori con il bambino, raccontò loro tutta la storia, quindi li abbracciò e li salutò per l’ultima volta. Aveva deciso di tornare indietro, chiedere perdono al marito per il suo tradimento e dare una famiglia al bambino. Quel bimbo così amato e così bello aveva diritto a stare anche con il padre, vivere nel suo palazzo ed avere una vita serena e felice. Così, lasciata la casa dei genitori, con il bambino fra le braccia, camminò vari giorni, dirigendosi verso la caverna dell’Idago. Ogni tanto si fermava, puliva il figlio e gli dava il latte. Lo baciava e coccolava, fiera di aver dato alla luce un bambino così bello e perfetto. Il cammino era lungo, e molte volte la ragazza dovette nascondersi perché aveva visto arrivare qualche strega o un elfo. Aveva paura che le impedissero di liberare il marito. Quando arrivò davanti l’ingresso della caverna, l’Idago la aspettava davanti alle sbarre poiché aveva fiutato già il suo arrivo. Era ritto, tetro e ombroso, lo guardo duro come il granito. La fanciulla nascondeva il bimbo alla vista del padre. Giunta davanti lui, con un nodo in gola, mormorò pentita, timide scuse: “ Perdonami- gli disse contrita- per tutto ciò che ho fatto. Ho voluto soddisfare la mia sete di vendetta, ma ho capito che stavo sbagliando subito dopo essere andata via…” L’Idago taceva. La ragazza gli si inginocchiò davanti, piangendo. “ Scusami-implorava- io ti amo…ora ti amo. Ho impiegato un po’ di tempo a capirlo, ma ti giuro che è vero!” Silenzio fra i due. Allora la fanciulla scostò la coperta nella quale teneva nascosto il neonato e aggiunse:” Questo è tuo figlio…quel figlio che hai sempre desiderato e che ti appartiene. Nella vene scorre il tuo nobile sangue ed è il tuo legittimo erede.” Il bimbo aprì gli occhi e si specchiò negli stessi occhi del padre. La rabbia e il rancore dell’Idago si sciolsero immediatamente alla vista del bimbo e lo riconobbe subito come suo. Aveva i suoi stessi occhi e il medesimo odore. Sorrise alla moglie e in quell’istante le sbarre di ira e rabbia che lo tenevano prigioniero caddero a terra. L’amore e il perdono avevano liberato l’Idago che abbracciò la sua famiglia. Mille spiegazioni, mille parole e marito moglie, per la prima volta, gioirono uniti nell’abbracciare il bambino. Il crudele cuore del re era stato conquistato dall’amore e dall’ indulgenza. Qualsiasi barriera al mondo può essere superata dal cuore. L’Idago nascosta la moglie e il figlio nella caverna, velocemente si diresse al suo palazzo e facilmente si liberò degli elfi e delle streghe. Poche battaglie e i suoi nemici erano in fuga e sconfitti. Pochi giorni dopo la fanciulla con il marito e il figlio, tornarono a vivere nel palazzo di marmo e oro bianco, e si amarono per il resto della vita. Nel cuore dell’Idago finalmente albergarono la pace e l’amore. La crudeltà e la morte erano state sconfitte, e la fanciulla fu felice di affidare la sua anima e la sua vita nelle mani del marito e anche di dargli un nome. Il nome dell’Idago fu Lyubov, che in russo significa amore. Il bambino, principe dei regni della magia, crebbe in grazia e bellezza. Guidato dall’amore della madre e dalla forza del padre, divenne un re giusto e stabilì patti di pace con gli elfi, le streghe e i fantasmi. Non usò la cattiveria e la crudeltà per comandare, ma la giustizia e la bontà.

venerdì 16 ottobre 2015

NELLE MANI DELL'IDAGO (RACCONTO)

NELLE MANI DELL’IDAGO Fra le creature della foresta, l’Idago era una delle più terribili. Feroce e crudele come la morte, era riuscito ad arrivare al comando di tutti gli elfi, le streghe e i fantasmi della terra. Solo a nominare il suo nome, le foglie degli alberi cadevano e i laghi si prosciugavano. I fiumi si gelavano come investiti da una glaciale tormenta di neve. Ogni animale che incontrasse l’Idago rimaneva immobile, paralizzato dalla paura dei suoi occhi di ghiaccio, mentre coloro che si fermavano a guardarlo un solo istante di più, impazzivano e perdevano la memoria poiché lo sguardo del terribile essere stregava i sensi e comandava la volontà. Era un re senza castello ma con milioni di sudditi, vivi e morti. Nessun uomo era mai riuscito a vederlo da vivo. Solo i fantasmi potevano vederlo e ne erano terrificati. L’Idago era figlio di un imperatore puma e di un’aquila reale, allevato dal ghiaccio e dalla morte. Gli era stato insegnato ad non aver paura di niente, ad essere crudele e spietato. Dopo tre secoli dalla sua nascita, aveva sottomesso i sovrani degli elfi e la regina delle streghe, così lui stesso aveva assoggettato tutti i regni magici della terra. La morte gli aveva regalato il potere di comandare ogni spirito dell’aldilà che non avesse raggiunto la sua destinazione finale mentre il padre e la madre gli avevano trasmesso la crudele bellezza degli animali. L’Idago non aveva nome, e d'altronde non gli serviva poiché nessuno osava rivolgergli la parola. Imponente e muscoloso, volava basso e veloce, silenzioso come la neve. Aveva artigli più affilati di lame, denti aguzzi come coltelli ma piume morbide e setose, rosse come sangue. Su ogni parte del corpo, verde come le foreste, piccoli smeraldi splendenti. Le ali era grandi e forti e camminava leggero, ma era vigoroso come mille leoni e resistente come il ferro. Nessun essere vivente era in grado di ucciderlo, poiché il suo cuore era protetto dal ghiaccio e dalla morte. Così gli elfi erano piombati nella paura e le streghe si nascondevano nelle valli solitarie pur di non incontrarlo. La feroce creatura si nutriva di spine, uccelli e serpenti. Non conosceva la pietà e non aveva mai provato tenerezza o amore. Era solo come un monarca, ombroso e duro. Padrone per metà del mondo, sentiva però che qualcosa mancava al suo impero. Tutto il potere accumulato doveva tramandarlo ad un suo simile, ma lui era unico al mondo. Non esisteva altra creatura come lui. Così decise di catturare un essere vivente per farne la sua sposa e avere un figlio. Elfi e streghe non lo attiravano così cominciò a cercarne una donna che fosse bella, di sangue nobile ma crudele come lui. Trovò tante fanciulle che incontravano i suoi gusti, di nobile lignaggio, figlie di re e imperatori, quando un giorno vide una bellissima ragazza che zappava la terra. Non era né nobile né crudele ma bella come un raggio di sole e sentendola parlare con le altre persone, buona come l’amore. Per la prima volta la terribile creatura si innamorò di un altro essere vivente. L’Idago era terrorizzato…perché mai si sentiva così strano? Nel petto, il suo cuore andava a fuoco, il respiro era affannoso e brividi di piacere percorrevano il suo corpo piumato. Dimenticò l’umile origine della fanciulla, figlia di un contadino, così la sera la rapì portandola nella sua caverna, fra le foreste della Russia. Da secoli viveva in quella caverna sconosciuta, ricoperta da pelli di animali e decorata da pietre preziose. La ragazza, poverina si ritrovò sola, nelle mani dell’Idago, senza sapere chi fosse e cosa volesse da lei. Il posto dove l’aveva portata era caldo per via dei fuochi accesi all’interno e reso luminoso dalle migliaia di rubini e diamanti che brillavano. Tremante chiese, stringendosi le braccia al petto: “Chi sei e perché mi hai portato qui?” L’Idago fiutò la sua paura ma decise di essere sincero. Cercava di non usare i suoi poteri per influenzarne la mente e la volontà. Desiderava che la fanciulla rimanesse lucida e cosciente di sé stessa, ma era totalmente soggiogato dalla bellezza della ragazza. Ciò che lui stava provando aveva zittito la crudeltà del suo cuore. Così con voce profonda le disse: “ Sono il padrone di tutti i regni sconosciuti della terra e comando gli elfi, le streghe e gli spiriti. Ho diritto di decidere la vita e la morte di chiunque e sono di nobile stirpe, ma ho bisogno di tramandare il mio potere e la mia ricchezza e poiché non ho un erede ho deciso di sposarti e avere un figlio da te. La tua bellezza mi ha fatto dimenticare che non sei di sangue blu e crudele come me. Ma appena ti ho vista ho stabilito che saresti stata la mia sposa.” La fanciulla sgranò gli occhi inorridita. Pensò: “ Sposare un animale, che benché molto bello, rimaneva una bestia? Terribile!” Non le importava se aveva poteri soprannaturali, ricchezze infinite, ed era un re. Non le importava neanche se era un bellissimo animale. Lei era un essere umano nelle mani di un pazzo. L’Idago quasi leggendole nella mente aggiunse: “Non devi aver paura di me, non ti farò del male e come mia moglie, avrai tutto ciò che desideri. Sarai rispettata, ma ciò che pretendo da te è la tua fedeltà. I miei sudditi non mi amano e non sono miei amici. Quindi non avrai contatti né con gli elfi né con le streghe poiché essi non aspettano altro che ribellarsi e spodestarmi dal potere. Vogliono le mie ricchezze e la mia reggenza.” La fanciulla si guardò allora intorno. Preziose pelli di animali fissate alle pareti e pietre preziose, ma quel posto rimaneva sempre una caverna. L’Idago sorrise ed aggiunse: “ E non preoccuparti per questa caverna. Non vivrai qui… farò al più presto costruire un palazzo dove potrai abitare ed esserne la regina. Non ti mancherà nulla, te lo prometto. Ciò che solo desidero è che tu rimanga accanto a me per il resto della tua vita…Ti chiedo troppo?” La fanciulla non rispose ma chinò la testa in segno di assenso. Aveva accettato le condizioni dell’animale. D'altronde non aveva alternative ma un profondo senso di rabbia e ingiustizia le invasero l’anima. Era un ultimatum e lei, in fondo, non aveva scelta. Così dopo pochi giorni L’Idago sposò la fanciulla, e pochi mesi dopo, la portò a vivere in un immenso palazzo di marmo rosa e oro bianco, costruito dagli elfi e dalle streghe e nascosto dai boschi. Era inaccessibile a qualsiasi esseri umano. Oramai sposa del mostro, la fanciulla però era circondata da agi e ricchezze infinite. Il suo sposo la colmava di premure, le faceva mille regali, era gentile e affettuoso. Abiti sfarzosi, cibi sopraffini. Nulla le era negato e l’Idago stesso le raccontava storie bellissime ed avventure. Ma, nonostante tutto, essa continuava a covare nel cuore rancore e rabbia. Non gli aveva perdonato di essere stata strappata con la forza dalla sua famiglia, dalla sua terra e soprattutto essere stata costretta a sposarlo. Così si rivolse di nascosto ai sovrani degli elfi e alla regina delle streghe per far imprigionare l’Idalgo, e in cambio, farla fuggire. Lei avrebbe ceduto tutte le ricchezze, il palazzo e i regni del marito. Così la sera del tradimento, la fanciulla fece bere all’Idago, mescolato nel vino, una pozione che le streghe le avevano dato per farlo dormire profondamente. Appena addormentato, decine di elfi e streghe lo portarono nella sua vecchia caverna e bloccarono l’ingresso con sbarre magiche fatte di odio e ira. L’animale era schiavo di sé stesso ed infatti quando si svegliò dal sonno profondo, impazzì di rabbia, e nel veder allontanare la sposa che tornava alla sua casa, le gridò come un forsennato: “ Io ti amavo e non ti ho mai fatto niente di male! Ti ho dato tutto ciò che avevo e mi hai tradito. Mi hai fatto imprigionare dai miei nemici! Ti avevo donato il mio cuore e mi hai pugnalato alle spalle.” La ragazza si tappò le orecchie alle urla del marito. Le era costato averlo consegnato nelle mani dei suoi nemici, lo aveva fatto soprattutto per orgoglio e per vendicarsi di essere stata costretta a sposarlo contro la sua volontà, ma ora vederlo prigioniero, e il suo palazzo invaso da elfi e streghe che festeggiavano la vittoria, iniziò a dolerle il cuore. Ad ogni passo, punte di pentimento e pena le pungevano il cuore. Si sentiva in colpa e giorni dopo, appena arrivata a casa, si era già pentita di ciò che aveva fatto. Ma ormai non c’era più nulla da fare, e la famiglia la riaccolse con gioia. La fanciulla riprese la sua solita vita, fatta di lavoro, fatica e miseria. Ma qualche settimana dopo si accorse di essere incinta. Erano tanti giorni che aveva nausea e le girava la testa. Un tempo sarebbe impazzita di orrore e paura nel dare alla luce chissà quale mostro, ora invece ne era contenta poiché in tutti quei mesi non aveva fatto altro che pensare all’Idago, alla sua gentilezza, alle sue premure e ai mesi che insieme avevano trascorso nel loro palazzo. Incredibile a dirsi, la ragazza si era innamorata del marito. Pochi mesi dopo, di nascosto a tutti i suoi familiari che non si erano accorti della gravidanza, in una vecchia capanna del bosco, la fanciulla diede alla luce da sola il figlio dell’Idalgo. Non era un animale, non aveva ali, né artigli, ma era un bambino come gli altri. Aveva solo gli occhi uguali al padre, chiari come il ghiaccio. Ma era un bambino bellissimo, più bello di qualsiasi neonato mai visto ed era l’erede legittimo dei regni del marito. Fu in quel minuto, nell’attimo esatto in cui lo prese fra le braccia che la ragazza decise di tornare dall’Idago, liberarlo e fargli vedere il figlio che aveva sempre desiderato. Tornò nella casa dei suoi genitori con il bambino, raccontò loro tutta la storia, quindi li abbracciò e li salutò per l’ultima volta. Aveva deciso di tornare indietro, chiedere perdono al marito per il suo tradimento e dare una famiglia al bambino. Quel bimbo così amato e così bello aveva diritto a stare anche con il padre, vivere nel suo palazzo ed avere una vita serene e felice. Così, lasciata la casa dei genitori, con il bambino fra le braccia, camminò vari giorni, dirigendosi verso la caverna dell’Idago. Ogni tanto si fermava, puliva il figlio e gli dava il latte. Lo baciava e coccolava, fiera di aver dato alla luce un bambino così bello e perfetto. Il cammino era lungo, e molte volte la ragazza dovette nascondersi perché aveva visto arrivare qualche strega o un elfo. Aveva paura che le impedissero di liberare il marito. Quando arrivò davanti l’ingresso della caverna, l’Idago la aspettava davanti alle sbarre poiché aveva fiutato già il suo arrivo. Era ritto, tetro e ombroso, lo guardo duro come il granito. La fanciulla nascondeva il bimbo alla vista del padre . Giunta davanti lui, con un nodo in gola, mormorò pentita, timide scuse: “ Perdonami- gli disse contrita- per tutto ciò che ho fatto. Ho voluto soddisfare la mia sete di vendetta, ma ho capito che stavo sbagliando subito dopo essere andata via…” L’Idago taceva. La ragazza gli si inginocchiò davanti, piangendo. “ Scusami-implorava- io ti amo…ora ti amo. Ho impiegato un po’ di tempo a capirlo, ma ti giuro che è vero!” Silenzio fra i due. Allora la fanciulla scostò la coperta nella quale teneva nascosto il neonato e aggiunse:” Questo è tuo figlio…quel figlio che hai sempre desiderato e che ti appartiene. Nella vene scorre il tuo nobile sangue ed è il tuo legittimo erede.” Il bimbo aprì gli occhi e si specchiò negli stessi occhi del padre. La rabbia e il rancore dell’Idago si sciolsero immediatamente alla vista del bimbo e lo riconobbe subito come suo. Aveva i suoi stessi occhi e il medesimo odore. Sorrise alla moglie e in quell’istante le sbarre di ira e rabbia che lo tenevano prigioniero caddero a terra. L’amore e il perdono avevano liberato l’Idago che abbracciò la sua famiglia. Mille spiegazioni, mille parole e marito moglie, per la prima volta, gioirono uniti nell’abbracciare il bambino. Il crudele cuore del re era stato conquistato dall’amore e dall’ indulgenza. Qualsiasi barriera al mondo può essere superata dal cuore. L’Idago nascosta la moglie e il figlio nella caverna, velocemente si diresse al suo palazzo e facilmente si liberò degli elfi e delle streghe. Poche battaglie e i suoi nemici erano in fuga e sconfitti. Pochi giorni dopo la fanciulla con il marito e il figlio, tornarono a vivere nel palazzo di marmo e oro bianco, e si amarono per il resto della vita. Nel cuore dell’Idago finalmente albergarono la pace e l’amore. La crudeltà e la morte erano state sconfitte, e la fanciulla fu felice di affidare la sua anima e la sua vita nelle mani del marito e anche di dargli un nome. Il nome dell’Idago fu Lyubov, che in russo significa amore. Il bambino, principe dei regni della magia, crebbe in grazia e bellezza. Guidato dall’amore della madre e dalla forza del padre, divenne un re giusto e stabilì patti di pace con gli elfi, le streghe e i fantasmi. Non usò la cattiveria e la crudeltà per comandare, ma la giustizia e la bontà.

giovedì 15 ottobre 2015

Il FANTASMA SENZ’ANIMA La fulgida bellezza di Edoardo era stata incenerita dalla peste che nel 1630 era scoppiata a Milano. L’epidemia non aveva risparmiato nemmeno la nobile famiglia del giovane ed uno ad uno, tutti i familiari, straziati e torturati erano morti fra mille sofferenze. Edoardo aveva lasciato questa vita per ultimo, dopo aver seppellito i suoi cari e soprattutto l’amato fratello. Per settimane, notte e giorno, aveva pregato che la terribile malattia risparmiasse i suoi cari ma le sue invocazioni erano rimaste vane e così quando l’ora della morte era arrivata anche per lui, Edoardo era pieno di odio per la vita, per il destino, per tutto l’universo. La sua anima tracimava di rancore liquido e miseria d’amore. Vent’anni erano sufficienti per spirare gridando contro la vita e l’universo? Sembrerebbe di sì e così Edoardo, livido di violenza, era diventato un fantasma, schiavo del suo rancore e del suo astio. Aveva mantenuto la bellezza della mortalità…anzi, nell’oltretomba era diventato ancora più bello…nemmeno il sole o la luna era così splendenti, ma rimaneva prigioniero di un mondo freddo, silenzioso e solitario. La condanna che gli era stata inflitta erano stati infatti mille anni di solitudine. Il suo fantasma aveva accesso al mondo dei viventi, ma non poteva essere visto da nessuno, non poteva parlare con le persone e non poteva toccare niente. Nemmeno con gli altri fantasmi come lui poteva comunicare ma poteva tentare di influenzare solo i pensieri degli esseri viventi poiché i fantasmi sono fatti di elettricità e quindi possono condizionare la trasmissione elettrica dei neuroni. Ma Edoardo era completamente solo e così dal giorno della sua morte, aveva vagato per le città, per le valli, cattivo e perfido, influenzando e portando alla violenza qualsiasi essere vivete incontrasse. Non gli importava più nulla di ciò che faceva e magari delle conseguenze. Cosa importava se invece di mille anni, la sua condanna sarebbe stata allungata a diecimila anni? Edoardo non aveva più cuore né anima. La cattiveria era la sua vendetta. La vita gli aveva tolto tutto, anche il caro fratello amato più di chiunque altro e più giovane di lui di dieci anni. Così per secoli questo fantasma si era vendicato sugli esseri viventi. Se c’era una violente lite, se c’era una guerra o un incidente, sicuramente Edoardo era vicino. Ma dopo tre secoli, questo terribile fantasma aveva cominciato ad annoiarsi. Aveva visto ogni città del mondo, ogni paese e conosciuto ad uno ad uno ogni abitante della terra. Per Edoardo non esisteva notte né giorno ma un lungo e infinito secondo nel quale si muoveva alla velocità della luce, raggiungendo qualsiasi luogo del pianeta. Ogni tanto il riflesso del sole illuminava la sua bellezza, luminosa e splendente e si chiedeva perché la vita gli era stata tolta così presto. Non si era potuto sposare, né avere figli. Non aveva potuto godere della sua famiglia e la ricchezza della nobiltà non aveva salvato i suoi cari. Gli mancava un figlio, al quale potere dare il nome di suo padre e tramandare il nobile casato. Gli mancava la dolcezza di una moglie, ma ora era troppo tardi. Finita la sua condanna cosa ne sarebbe stato di lui? Un fantasma che nell’aldilà aveva commesso solo cattiverie, a cosa era destinato? Probabilmente a rimanere ancora incastrato nel silenzio e nel ghiaccio della sua condanna. Nessuno avrebbe avuto pietà per la sua anima poiché il suo cuore da troppo tempo si era dato all’odio e alla cattiveria. Così mentre vagava all’alba, nei boschi delle Alpi, vide un cacciatore che si era infortunato. Era a terra, dolorante, mentre con un telefono chiamava aiuto. Ma Improvvisamente dai boschi un terribile orso fiutò il suo sangue e pericolosamente si avvicinò al malcapitato. Edoardo comprese subito il pericolo e per la prima volta in trecento anni, fece una buona azione. Si intrufolò nei pensieri dell’animale e riuscì a distrarlo e ad allontanarlo dal cacciatore. Pochi minuti dopo l’infortunato era stato soccorso e portato in ospedale da alcuni amici. Edoardo lo seguì, chiedendosi perché lo aveva salvato. Cosa mai gli stava accadendo? Non era la cattiveria l’unico cibo della sua anima. Cosa gli importava di fare una buna azione? Perso nei suoi pensieri, non si accorse che nella stanza dell’ospedale dove il cacciatore era stato ricoverato, entrarono la moglie e i figli. Un bambino di dieci anni e una ragazza. Edoardo aveva visto molte donne, ma nessuna era bella come quella. Faceva quasi male guardarla, come quei capelli castani come la corteccia degli alberi e gli occhi color dei boschi estivi. E il fratello lo traumatizzò ancora di più. Simile per tanti aspetti al suo povero fratello scomparso. Edoardo li vide affettuosi e solerti accanto al padre e la vista di quella bellissima famiglia lo fece sentire ancora più solo e disperato. Anche lui voleva una famiglia simile, con l’amore di una donna e il dolce tepore del sorriso dei figli….invece la sua esistenza terrena era stata breve e superficiale e la sua morte, cruda, dolorosa e cattiva. Così per la prima volta, da quando aveva lasciato questa terra, pregò. Pregò il cielo di avere pietà della sua anima….chiese perdono dei suoi sbagli…quelli terreni ma soprattutto quelli commessi nell’aldilà…chiese perdono per la sua cattiveria che gli aveva tolto l’anima e il cuore e chiese anche l’impossibile: Tornare in vita e avere una famiglia…voleva essere amato come quel cacciatore e poter stringere fra le braccia quella bellissima ragazza. Edoardo non sapeva nemmeno se cielo l’avrebbe ascoltato…ora che aveva visto quale gioia e felicità dona l’amore di una famiglia, anche lui voleva provare quelle emozioni e così continuò ad invocare il cielo con preghiere e suppliche. Non si allontanò più da quella bellissima fanciulla e quando il cacciatore fu dimesso, il suo spirito li seguì nella loro casa e non li lasciò più. Passarono i giorni, poi le settimane e il fantasma Edoardo, pazzo d’amore per quella fanciulla, continuava a rimanerle accanto, continuava a pregare il cielo che lo perdonasse e per una volta infrangesse le regole e cioè farlo tornare in vita per poterla sposare. Ogni sua parola era rivolta al cielo, ma per quanto lo invocasse, nulla della sua condizione era cambiata. L’infinito non lo perdonò e così passarono gli anni e Il povero fantasma vide la sua amata ragazza innamorarsi di un altro ragazzo, frequentarlo e dopo pochi mesi, sposarlo. Edoardo le rimase vicino durante la cerimonia nuziale...e non la lasciò nemmeno quando partì per il viaggio di nozze. Era presente alla nascita dei suoi figli…era vicino a lei durante tutto giorno, quando andava al lavoro, quando cucinava, quando usciva con le amiche. E nelle lunghe serate d’inverno, Edoardo le stava vicino e anche se lei non lo poteva sentire, le parlava dolcemente, mentre il fuoco del camino scoppiettava. E così lentamente gli anni passarono e il fantasma rimase vicino alla sua amata fino alla fine, convinto che almeno nell’aldilà lei l’avrebbe raggiunto come fantasma. Ma La sua amata morì delicatamente, con un sorriso sulle labbra, circondata dai suoi figli e nipoti e da suo marito, ormai anziano. Ma Edoardo non fu raggiunto dal fantasma della ragazza poiché la sua anima era destinata ad un altro luogo, pieno di luce e di felicità e non alla prigione nella quale Edoardo era rimasto fin dalla sua morte. Il povero Fantasma rimase ancora più solo e triste, e si abbandonò alla disperazione. A nulla erano valse le sue preghiere. Gli era stato negato l’amore poiché il suo debito non era stato ancora pagato e le regole del cielo non potevano essere cambiate. Così Edoardo riprese a vagare per la terra, sperando che la giustizia divina non gli allungasse la pena e aspettando di poter essere libero e di poter provare anche lui un po’ di quell’amore che ogni essere vivente, vivo o morto, spera di avere.

domenica 4 ottobre 2015

RACCONTO: IL TEMPO NELLA BOTTIGLIA di LUCINA CUCCIO

IL TEMPO NELLA BOTTIGLIA Il pirata Quattrossa remò faticosamente fino al faraglione. Aveva dato ordini di attraccare il galeone dietro l’Isola dei Venti, lasciando di guardia il suo fido Piedebucato, mozzo e amico da ben dieci anni. Gli aveva intimato che l’equipaggio non poteva per nessun motivo lasciare la nave e che massimo al calar del sole, lui sarebbe rientrato a bordo. Il faraglione ricordava un’ informe pagnotta di pane, così Quattrossa dopo aver trascinato la vecchia barca dentro un’insenatura lunga e stretta, percorse zoppicando una stradina scavata dalle onde. Alghe secche e tronchi avvizziti intralciavano il passo, quando finalmente il vecchio pirata si trovò davanti uno spazio fra gli scogli. Nella tasca trasportava il prezioso tesoro che durante il cammino tenne accostato a sé con la mano per paura di romperlo. La fessura continuava in un budello umido e oscuro che Quattrossa scese lentamente, illuminato dalla torcia che tremolava timida. Pochi metri e si ritrovò in un’ambiente non più grande di una stanza. La torcia si stava spegnendo quietamente così il pirata tirò fuori dalla tasca il suo tesoro. Era una boccia di vetro, verde e panciuta che per qualche minuto il pirata osservò ruotandola con la mano e la nebbia arancione che vi era chiusa dentro si mosse vorticando piano. Avvicinò poi piano piano il piccolo fiasco al viso rugoso e con lentezza le diede un bacio, quindi adagiò a terra la bottiglia coprendola con una pezza bianca che si era portato dietro. Si rimise in piedi e ritornò sui suoi passi. Meno di un’ora dopo il vecchio pirata era già sul ponte della sua nave ordinando di tirare l’ancora e issare le vele. Voleva lasciare al più presto l’Isola dei Venti. “Comandante- esordì il vecchio amico Piedebucato- dove diavolo hai trascinato le tue vecchie ossa? Sei sparito dietro il faraglione e non ti abbiamo più visto. “ “Per mille sputi di vipera!-Sbraitò allora Quattrossa, rivolto alla ciurma- più forza con quelle funi! Il vento sta calando!” Poi si girò verso l’amico con gli occhi fuori dalle orbite: ”Ho la suocera in casa per dirle dove trascino la mia carcassa?” “No ma…” tentò di scusarsi Piedebucato. “Affari miei” ringhiò il bucaniere voltandogli le spalle ingobbite. Scese un gelo infinito fra i due uomini coperto dal frastuono di corde e urla dell’equipaggio. L’indomani navigavano veloci sulla rotta dei mercantili provenienti dall’Inghilterra quando avvistarono una nave della corona inglese e decisero di abbordarla. Purtroppo l’abbordaggio andò male, e i pirati furono sconfitti dopo una breve ma terribile battaglia. La nave inglese era piena di cannoni e un equipaggio numeroso e ben addestrato, così molti dei filibustieri si buttarono in mare per evitare di essere presi prigionieri ma Quattrossa e Piedebucato rimasero sul galeone fino alla fine e con pochi altri della ciurma furono trascinati e messi ai ferri nella nave della corona. “Finalmente ti abbiamo acciuffato” esclamò il comandante dell’ammiraglia. Silenzio. Il pirata taceva. “Ora tu mi sveli tutti i tesori che hai e soprattutto dove sono nascosti.” Continuò il militare avvicinando la spada al collo di Quattrossa. Il corsaro non si mosse nemmeno quando la lama gli tagliò leggermente la pelle e iniziò a sanguinare. “Va bene, come vuoi-si interruppe il comandante- allora vediamo se questo ti scioglierà la lingua.” Un rumore terribile, secco e sordo seguito da un urlo disumano fece sobbalzare il vecchio pirata. Un dito della mano di Piedebucato era stato tagliato di netto con un colpo di spada dal comandante. Quattrossa divenne pallido, quasi esangue alla vista del dolore dell’amato compagno di viaggi e avventure e ai mugolii della sua sofferenza. Dopo aver ingoiato lacrime e sudore sibilò: ”Il mio tesoro più grande si trova nell’Isola dei Venti, dentro una piccola grotta del faraglione nord. E’ dentro una bottiglia, nascosto da uno straccio.” Il comandante della nave, ironico e cattivo gli chiese: “Dentro una bottiglia?” Scoppiò in una fragorosa risata, poi continuò: E che tipo di tesoro è? Polvere di diamanti? oro liquido?” Quattrossa ringhiò feroce: “ C’è il tempo, idiota! Sono riuscito a metterne un po’ dentro la bottiglia dalla Fonte della Morte. Sono l’unico al mondo a possedere il tempo…ma per salvare la vita al mio buon amico Piedebucato sono pronto a rinunciarvi” “La Fonte della Morte?” spiegati Corsaro della malora!” Il vecchio pirata, ispirando pazienza e disgusto per quell’orribile uomo iniziò a raccontare: “ Più di dieci anni fa ho salvato un povero naufrago che prima di morire mi confessò che esisteva nell’Oceano Pacifico un’isola vulcanica, dove c’era una fonte nascosta in una caverna chiamata “Fonte della Morte.” Non vi scorreva acqua ma una nebbia arancione…. Cioè vi scorreva il tempo. Il naufrago era un pirata come me e la sua nave era andata a sbattere contro quell’isola e per caso aveva scoperto quella fonte. Non sapeva cos’era quella nebbia arancione e l’aveva toccata. Il giorno di quel pirata si era allungato di dieci anni. Solo sfiorare quella nebbia fa allungare la vita di tanti anni. Quel pirata non capiva perché il sole non tramontava più, non aveva più fame né sete. Era una strana magia però aveva compreso che quel che gli stava accadendo aveva a che fare con la nebbia. Ma dopo tanti anni passati in quell’isola solitaria ha costruito una zattera e ha tentato di attraversare l’oceano convinto di avere ancora tempo da sfruttare invece non sapeva che la sua scorta di tempo era finita e così in balia delle onde per vari giorni soffrì la fame e la sete finché io non lo salvai dal mare. Ma era troppo tardi ….però prima di morire mi confessò quel terribile segreto. Allora andai personalmente a cercare quell’isola vulcanica, la trovai e scovai la Fonte della Morte. Ma mentre stavo raccogliendo il tempo per metterlo nella bottiglia, un terremoto fece tremare la terra. Il vulcano era esploso. Allora mi allontanai velocemente, raggiunsi la nave e vidi l’isola scoppiare. Ero riuscito a salvare un po’ di nebbia nella bottiglia ma averla toccata aveva allungato la mia vita di trent’anni e reputo quella bottiglia il tesoro più grande che posseggo.” Il vecchio pirata tacque. Il racconto per quanto incredibile aveva interessato il perfido comandante che chiese:” Quindi chi tocca la nebbia vive un giorno lungo anni?” Quattrossa rispose: “ E’ così.” Il signore dell’ammiraglia improvvisamente con la spada uccise il povero mozzo Piedebucato, poi Quattrossa e i pirati che aveva catturato. La confessione che aveva ascoltato era sufficiente. Aveva ragione quel vecchio pirata. In quella bottiglia c’era il tesoro più grande del mondo. I soldati della nave lo videro infilzare con rabbia felice uno ad uno i poveri bucanieri, insensibile alle urla e al sangue che sporcò il pavimento e le pareti. Poi diede ordine di raggiungere al più presto l’Isola dei Venti. Non voleva perdere un secondo in più e desiderava al più presto impossessarsi di quella bottiglia Pochi giorni dopo, seguendo le indicazioni di Quattrossa, il comandante con l’ammiraglia arrivò all’Isola dei Venti. Non disse a nessuno dove sarebbe andato e diede ordine all’equipaggio di non muoversi per nessuna ragione. Quindi con una scialuppa si allontanò dalla nave, raggiunse il faraglione nord e trovò facilmente la caverna e la discese quasi tremante dalla gioia. Alla vista della bottiglia esultò, gridando come un pazzo. La commozione era infinita ma nell’attimo preciso in cui aprì la bottiglia e la nebbia ne uscì, spargendosi sulle sue mani, un dolore feroce al petto lo colpì come una fucilata. Nausea e vomito lo distrussero in un momento. Gli era venuto un infarto dalla troppa felicità. Un malessere infernale lo sconvolse. Attese, sdraiato a terra che tutto quel male finisse. Piangeva e urlava dagli spasimi e la sofferenza gli impedivano di muoversi. Vomitava sangue e acido, ma il tempo passava, e il comandante, torturato e sofferente comprese che la nebbia aveva fatto allungare quel terribile giorno di dolore per centinaia e centinaia di anni. Il dolore, la nausea e il disgusto non sarebbero passati più. Dopo varie settimane, l’equipaggio si convinse che il comandante era morto, quindi il sottufficiale diede ordine di salpare e lasciare l’isola. Ma nessuno sapeva invece che il comandate era rimasto lì, in quella caverna a torcersi nel vomito e nello schifo, solo e al buio e preda del dolore e dei fantasmi di Quattrossa e Piedebucato che lo tormentarono per centinaia di anni. E quell’orribile uomo è ancora lì, aspettando, soffrendo e piangendo che il suo tempo finisca al più presto. Qualsiasi tesoro, anche il più grande, se cade nelle mani sbagliate difficilmente dà la felicità.